Anche
per le corporazioni o per il corporativismo - due fattori diversi, ma
non per tutti chiaramente - c'è una medaglia, con un verso da
una parte, ma non uno solo, bensì tanti, dall'altra. Perché?
Per la semplice ragione che anche le enciclopedie e i vocabolari, facendo
a meno di disturbare storia e dottrina, ci forniscono tanti significati
e rilevanze molto lontani e forse contraddittori tra loro. I vocabolari,
ad esempio, ci dicono che la corporazione è un complesso di persone
che costituisce un corpo distinto nella società. Una categoria
a sé stante, cioè - aggiungiamo noi -oppure un ordine
professionale, talvolta pure una sorta di lobby, in Italia, sempre,
con gli occhiali neri.
Ma gli stessi vocabolari scrupolosamente aggiungono che la corporazione
è anche un organismo che riunisce i rappresentanti dei lavoratori
e dei datori di lavoro di una determinata categoria. In questo caso
forse si riferiscono solo al corporativismo fascista, che, a parte le
peculiarità di cui esso si è vantato, ha una ben diversa
storia alle sue spalle e, secondo alcuni, davanti a sé.
C'era stato, infatti, un associazionismo all'epoca dei Romani, erano
sopravvenute poi le corporazioni medioevali. In Italia, dopo la prima
guerra mondiale, il cattolicesimo sociale lasciò gli schemi corporativi
in favore del sindacalismo, che ne ha subìto o nascosto le suggestioni
nelle sopravvenienze democristiane (ex o neo). Poi è intervenuto
il fascismo, con la sua formula.
Le corporazioni sono state istituite nel febbraio del 1934, con 22 ramificazioni
settoriali o merceologiche, con lo scopo - istituzionalmente mai conseguito
- di realizzare l'autogoverno delle categorie produttrici e un economia
associata sotto il controllo dello Stato. Nel 1927, però, era
stata già creata una Carta del Lavoro, una sorta di statuto dell'ordinamento
corporativo fascista, contemporanea o di poco successiva al cosiddetto
accordo di Palazzo Vidoni, sede allora del Partito Fascista, che gettò
le prime basi di un incontro-accordo tra Confindustria e Confederazione
fascista dei lavoratori, solo però fino al 1934 unitaria sotto
la guida di un leader, Edmondo Rossoni.
Ed oggi? Oggi si parla di corporativo in senso per lo meno sospetto
e comunque il più delle volte negativo, perché starebbe
a significare solo difesa intransigente di settoriali interessi, e a
suo superamento si è escogitata la formula della concertazione
tra governo e sindacato, nella quale c'entra ancora una volta lo Stato.
Pure contro
"la vita comoda".
Tutto questo preambolo (che, come si vede, non dice nulla di nuovo,
ma che a me nell'occasione ha fatto registrare qualche sorpresa, quando
leggo ad esempio che Enrico Corradini, fondatore in Italia del nazionalismo,
è stato anche uno degli ispiratori del corporativismo) tende
a dare un certo spessore ai miei tentativi di "medaglioncini",
che vengo ripetendo su queste pagine, con le mie molto marginali,
ma personali, testimonianze.
Anche io infatti ho la mia da dire, per motivi di presenza generazionale.
Le Corporazioni hanno avuto, non foss'altro che per ragioni di terminologia,
una rilevanza sontuosa. La fantasiosità dannunziana di quei
tempi ne faceva quasi una sorta di via dell'Impero del lavoro, ancora
una volta garantito dallo Stato. Questo nelle intenzioni interveniva
per mediare, in sostanza per concludere. C'erano naturalmente i lavoratori
da un lato e gli imprenditori dall'altro, c'erano i rappresentanti
del partito ai quali era stato attribuito il compito di difendere
gli interessi dei consumatori, che anche i lavoratori facevano intendere
di rappresentare, c'era un presidente che era espressione di governo
e di partito. lo personalmente nella mia mente ne feci derivare la
conclusione che il corporativismo altro non era se non la rappresentazione
della lotta di classe gestita dallo Stato per conto dei lavoratori.
Ma questa mia conclusione non doveva essere esatta - per me invece
lo è stata - perché alcuni decenni dopo ne ebbi la smentita
da un mio vecchio compagno di lavoro. Eravamo stati insieme tra il
1935 e il 1938 alla Confederazione dei lavoratori del Commercio, io
a dirigere l'Ufficio Corporativo e lui l'Ufficio Prezzi. lo passai
alla Confindustria e lui si raccomandò a me nel mio commiato
perché trovassi anche a lui uno sbocco. Lo trovai all'Ufficio
Corporativo del Ministero dell'Africa Italiana, dal quale, cessato
il ministero per mancanza di materia prima, egli fu trasferito all'IRI,
dove poi è divenuto presidente della Finsider e così
pure cavaliere del Lavoro, onorificenza allora notevolmente prestigiosa.
