L'Imperatore
e il suo suddito è un insieme di episodi della vita di Federico
II di Svevia e di Giovanni da Procida, suo medico personale, scritti
da loro medesimi.
Nel castello di Fiorentino, ormai prossimo alla morte. Federico consegna
a Giovanni da Procida un manoscritto che riporta alcuni avvenimenti
della propria vita. Gli predice che egli è chiamato ad un difficile
compito, quello di salvare il Regno di Sicilia,. fronteggiando le
situazioni che si verificheranno dopo la sua morte. in questo compito
gli saranno d'aiuto le profetiche pagine scritte dall'Imperatore veggente.
Nel commentare i ricordi di Federico II, Giovanni da Procida racconta
la propria avventurosa vita, che fu quella di un suddito fedele alla
sua famiglia.
"Così
s'abbandoni al pianto l'uomo esteriore, ché altro non gli resta,
se nemmeno un misero conforto a lui vale lo scrivere".
(Liutprando da Cremona, La Restituzione)
Il cielo è chiaro e luminoso verso Occidente, in questo crepuscolo
di primavera. Gli ultimi raggi di un sole rosso e grande illuminano
di caldo colore le pietre sagomate e le brecce rosse già poste
a dimora ad accennare le forme di questo Edificio che ho voluto qui,
su questa collina che domina l'amata terra. Non sarà un castello,
uguale a quelli che ho eretto ovunque a difesa delle coste protese
sul mare turchese, a guardia delle valli dolci e aperte che mirano
verso gli orizzonti sconfinati delle pianure. Questo solido ad otto
facce con le sue torri ottagonali sarà una corona adamantina,
una fulgida opera, astrazione e sintesi della mia persona.
La vita è un soffio, anche la mia. La pietra è dura,
resiste al tempo e alle stagioni; e come io ho potuto ammirare una
notte sotto la luna le pietre di Roma composte nella mirabile forma
del grande anfiteatro che parla per l'eternità della gloria
dei Cesari, così fra un millennio qualcuno vedrà questa
forma stagliata contro il sole, questo profilo ardito e possente e
ricorderà Federico Imperatore.
La vita è un soffio; il declino segue la potenza, come a questo
sfolgorante giorno seguono le tenebre che incalzano da Oriente. Tra
breve anche le ultime rondini che si lanciano tra le abbozzate forme
degli archi e delle volte, veloci come frecce scagliate a frotte da
invisibili arcieri quando s'accende la battaglia, dovranno ritirarsi.
Mi ricordano quelle che seguivo a lungo con lo sguardo e col cuore
nei caldi pomeriggi estivi a Palermo, quando ero fanciullo.
Gli stessi volteggi, le stesse acrobazie di queste eterne bambine
amanti del gioco e del volo. Sognavo di esser come loro, di volare
libero verso il cielo, di raggiungere terre lontane e misteriose.
Con loro anch'io mi ritrovo lo stesso: i medesimi pensieri, le stesse
emozioni, l'identica attesa di una vita che mi sembra appena cominciata
e che invece tra poco finirà, limitata come i lati di questa
costruzione.
Così iniziava il manoscritto di Federico di Svevia, erede degli
Hohenstaufen e degli Altavilla, Imperatore del Sacro Romano Impero.
Me lo consegnò lui stesso a Fiorentino, il piccolo castello
a nord di Lucera, dove avevamo dovuto portarlo per l'acutizzarsi del
male di cui soffriva da tempo, mentre partecipava alla sua ultima
battuta di caccia.
Si spegneva il Sole del mondo che brillava sulle genti, si spegneva
il Sole di giustizia, si spegneva l'Autore della pace. Moriva a cinquantasei
anni,- cinquantasei, quanti i lati di Castel del Monte. Ora non mi
meraviglia più che lui conoscesse quanto a lungo sarebbe vissuto,
e tante altre cose del futuro di cui parlerò più avanti,-
sapeva anche che sarebbe morto sub florem, a Fiorentino, appunto.