In un incontro rotaryano ebbi occasione di parlargli della mia suddetta
definizione, egli però la corresse con "nell'interesse
dei datori di lavoro".
Era questa l'interpretazione che ne faceva come capo di un'azienda
a partecipazione statale o era una constatazione che gli derivava
quale ex dei lavoratori?
In sostanza, il corporativismo ha significato tante cose, ha avuto
tante diverse interpretazioni e applicazioni. E' stato surclassato
dagli organismi che in funzione della "rivoluzione continua",
delle emergenze che si susseguivano l'una dopo l'altra (governo originario
di coalizione, delitto Matteotti, Aventino, discorso del 3 gennaio,
tribunale difesa dello Stato, difesa della lira, Patto a quattro,
guerra etiopica, sanzioni, autarchia, intervento in Spagna, occupazione
dell'Albania, economia di guerra, ecc.), accantonavano le Corporazioni
e facevano intervenire nuovi comitati e commissioni, più o
meno supreme, ma sempre presiedute da Mussolini. E queste commissioni
avevano a che fare con i prezzi che dovevano essere controllati al
millesimo ed ovunque, però erano battaglie nelle quali a vincere
erano le mosche, come ammoniva una barzelletta del tempo; con l'autarchia,
che doveva renderci impermeabili e sommamente sprezzanti rispetto
alle sanzioni; con l'economia di guerra, che nella fase preparatoria
e solo di qualche mese anteriore alla dichiarazione bellica era tanto
efficacemente praticata da consentire nostre esportazioni di materiale
bellico proprio ai nostri diretti e confinanti nemici. E così
via...
Il corporativismo è stato questo. Con le critiche che riguardavano
l'assoluta mancanza di democraticità, perché nessuna
carica era elettiva. Nel "fior da fiore" che si può
stralciare dalle segnalazioni riservate fatte a Mussolini e da lui
conservate nel proprio archivio personale, c'è naturalmente
anche una parte concernente Balbo e pure le sue frequentazioni. Vi
si legge tra l'altro: "Balbo in un incontro tra amici ha detto:
"Il popolo non ha alcun mezzo per far sentire la propria voce.
Non ha lo sfogo necessario. lo sono contro le investiture dall'alto.
Il Capo lo sa. Tutto l'ordinamento sindacale e corporativo non è
che una sovrapposizione di funzionari. Le categorie devono essere
rappresentate dai loro uomini"". E nella segnalazione a
Mussolini si riferisce che Fontanelli, suo interlocutore e di cui
dirò più innanzi, gli ha risposto: "Io invece per
le assemblee dei chirurghi e non dei malati", provocando la replica
di Balbo con un "Io invece sono per le elezioni. Le elezioni
sono un termometro, servono a misurare la temperatura del popolo".
Il corporativismo, non già ai suoi albori ma sulla tormentata
via della sua conclusione, aveva a che fare con queste riflessioni.
Con le speranze di taluni. Uno di questi, Edmondo Rossoni, dopo il
suo trasferimento da leader dei lavoratori a ministro dell'Agricoltura,
ebbe a dirmi che la rivoluzioni o si sarebbe fatta, lì al suo
ministero, o non si sarebbe fatta mai. Con le delusioni e le magiche
attese di qualche altro. Uno di questi era il già ricordato
Luigi Fontanelli, ferrarese direttore del quotidiano dei lavoratori,
che ebbe a dirmi che ci sarebbe stato sempre bisogno del corporativismo,
del suo corporativismo, pur denominato semplicisticamente e solo "granita
di caffè con panna".
Tante facce, dunque, sul retro di questa tormentata medaglia. Per
cercare di capirne di più, forse si può fare riferimento
anche alla filosofia, e nell'occasione alla definizione di fascista.
L'aveva fatta ovviamente Giovanni Gentile, ma quella che ho sotto
mano è quella dello stesso Mussolini e di Emil Ludwig, autore
quest'ultimo degli editorialmente tormentati (la prima edizione mondadoriana
ufficiale fu tolta dalla circolazione per i postumi pentimenti di
Mussolini) Colloqui con Mussolini. La frase è questa: "Quando
un filosofo finlandese mi pregò recentemente di illustrare
in una frase l'essenza del fascismo, io scrissi in lingua tedesca
queste parole inequivocabili: "Noi siamo contro la vita comoda"".