Io, Giovanni da Procida, in quel tempo medico personale dell'Imperatore,
non lo sapevo e tentavo perciò con tutta la mia anima di salvarlo.
Mi ero fatto inviare da Lucera gli appunti ed i testi che parlavano
di quel male, sperando di aver dimenticato un particolare, un elemento
che potesse sovvertire l'inesorabile corso.
Avevo preparato le cure ed i rimedi che conoscevo. In un improvvisato
laboratorio moltiplicavo le tisane, gli oleoliti, le pozioni, gli
idrolati che si allineavano sugli scaffali insieme con decotti ed
infusi di asteracea, di anice, di finocchio, di ortica con miele.
Ma, ahimè! essi non ottenevano risultato, così come
tutte le forme diverse di teriaca che la Regola Salernitana prescrive.
Mi affliggevo nel constatare quanto la mia esperienza fosse in questa
occasione inefficace e ricordavo invece il successo di tanti altri
miei esperimenti di medicina, ad iniziare da quelli che compivo fin
da giovane, quando conobbi Federico.
Nel gennaio del 1226, sedicenne, mi trovavo a Salerno, presso gli
zii, di ritorno dal monastero di Montevergine dove mio padre mi aveva
obbligato a seguire gli studi ecclesiastici.
Amavo Salerno. Per ore sedevo al porto a guardare le onde che si infrangevano
tra gli scogli e, sollevando lo sguardo verso la parte alta della
città, mi soffermavo ad osservare l'edificio severo che ospitava
la Scuola di Medicina: sognavo di diventare un valente medico piuttosto
che l'abate di uno dei nostri monasteri montani. Dio si può
servire curando i corpi, oltre che le anime, era la mia certezza,
e non trascuravo le occasioni di apprendere altrove quello che mi
era precluso di studiare a scuola. Ad alimentare questa mia inclinazione
aveva contribuito anche la riuscita delle prove compiute tempo addietro
su mio cugino Francesco che cadeva con frequenza in deliquio a dispetto
delle cure prescritte da un maestro della Scuola. Francesco, che mi
seguiva come un'ombra poiché era più piccolo di me di
nove anni e la mia veste monacale per lui costituiva un'attrattiva,
quasi si trattasse di una còtta da guerriero, Francesco, dicevo,
con quelle sue perdite di conoscenza per me rappresentava una sfida.
E così alla prima occasione, quando un giorno andavamo sfaccendati
per le rive dell'Irno e Francesco mi si gettò improvvisamente
tra le braccia strabuzzando gli occhi ed emettendo dalla bocca una
bava biancastra, non stetti a pensarci su. Da tempo nei manoscritti
che leggevo nella biblioteca di mio zio Tommaso, priore della chiesa
di S. Matteo, avevo letto delle virtù della canapa, di cui
il bosco era pieno. Ebbene, ne raccolsi un po', feci un miscuglio
e, mentre mio cugino si contorceva animalescamente tra i rovi della
boscaglia, lo introdussi a forza nella sua bocca e attesi con speranza
e timore insieme.
Dopo qualche minuto Francesco si calmò e aprì gli occhi:
era stordito e gli doleva la testa, ma avevo raggiunto il risultato
di ridurre di molto la durata della crisi. Tornati a casa raccontammo
l'accaduto; la cura continuò con maggiore efficacia delle altre
prime tentate, ed io sperai invano che mio padre desistesse dalla
sua inflessibile decisione di farmi diventare abate. A fargli cambiare
idea ci pensò Federico Imperatore.
Era anche lui a Salerno nel gennaio 1226 con la moglie Iolanda, e
qualche volta andava a caccia tra le colline della Calvagnola. Le
sue uscite erano superbe ed imponenti. Avrei capito e condiviso negli
anni seguenti il perché di quello sfoggio di fasto e di potere,
che rimaneva a lungo nella memoria delle genti. Davanti alla folla
ammutolita, preceduto dalle insegne e dagli stendardi, tra paggi con
levrieri e falconieri con i superbi girifalchi, sfilava il serraglio,
vanto dell'Imperatore: aggraziati ghepardi dal maculato mantello,
minacciosi leoni chiusi nelle gabbie, inusitate giraffe dal lunghissimo
collo, animali mai visti prima. E dietro una corte di donzelli, armigeri
e cavalieri, appariva infine, magnifico, Federico.
Il suo aspetto era nobile e maestoso mentre incedeva fiero sul baio
di Spagna condotto per le redini da due scudieri. Sulla figura forte
e muscolosa si levava un volto aperto e luminoso, incorniciato da
capelli fulvi. Di colorito vivo e rubicondo, aveva la fronte aperta,
gli occhi allegri, il naso ben proporzionato, la barba dorata, la
bocca piccola. Lo sguardo rifletteva la natura indomabile che non
permetteva ad alcun ostacolo di frapporsi all'esecuzione dei suoi
desideri, come si disse già dei suoi avi. Sopra la veste indossava
un mantello rosso, con ricami raffiguranti le aquile imperiali, che
abbacinava per lo sfavillio degli ori e delle gioie. E, certo, quella
parata mi ricordava per sfarzo e magnificenza il corteo, descritto
da Curzio Rufo, del re persiano Dario, che avanzava preceduto da trecentosessantacinque
giovani, velati di mantelli di porpora, tanti di numero quanti sono
i giorni dell'anno.
Mentre in prima fila guardavo anch'io a bocca aperta, un falco cadde
davanti a me sbattendo le ali. Si era spaventato per l'abbaiare furioso
di un levriero ed era riuscito a fuggire nonostante il suo falconiere
avesse tentato di trattenerlo per il legaccio. Svolazzando tra la
folla, con il cappuccio che gli bendava il capo, aveva gettato lo
scompiglio fra le schiere dei falconieri e dei paggi. L'Imperatore
in persona si lanciò a cavallo all'inseguimento del falco e
lo raggiunse quando l'animale era davanti a me, con un'ala che si
era messa di traverso e che sicuramente si sarebbe spezzata se io
non lo avessi afferrato e con una istintiva manovra non l'avessi raddrizzata.
Non sfuggì questo gesto all'occhio di Federico, che, arrivatomi
vicino, smontò con un balzo dal destriero e si impossessò
dell'uccello illeso. Mi guardò per un certo tempo squadrandomi
dalla testa ai piedi, e poi esclamò sorridendo: "Perbacco
ragazzo, sei nato piuttosto per curare che per pregare". E mi
chiese di accompagnarlo quel giorno a caccia, qualora, aggiunse con
ironia, qualche altro falco avesse avuto bisogno di un raddrizza ali.
Quest'invito avrebbe cambiato la mia vita: all'Imperatore mio padre
dovette cedere e le porte della Scuola di Medicina si aprirono per
me. Dopo alcuni anni lo stesso Federico mi consegnò la pergamena
con cui mi autorizzava a esercitare la medicina e da allora divenni
suo medico.
Ma a Fiorentino purtroppo la mia scienza non riusciva a recargli più
alcun beneficio.
Erano stati troppo affannosi per lui gli ultimi anni, pieni di lutti,
tradimenti, ambasce e sforzi sovrumani. Non li aveva trascorsi certo
come la Regola prescrive: "Si vis incolumen, si vis te reddere
sanu curas tolle graves, irasci crede prophanum. Haec tria: mens ilaris,
requies, moderata diaeta ". Ovvero per vivere a lungo bisogna
prevenire i mali, mantenendo la mente allegra, riposando e mangiando
moderatamente. Di questi precetti Federico aveva rispettato solo l'ultimo.
Durante la notte del 10 dicembre, quando mancavano tre giorni alla
sua morte, vinto dalla stanchezza, mi ero ritirato per un breve riposo.
Fui svegliato perché l'Imperatore chiedeva di me. Mi alzai
dal mio giaciglio, salii velocemente le scale e mi precipitai da lui.
Era assopito; grosse gocce di spesso sudore imperlavano il suo volto
pallido e smagrito. La pena si rinnovò mentre lo ricordavo
affrontare con la sua impetuosità le situazioni più
avverse, sorridere all'arrivo di un fido, scrutare con affetto il
viso di Manfredi.