E secondo me il ripudio appunto della "vita comoda" ci ha
dato anche questo corporativismo, che nel corso dei secoli in una
maniera o nell'altra - si chiamasse pure granita di caffè con
panna - ha tentato e tenterà di trovarsi uno spazio. Oggi ha
naturalmente le sue nuove strategie: concertazione, fare sindacato,
solidarismo economico, welfare, ecc: perciò, nulla di nuovo
sotto il cielo. Fin qui abbiamo indugiato, immaginariamente e rapidamente
sfogliando un grosso libro o scorrendo alla moviola un più
o meno lungo metraggio.
Il sistema
mezzadro del regime
Io a mia volta c'entro così. Nel gennaio del '35, già
giornalista dal '28, divenendo capo dell'ufficio corporativo della
Confederazione dei lavoratori del commercio, e con le Corporazioni
funzionanti solo perché da pochi mesi istituite, cominciai
a redigere le mie relazioni sui tanti temi e problemi allora in discussione,
cercando di esporre gli interessi diretti e genericamente indiretti
delle categorie rappresentate e intervenendo alle riunioni quando
ne era assente il presidente della mia Confederazione, e in sua vece.
I temi erano tanti, i problemi reali erano di meno, le risoluzioni
che comunque dovevano essere unanimi di meno ancora. La fantasiosità
regnava sovrana, perché il lavoro delle corporazioni doveva
essere massiccio. Gli imprenditori da una parte cercavano di prendere
e dall'altra cercavano di ridurre al minimo le estranee ingerenze.
In quelle Corporazioni giravano grossi nomi, fondatori non solo di
aziende, ma di industria. C'erano i Donegani, i Pirelli, i Falck,
i Costa, gli Olivetti (Gino), i Marzotto, i Marinotti, non c'erano
gli Agnelli, a differenza, oggi, dell'Avvocato. I lavoratori, dal
canto loro, avevano problemi non sempre consistenti, perché
quelli più incisivi venivano affrontati dal Comitato Corporativo
Centrale. E perciò erano impegnati a condizionare il più
possibile i problemi formulati dagli altri. Le definizioni che ne
derivano avevano come arbitro, più che il presidente della
corporazione, la burocrazia del ministero, che offriva soluzioni dettate
dalla interpretazione sia tecnica, sia di cosiddetta opportunità,
sia di "utilità generale", sia di "equilibrio",
sia di socialità, e così via.
Termini questi sempre attuali, immortali addirittura, ricercati e
tentati in ogni tempo delle società, delle culture, dei sistemi,
dei linguaggi, delle civiltà. (E non so se ho tralasciato qualcuno
dei valori da menzionare). In queste condizioni non si può
certo dire che le Corporazioni, il corporativismo e così via,
abbiano costituito fattori di storia e di trasformazione della società.
Perciò non sono state motore, ma forse un diversivo, certamente
un tentativo terapeutico di calmante. I binari della storia di quegli
anni erano altrove. Però ufficialmente in taluni periodi si
faceva credere o si credeva che fossero anche lì: in quel littorio
Palazzo delle Corporazioni, che oggi è sede in via Veneto del
ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato (qualifica
quest'ultima alla quale anni dopo mi è occorso di concorrere
a determinare).
Comunque, allora i Palazzi erano diversi, ma anche allora, come oggi,
ne conta uno solo. Allora era a Piazza Venezia, oggi è quello
della riverita (non da me) immagine di Pasolini. La dittatura evidenziava
un grande salone e un balcone, la democrazia oggi la stanza dei bottoni,
gli scheletri negli armadi, ecc.
In questo contesto s'inseriscono i miei "medaglioncini",
che riguardano Gino Olivetti, Ezio Maria Gray, Riccardo del Giudice,
Alessandro Pavolini, Domenico Giampietro Pellegrini, Vincenzo Buronzo.
Tanti manzoniani "chi era costui?", con l'eccezione per
Pavolini, che, come si sa, dopo Mussolini è stato il primario
della Repubblica di Salò.
Gino Olivetti, che non ha mai avuto a che fare con il più famoso
Adriano, è stato una molla della nascita della Confindustria,
che risale al 1919 e certamente ha avuto la sua fucina a Torino, da
cui si è trasferita a Roma, avendo appunto in Olivetti, avvocato,
il suo primo e abbastanza duraturo segretario generale. Ne perdette,
infatti, l'incarico nel corso del '34, allorché il regime con
la nascita delle Corporazioni mutò anche la strutturazione
delle organizzazioni di categoria. Nell'occasione, per le categorie
imprenditoriali fu sostituita anche la figura del segretario generale
con quella del direttore generale. Si disse che una delle ragioni
di questo mutamento di denominazioni e quindi di funzioni sia stata
anche la poca simpatia del regime, cioè di Mussolini, per Olivetti,
definito allora "malinconico signore", quando invece erano
più "regolamentari" l'entusiasmo, le divise, le ganasce
possibilmente volitive e via dicendo.
C'è tutta una bibliografia illustrativa della nascita della
Confindustria. Essa è tuttavia largamente incompleta, perché
molti fatti pur importanti si sono esauriti nella loro documentarietà
in una tradizione orale che è finita, e perché le superstiti
tracce sono molto sommarie e si affidano anche a computers, a capacità
molto occasionale di raccolta di dati (per esempio, i miei 40 anni
di lavoro alla Confindustria, con incarichi di un certo rilievo -cui
faccio cenno solo perché la mia età avanzata mi porta
sempre più lontano, disincantato dal passato - trovano traccia
nei computers confederali solo perché nel 1946 sono stato direttore
responsabile de La Gazzetta per i Lavoratori, voluta allora dal presidente
della Confindustria, Angelo Costa, con uno scopo di dialogo imprenditoriale
per i lavoratori, che a quei tempi era tutt'altro che accettato e
gradito dalla CGIL di Di Vittorio. Frequenti a quei tempi mi giungevano
minacciose, anonime naturalmente, reazioni degli operai di Sesto San
Giovanni o dei portuali di Genova).
Delle radici della Confindustria, a indicazione del clima e delle
ragioni, mi piace riportare una dichiarazione del cav. Agnelli (allora
veniva preceduto da questo titolo) sul finire del 1918, nella quale
dopo la sottolineatura dell'impegno esplicato nella guerra vittoriosa,
si afferma: "A questo notevole sforzo industriale, a questa efficace
collaborazione, il governo ha contrapposto tasse, sopratasse e purtroppo
anche talvolta intralci di vario genere sullo svolgimento del difficile
compito: tasse ed intralci che possono non soltanto arrestare a breve
scadenza lo sviluppo di questo potente e sano organismo, ma che possono
anche gravemente pregiudicare il suo avvenire". Agnelli si riferiva
alla Fiat, ma il richiamo riguardava l'industria tutta intera, in
rappresentanza naturalmente anche delle aziende medie e minori, la
cui voce era allora molto tenue.
La filosofia, o se più vi piace la strategia della Confindustria,
si può rilevare più o meno con gli stessi termini negli
anni successivi, con le varianti di modulazione che i tempi hanno
determinato.
Gino Olivetti ne è stato interprete, un motore non secondario,
a Roma, prima come ho detto quale segretario generale della Confindustria,
e poi, con cambio della guardia, presidente dell'Istituto cotoniero
italiano a Milano e vice presidente della Corporazione tessile a Roma.
L'ho conosciuto, gelido come sempre, nell'esercizio di questa funzione
in una riunione della Corporazione del 1937. lo vi rappresentavo il
presidente della Confederazione dei lavoratori del commercio, e proposi
all'attenzione di quell'assemblea l'opportunità di applicare
sui tessuti autarchici di quei tempi (c'era addirittura il lanital,
un tessuto ricavato anche con la caseina del latte!) un'etichetta
indicativa della composizione dei tessuti. L'idea me l'aveva suggerita
un agente di commercio, appartenente alle organizzazioni di categoria
che rappresentavo, e io ne avevo fatto oggetto di una relazione ad
un convegno del tessuto autarchico che si era da poco svolto a Forlì.
Orbene, Olivetti, che delle proposte di quel convegno era informato,
bruscamente interruppe la discussione, quasi attribuendomi un'indebita
pretesa. Una "pretesa" che da mezzo secolo è mondiale
etichetta. Gli industriali però, allora, a parte i grandi marchi
delle singole grandi imprese, non ammettevano questo tipo di vincolo,
normativo o da authority, che in quei tempi non era stata ancora inventata.
I miei primi approcci, contrapposti come si vede, sono stati questi.
Altri erano derivati prima dalla mia conoscenza e partecipazione all'attività
corporativa, che illustravo e commentavo anche giornalisticamente
quale professionista.