Manfredi era lì, spossato dall'ansia e dalla pena. Dormiva
con la testa appoggiata sul tavolo vicino alla lucerna ed il suo viso
pareva una copia più giovane di quello del padre.
Federico si scosse quando mi avvicinai a lui e per un istante parve
non riconoscermi. Poi mi disse con fatica e con voce flebile: "Giovanni,
so che sto per andare in un mondo diverso da questo, ... se c'è
veramente. E' giunto il momento di consegnarti qualcosa di molto importante.
Dieci anni fa iniziai a scrivere della mia vita. Questa storia la
si potrebbe chiamare De arte regnandi contra pontificem ", e
rise di questa sua facezia, risata che fu stroncata da una smorfia
di dolore. "Il manoscritto è in quella borsa di cuoio:
prendilo". Rovistai su una mensola al lato del letto e trovai
ciò che mi era stato indicato; l'Imperatore prese i fogli con
la mano tremante e iniziò a scorrere le prime righe, mentre
un abbozzo di sorriso aleggiava sulle sue labbra. "Terrai tu
questo scritto mi disse, "come ultimo dono al suddito fedele
e perché tu sei desti nato a salvare il salvabile". Così
si espresse, calcando molto la voce su queste ultime parole e alzando
su di me uno sguardo profondo e indecifrabile. "Portalo via",
aggiunse "e tienilo separato dal testamento. Leggi attentamente
quello che vi è scritto, e capirai cosa dovrai fare, dopo ".
Indovinando dalla mia stupita espressione le domande che stavo per
porgli, era sul punto di aggiungere altro, quando lo vidi impallidire
ancora di più e chiudere gli occhi. Non avrebbe più
ripreso conoscenza fino alla morte.
Rimasi ancora a lungo accanto al suo letto ad assisterlo, poi, sfinito,
tornai nella mia stanza. Ma non riuscivo più ad addormentarmi,
pensando alle misteriose parole. Come! Io avrei dovuto salvare il
salvabile! Ma cosa avrei dovuto difendere io, essendo i nemici già
allo sbaraglio, ed il papa stesso esule in terra di Francia, mentre
l'Impero era saldo nelle mani dei forti e valorosi figli dell'Imperatore?
E poi, cosa avrei potuto fare nella bisogna io, più versato
alle scienze che all'azione, così spesso perduto nei richiami
e nelle chimere della mia vocazione?
La risposta, aveva detto l'Imperatore, era nelle pagine che avevo
nelle mie mani, e allora accesi la lanterna ed iniziai a leggere il
manoscritto che proseguiva così:
Ero un re fanciullo a Palermo, ma essere Federico, il figlio di Arrigo
VI e di Costanza di Altavilla, orfano di entrambi e malsopportato
nell'avvelenata e untuosa reggia siciliana, mi dava l'unico vantaggio
di vivere libero da precettori e da obblighi. Tutti si professavano
interessati alla mia salvezza, alla mia educazione ma in realtà
io ero per loro l'ultimo dei pensieri. Dopo la morte di mia madre,
avvenuta quando avevo quattro anni, io ed il mio Regno eravamo sotto
la tutela del papa, che tramite i suoi legati si contrapponeva ai
dignitari tedeschi insediati da mio padre ed alla nobiltà locale,
tutti in lotta fra di loro. Castelli, terre, feudi, foreste e privilegi
d'ogni genere erano usurpati alla Corona da vescovi, baroni ed avventurieri,
in ogni parte del Regno. Tra le brame di potere e di ricchezza crescevo
come un cucciolo, aiutato più dalla natura che dagli uomini.
Mi svegliavo presto nella stanza che era stata di mio nonno Ruggero,
e dopo aver sottratto un pezzo di frittella sotto gli occhi dei cucinieri
assonnati - ormai rubavo tutto alla vita, nulla mi era dovuto - uscivo
per strada, pieno di attesa per il giorno che iniziava.