Un nostro collega, Italo Minunni, che in quegli anni dirigeva L'Organizzazione
Industriale e disponeva di scarse fonti interne di informazione, si
rivolse a me perché gli fornissi delle note sull'attività
delle corporazioni. Ad un certo momento, la Confindustria, a mezzo
del suo vicesegretario generale, notò alcuni miei articoli
sulle riviste del tempo, in cui suggerivo l'applicazione della legge
sulla disciplina dei consorzi alle compagnie che gli industriali venivano
istituendo per la valorizzazione dell'Impero nei singoli comparti:
trasporti, mineraria, tessili, credito, ecc. Il vicesegretario voleva
farmi sapere che queste compagnie erano volute da Mussolini e subite
dalla Confindustria, come uno sforzo da compiere a tutti i costi per
dovere di bandiera o meglio di "gagliardetto" (l'insegna
dei fasci).
La Confindustria, tra l'altro, aveva dovuto costituire anche un Ufficio
Africa, come dopo ne aveva dovuto costituire un altro per l'Albania.
lo invece dal canto mio continuai ad avanzare la stessa proposta,
tra l'altro ad un convegno africano che si svolse a Firenze, perché
avevo una mentalità giuridica che, senza che me ne accorgessi,
aveva avuto a che fare con i grandi maestri del diritto della Sapienza
della seconda metà degli anni Venti.
I modi di essere, quello di Olivetti da una parte e quello di un giovane
qualunque come me inserito in un'organizzazione di lavoratori (un
mio collega e amico era ai lavoratori dell'industria, ed era Vittorio
Zincone, un altro al commercio ed era Dino Gardini) dall'altra, erano
questi e possono oggi servire da punto di riferimento, molto elementare,
per definire il clima, i veri limiti, le insufficienze di strutture,
per le quali anche oggi si ricercano nuove realmente giuste e valide
strade, come d'altronde le leggi del progresso impongono.
L'unanimità
obbligatoria
E spostiamoci in un'altra corporazione: quella delle Professioni o
delle Arti, in una riunione sul finire del '37, in cui rappresentavo
come al solito il presidente della Confederazione dei lavoratori del
commercio.
Il vicepresidente era l'on. Ezio Maria Gray, che negli anni precedenti
era stato presidente dell'Istituto Luce o della CIT, non ricordo se
dell'uno o dell'altro ente.
Questo tipo di enti piaceva molto al regime, che ne costituiva con
assidua larghezza. Gli istituti nazionali allora erano perciò
tanti. Un mio amico dirigente nel mascherare con l'irreperibilità
il proprio assenteismo si limitava a dire che andava all'istituto
nazionale. Gli istituti di più facile costituzione erano quelli
superflui e perciò erano i più ambiti, anche perché
sono proprio quelli che hanno una vita più lunga. Un mio zio,
legale del Consorzio per i danneggiati del terremoto di Messina del
1908 -che ritengo tuttora esistente - ha trascorso in esso 40 anni
della sua vita di lavoro. Ritornando a Gray, egli come presidente
del suddetto ente una decina di anni prima, in rettifica del secondo
articolo della mia vita non ricordo se riguardante la cinematografia
o il turismo coloniale, si rivolse al direttore, accennando a me quale
"illustre collaboratore". Ma io, principiante e sconosciuto,
avevo solo 18 anni ed ero - come ho detto - al secondo articolo della
mia vita. In verità, le vie politiche dell'adulazione, per
natura sempre insincere, sono infinite...
In questa corporazione, la persona divenuta poi rilevante era solo
Alessandro Pavolini, allora presidente della Confederazione dei Professionisti
ed Artisti. La categoria che a me interessava era quella dei dipendenti
da studi professionali, che poi altro non erano, non già le
segretarie di adesso che non esistevano, bensì le tanto sempre
indispensabili dattilografe, talvolta allora anche stenografe.
L'ordine del giorno era stato tutto svolto, quando nel passare alle
varie vi si tentò inopinatamente d'inserire il tema: disciplina
del contratto di lavoro dei dipendenti da studi professionali. Chiesi
e ottenni la parola per domandare il rinvio dell'argomento ad altra
riunione e con preventiva precisazione del tema, non avendo io avuto
istruzioni al riguardo. Il diretto rappresentante della categoria
preferì un pigro silenzio. Il vicepresidente dal canto suo
tentò di far proseguire lo stesso la discussione e io continuai
invano a reagire. L'unico a schierarsi dalla mia parte fu il rappresentante
dei lavoratori del Credito, che era Pellegrini-Giampietro, divenuto
a Salò ministro delle Finanze. Di questi - ma io non l'ho mai
conosciuto personalmente - molti, anche antifascisti, hanno parlato,
e pure recentemente, bene.
L'ultimo volume Mussolini a Salò del collega Marco Innocenti
edito da Mursia reca un capitolo dedicato a "Pellegrini Giampietro,
il napoletano", nel quale tra l'altro si legge: "Pellegrini,
che sembra un azzeccagarbugli del profondo Sud, ma che in realtà
è un esperto di economia di valore internazionale, riesce a
convincere il duce che si può amministrare in stato di guerra
senza infierire con le tasse. In Consiglio dei ministri è il
favorito di Mussolini perché contrappone i suoi numeri rasserenanti
ai tristi rapporti dei colleghi sulle miserie della zoppicante repubblica.
Tutte le mattine il duce risponde al saluto del segretario Dolfin
con la domanda: novità? A Pellegrini, invece, chiede: quali
buone novità mi portate?, segno di un idillio cerebrale e di
una fiducia inusitata".
E altre frasi del libro proseguono con la stessa intonazione: di essa
nulla so naturalmente delle motivazioni, perché la mia memoria
mi ricorda solo un apprezzabile segno di solidarietà in un
ambiente e in una occasione che a me era ostile, perché giovanissimo
e orgogliosamente reattivo ai "basta" di Pavolini.
Ma il basta dovette essere risolto a quel punto dell'ordine del giorno,
in forza della mia messa a punto, secondo la quale ogni decisione
in merito anziché approvata all'unanimità, come era
nella prassi corporativa, avrebbe dovuto registrare anche un no, il
mio. Un'eccezione del genere, l'unica in tutta l'attività corporativa,
convinse soprattutto il direttore generale delle Corporazioni, Anselmi,
che a liberazione avvenuta fu prescelto da Barzini come suo braccio
destro a Il Globo, da lui fondato. E così la riunione finì
con un nulla di fatto.
E qui posso inserire il mio "medaglioncino" di Riccardo
Del Giudice. Egli era il mio presidente ai lavoratori del Commercio.
Perciò riferii a lui quanto era accaduto e quanto avevo ritenuto
di dover fare. Protestò subito telefonicamente con il ministro
delle Corporazioni di allora, Ferruccio Lantini, che avevo conosciuto
all'ICE che lui presiedeva, parlandogli di alcune mie idee (e lui
mi disse che le apprezzava ma non faceva al riguardo gli "occhi
di triglia": una frase poco in voga anche allora, ma lui di mare
doveva intendersene, perché era genovese). E io naturalmente
ne rimasi soddisfatto. Sennonché alcuni giorni dopo Del Giudice,
incontrandosi con Gray a Montecitorio, fu esortato a non mandare più
quel ragazzaccio (che ero lo) alle Corporazioni. Non fu Del Giudice
a parlarmi di questo fatto, ma una certa, pur ridotta, mia quarantena
la notai. Ma subito dopo però fui anche designato quale consigliere
della corporazione del Legno, come rappresentante dei lavoratori del
commercio del settore. Ero e tuttora sono del tutto incompetente in
questo campo, né alcun particolare hobby in materia è
venuto successivamente ad aiutarmi.
Ma chi era Del Giudice? Aveva una laurea in filosofia ed era stato
dirigente in materia sindacale dei lavoratori dell'industria. Nel
'34 venne nominato presidente dei lavoratori del Commercio, con gli
occhi sempre aperti agli studi, alla cultura, all'efficienza professionale.
Fece largo ai giovani e tra questi ebbi a trovarmi anch'io, che già
scrivevo sui giornali, ma non ero certo pratico di uffici e quindi
anche di apprendistato nel comando.
Riccardo Del Giudice è stato il mio primo maestro al riguardo,
anche se gli uffici non mi piacevano, perché mi sembravano
delle prigioni. Allora si lavorava in certi uffici una decina di ore
al giorno e il sabato fascista (cioè la sospensione del pomeriggio)
faceva i primi balbettii ed anzi, per i vertici pure molto minori
o aspiranti tali, se ne esigeva l'inosservanza.
Del Giudice era di una parsimonia amministrativa quasi ossessiva.
E' stato l'ultimo capo di un'organizzazione sindacale ad essere dotato
di un'auto che più utilitaria e di seconda mano non c'era.
Ha acquistato il palazzo confederale di via Lucullo con pochi milioni
di faticoso risparmio, che era pure il frutto dei nostri molto ristretti
risparmi. Poi ha capito che la laurea in filosofia era servita fino
ad un certo punto. E ad essa aggiunse una laurea in giurisprudenza.
Bottai, ministro dell'Educazione nazionale, lo volle con sé
in qualità di sottosegretario. E lui, che ne condivideva le
idee, ne seguì pure le sorti di declino, alle quali per quanto
lo riguardava reagì specializzandosi in Diritto marittimo,
divenendone uno dei maggiori esperti italiani. Un esempio, perciò,
e una testimonianza offerta da un uomo del Sud, perché lui
era di Lucera.