La città era l'opulenta e affascinante capitale che i miei
avi normanni avevano strappato agli arabi; conservava tutte le caratteristiche
dei dominatori che per due secoli l'avevano popolata, abbellita e
resa celebre nel Mediterraneo. Veniva chiamata ancora il Giardino
di Allah per la verzura rigogliosa e per le fontane zampillanti di
acque fresche e limpide che cingevano la città come una collana
preziosa attorno al collo di una bella giovinetta. Mio nonno Ruggero
e mio cugino Guglielmo, ultimo re normanno, amavano il bello. Costruirono
strade lastricate e fiancheggiate da alberi, palazzi sontuosi, chiese
con mosaici sublimi, opulenti mercati che si integrarono con le bellezze
già esistenti. Edrisi, lo scienziato arabo che aveva scritto
per Ruggero un libro di geografia, la descrive come la bella ed immensa
città, il massimo e splendido soggiorno, la più vasta
ed eccelsa metropoli del mondo.
Io l'ho subito amata, e la città ed i suoi abitanti hanno ricambiato
con amicizia ed affetto questo sentimento. Si ricorderanno di me anche
quando non ci sarò più, e vendicheranno la mia stirpe
in un tramonto che sarà rosso per il sangue dei nemici.
Quella città io la conoscevo a palmo a palmo e dividevo le
mie giornate tra il Cassaro, l'antica fortezza araba, ed il borgo
dove abitavano gli amici che frequentavo ogni giorno.
Il vecchio saggio Ibn Salach piangeva ancora calde e commosse lacrime
al ricordo del suo arrivo, molti anni prima, in quella terra ricca
di bellezza. Ibn mi parlava con devozione dei re Ruggero e Guglielmo
nei cui regni, arabi, ebrei e cristiani vivevano nella giustizia,
in pace con se stessi e con il proprio Dio. Dai suoi racconti nacque
in me l'interesse per le meraviglie del mondo, per gli animali, le
piante, le stelle. Conobbi allora i primi rudimenti di quella scienza
empirica venuta dagli arabi che deduce le regole dall'esperienza.
Ancora adesso mi sembra che il maggior dono concesso dal Cielo agli
uomini sia la capacità di capire e la voglia di conoscere.
Nella notte palermitana a volte restavo con Ibn a guardare il cielo
stellato e ad ascoltare stupito del moto delle stelle, degli angoli,
delle traiettorie, delle comete. Assieme ai balsami delle rigogliose
piante dei giardini fin da allora io respiravo i profumi della conoscenza.
Rashid mi insegnò tutto sulle armi. Una volta egli, seduto
sullo sgabello per riprendere fiato dopo un mio ultimo assalto di
spada, mentre si tergeva il sudore mi guardò con rispetto maggiore
di quello dovuto ad un re fanciullo, affermando che se avessi combattuto
sempre con quella maestria il mondo si sarebbe inchinato davanti a
me.
Ma l'aiuto rivelatosi decisivo per la mia vita me lo diede Isabella,
una ancella di mia madre, la quale mi costruiva memorie che non avevo
descrivendomi le gesta dei miei avi, i Re Normanni e gli Imperatori
Svevi, la splendente vita di corte e facendomi immaginare i giorni
che si succedevano pieni di gloria.
Ascoltandola mi resi conto che in me si erano fuse le più potenti
dinastie del mondo, che le terre dei miei antenati si estendevano
dal mare freddo del Settentrione sino alle calde pianure della Sicilia.
Esse mi appartenevano. Compresi che avevo un compito da assolvere,
un obbligo che i miei avi che mi guardavano dai mosaici delle chiese
aspettavano che io adempissi, e cioè quello di ricomporre il
grande Sacro Impero, unendo le molteplicità, a guisa di un
melograno che racchiude nella sua buccia rotonda molti semi diversi.
Ho indossato
la rossa veste su cui è tessuto
il leone che assalta il cammello.
Ecco, sono pronto: non ci saranno più ostacoli
per l'Unto del Signore.
(1-continua)