Nel '38, con un'offerta che mi veniva dalla Confindustria per divenire
capo dell'ufficio Studi e Stampa dell'Artigianato, mi accomiatai da
Del giudice, che ne fu sorpreso e addolorato, ma egli mi indirizzò
una lettera che è tra le pochissime cose che conservo, e di
cui intimamente mi compiaccio. Agli anziani come me sono permessi
questi ineleganti vuoti di modestia. (Gli inglesi dicono che se non
si sa essere eleganti, si sia stravaganti, e perciò nel caso
mi affido a questa dirimente).
Più tardi, quando ero direttore di un quotidiano, Del Giudice
mi inviò un libro edito da Cappelli dal titolo Giuseppe Bottai
- Scritti, che lui aveva promosso e curato. Un libro stampato nel
gennaio 1965, con una semplice premessa: "Un gruppo di amici
di Bottai decise di ricordarlo con una raccolta dei suoi scritti più
significativi che desse testimonianza dell'uomo, della sua opera e
dei tempi eccezionali in cui visse. Sia qui fissato il ricordo della
sua cara persona e delle sue rare virtù di cultura e di semplicità".
Due parole che Del Giudice attribuisce a Bottai, ma che io riconosco
pure, per lunga e diretta frequenza, più consapevolmente a
Del Giudice. Non so quanti altri abbiano lasciato scritta testimonianza
di questo uomo, ma la mia età mi consente di farlo ancora oggi.
Un'altra persona, ancora, che rientra in questi miei "medaglioncini",
è Vincenzo Buronzo, che è stato capo dell'Artigianato
per un quindicina di anni: dalle difficili origini dell'organizzazione
a tutto il 1939. Era un perfezionista nell'estetica, nella quale faceva
rientrare la poesia, l'eloquenza, le arti pure minori. Un discorso
prima lo scriveva e lo riscriveva, e poi lo diceva. Un articolo di
due colonne per un foglio artigiano comportava sette-otto ore di clausura
in una stanza.
Aveva capito che in quegli anni gli artigiani d'arte non dovevano
avere le briglie sciolte, ma dovevano disporre almeno nella fase iniziale
di prototipi predisposti da artisti e da architetti da riprodurre.
E così nacque la Mostra nazionale dell'Artigianato a Firenze
e nel corso del tempo i prodotti artigianali sono diventati degni
del "made in Italy". Anche io ho avuto la ventura di conoscere
e condividere per molti anni nella dirigenza dell'organizzazione artigiana
questa forma di apprendistato. Mi è capitato anni dopo di ascoltare
la replica ad un mio sussurro di critica ad un orrendo manufatto artigianale
che veniva offerto a Piazza Navona: "Secondo lei, allora, l'artigiano
deve morire?". lo pensavo invece che dovesse e debba veramente
vivere.
Buronzo era tra i partecipi della seduta della Corporazione di cui
prima ho detto. Era silenzioso, ma evidentemente attento, perché
nell'accogliere mesi dopo la proposta che gli veniva fatta da me qualche
Capo ufficio stampa dell'Artigianato ebbe a compiacersene, perché
aveva notato l'energia del mio comportamento in quell'occasione. Un
riconoscimento al quale l'anziano può richiamarsi secondo me
quando vede o pensa alle cose da mettere nella valigia di partenza.
Una valigia che il partente non perderà mai e che i superstiti
non cercheranno mai tra le cose smarrite, perché di smarribile
sostanzialmente non c'è niente.
Anche per Buronzo c'è stato il cambio della guardia: a Palazzo
Venezia. Era in predicato per divenire cancelliere dell'Accademia
d'Italia, ma non se ne fece nulla. Mussolini, nel presentare enfaticamente
il subentrante, riferendosi a Buronzo ebbe a dire solo: "Era
un poeta ... ", e si accompagnò con un gesto di mano.
Ma a Mussolini piacevano i poeti? Che dice l'odio-amore per D'Annunzio?
Vale la barzelletta che il "vate" era come i denti, che
perché non facciano male devono essere riempiti d'oro?
Le persone che qui ho ricordato così hanno vissuto le Corporazioni
che vi sono state nel tempo passato; per me quello di un giovane che
cominciava, che non frequentava i littoriali della gioventù,
che non scriveva su settimanali di battaglia, che si era creato uno
spazio quale editorialista, come si dice oggi, in materia coloniale.
Ho parlato perciò, molto modestamente, ai margini di un contesto
che le persone rievocate hanno in questo modo animato.
Anche io ho avuto occasione, dal mio ambito africanista, di parlare
dei lineamenti anche corporativi scaturiti dalla nuova economia dell'Africa
Orientale Italiana sopravvenuta nel 1936. Ne è derivato un
libro l'anno dopo, pubblicato dallo stesso editore che aveva pubblicato
il primo volume di Bottai, e cioè Giorgio Berlutti.
Questo mio modestissimo libro è il solo di economia dell'Africa
Orientale di allora e come tale compare nell'ampia bibliografia che
ha arricchito gli studi di Renzo De Felice, e se per me può
essere motivo di compiacimento vederlo rilevato negli schedari delle
grandi biblioteche americane, non altrettanto certamente lo è
per mio figlio, che vede spesso il mio libro compreso tra le sue pubblicazioni,
queste sì scientifiche, di chirurgia vascolare.
Ma, tornando a questi miei "lineamenti", ne consideravo
tre ordini corporativi, e cioè locali, africano- asiatici e
d'integrazione rispetto alla madrepatria. Agli stessi contenuti e
principii si era attenuto un Codice del Lavoro dell'Africa Italiana
che in quegli anni avevo promosso con un collega sotto gli auspici
del ministero dell'Africa Italiana di allora. Codici del Lavoro di
quei tempi. C'è ancora qualche biblioteca che ne disponga?
Ed oggi?
Tanti, come abbiamo detto in principio, i possibili versi del retro
della medaglia. Oggi se ne sta preparando un altro. Impegno tutt'altro
che nuovo e neppure recente per questa Repubblica che ha conosciuto
le Commissioni Buozzi e Jotti de Mita, e oggi sta facendo le prove
della Bicamerale 1997.
Ma nel 1975, in occasione della celebrazione della fondazione del
primo Rotary romano, la pressante tematica di oggi venne riattualizzata,
forse anticipata, da una grossa pubblicazione dal titolo La crisi
delle istituzioni. Analisi del fenomeno e strumenti correttivi. Numerosi
sono gli apporti forniti dai soci rotaryani. Fra questi, anche il
mio: "L'impatto economico della crisi delle Istituzioni".
Come si sa, è doveroso astenersi dalle autocitazioni. C'è
però anche la valigia di cui ho parlato prima. E perciò
consentitemi questa autocitazione (una!): "Le Istituzioni tardano
a recepire le nuove spinte e i nuovi modi di essere di una società
mobile, articolata socialmente e territorialmente; per l'attuale quadro
politico - di instabilità e confusione - del nostro Paese subiscono
una strategia demolitrice, anziché impostarne e fondarne una
costruttiva, tant'è che la lotta tra il vecchio e il nuovo,
più che riflettere il tentativo di sopravvivenza del primo,
ripropone l'incapacità del secondo di esprimersi in termini
concreti e accettabili dalla totalità dei cittadini, continuano
ad esplicarsi nel vuoto provocato da ciò che è divenuto
caduco e nella carenza del suo rimpiazzo. Ed invece ogni atto economico
- quali ne vogliano essere obiettivi e ispirazione - non si realizza
senza una concorrente volontà politica e senza la valida e
conforme cornice, a cominciare da quelle amministrative e burocratiche".
E qui se questa sorta di preteso "fior da fiore" non dovesse
essere condizionato dal peso della "valigia" di cui prima
ho detto e in questo caso anche dal lettore che dovrebbe portarla,
aggiungo che i capoversi principali nello scritto concernono il rinnovamento
della struttura statale, la politica dei redditi, le sedi decisionali,
la formazione, il ruolo delle Regioni, l'eliminazione dei ritardi
strutturali, ecc.
Tutta la tematica e tutti gli sbocchi errati o giusti sempre, dunque,
sul tappeto, con un ricettario sempre personalizzato al massimo, come
anche questo esempio che mi riguarda viene a confermare. D'altra parte,
secondo certi pessimisti, nulla è detto che non sia stato già
detto.
C'è oggi, dunque, siffatta medaglia con un verso unitario e
con un retro variabile e variato. Ma questa volta c'è anche
di mezzo l'inizio di un nuovo millennio.
In un classico della cinematografia americana figura un imminente
sposo che, dopo che i rispettivi genitori invano avevano bussato alla
porta dietro la quale l'imminente sposa, che voleva essere renitente,
si era rifugiata e non apriva, solo pronunciando la magica frase "datti
una regolata", vide la porta rapidamente aprirsi. Diamoci dunque
una regolata, anche noi. Se la diano, anzi, quelli che hanno ricevuto
da noi il mandato di rappresentarci.
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