§ Stupor Mundi

L'Imperatore e il suo suddito




Bruno Di Paola



L'Imperatore e il suo suddito è un insieme di episodi della vita di Federico II di Svevia e di Giovanni da Procida, suo medico personale, scritti da loro medesimi.
Nel castello di Fiorentino, ormai prossimo alla morte. Federico consegna a Giovanni da Procida un manoscritto che riporta alcuni avvenimenti della propria vita. Gli predice che egli è chiamato ad un difficile compito, quello di salvare il Regno di Sicilia,. fronteggiando le situazioni che si verificheranno dopo la sua morte. in questo compito gli saranno d'aiuto le profetiche pagine scritte dall'Imperatore veggente.
Nel commentare i ricordi di Federico II, Giovanni da Procida racconta la propria avventurosa vita, che fu quella di un suddito fedele alla sua famiglia.

 

"Così s'abbandoni al pianto l'uomo esteriore, ché altro non gli resta,
se nemmeno un misero conforto a lui vale lo scrivere".

(Liutprando da Cremona, La Restituzione)


Il cielo è chiaro e luminoso verso Occidente, in questo crepuscolo di primavera. Gli ultimi raggi di un sole rosso e grande illuminano di caldo colore le pietre sagomate e le brecce rosse già poste a dimora ad accennare le forme di questo Edificio che ho voluto qui, su questa collina che domina l'amata terra. Non sarà un castello, uguale a quelli che ho eretto ovunque a difesa delle coste protese sul mare turchese, a guardia delle valli dolci e aperte che mirano verso gli orizzonti sconfinati delle pianure. Questo solido ad otto facce con le sue torri ottagonali sarà una corona adamantina, una fulgida opera, astrazione e sintesi della mia persona.
La vita è un soffio, anche la mia. La pietra è dura, resiste al tempo e alle stagioni; e come io ho potuto ammirare una notte sotto la luna le pietre di Roma composte nella mirabile forma del grande anfiteatro che parla per l'eternità della gloria dei Cesari, così fra un millennio qualcuno vedrà questa forma stagliata contro il sole, questo profilo ardito e possente e ricorderà Federico Imperatore.
La vita è un soffio; il declino segue la potenza, come a questo sfolgorante giorno seguono le tenebre che incalzano da Oriente. Tra breve anche le ultime rondini che si lanciano tra le abbozzate forme degli archi e delle volte, veloci come frecce scagliate a frotte da invisibili arcieri quando s'accende la battaglia, dovranno ritirarsi.
Mi ricordano quelle che seguivo a lungo con lo sguardo e col cuore nei caldi pomeriggi estivi a Palermo, quando ero fanciullo.
Gli stessi volteggi, le stesse acrobazie di queste eterne bambine amanti del gioco e del volo. Sognavo di esser come loro, di volare libero verso il cielo, di raggiungere terre lontane e misteriose. Con loro anch'io mi ritrovo lo stesso: i medesimi pensieri, le stesse emozioni, l'identica attesa di una vita che mi sembra appena cominciata e che invece tra poco finirà, limitata come i lati di questa costruzione.
Così iniziava il manoscritto di Federico di Svevia, erede degli Hohenstaufen e degli Altavilla, Imperatore del Sacro Romano Impero. Me lo consegnò lui stesso a Fiorentino, il piccolo castello a nord di Lucera, dove avevamo dovuto portarlo per l'acutizzarsi del male di cui soffriva da tempo, mentre partecipava alla sua ultima battuta di caccia.
Si spegneva il Sole del mondo che brillava sulle genti, si spegneva il Sole di giustizia, si spegneva l'Autore della pace. Moriva a cinquantasei anni,- cinquantasei, quanti i lati di Castel del Monte. Ora non mi meraviglia più che lui conoscesse quanto a lungo sarebbe vissuto, e tante altre cose del futuro di cui parlerò più avanti,- sapeva anche che sarebbe morto sub florem, a Fiorentino, appunto.
Io, Giovanni da Procida, in quel tempo medico personale dell'Imperatore, non lo sapevo e tentavo perciò con tutta la mia anima di salvarlo. Mi ero fatto inviare da Lucera gli appunti ed i testi che parlavano di quel male, sperando di aver dimenticato un particolare, un elemento che potesse sovvertire l'inesorabile corso.
Avevo preparato le cure ed i rimedi che conoscevo. In un improvvisato laboratorio moltiplicavo le tisane, gli oleoliti, le pozioni, gli idrolati che si allineavano sugli scaffali insieme con decotti ed infusi di asteracea, di anice, di finocchio, di ortica con miele. Ma, ahimè! essi non ottenevano risultato, così come tutte le forme diverse di teriaca che la Regola Salernitana prescrive.
Mi affliggevo nel constatare quanto la mia esperienza fosse in questa occasione inefficace e ricordavo invece il successo di tanti altri miei esperimenti di medicina, ad iniziare da quelli che compivo fin da giovane, quando conobbi Federico.
Nel gennaio del 1226, sedicenne, mi trovavo a Salerno, presso gli zii, di ritorno dal monastero di Montevergine dove mio padre mi aveva obbligato a seguire gli studi ecclesiastici.
Amavo Salerno. Per ore sedevo al porto a guardare le onde che si infrangevano tra gli scogli e, sollevando lo sguardo verso la parte alta della città, mi soffermavo ad osservare l'edificio severo che ospitava la Scuola di Medicina: sognavo di diventare un valente medico piuttosto che l'abate di uno dei nostri monasteri montani. Dio si può servire curando i corpi, oltre che le anime, era la mia certezza, e non trascuravo le occasioni di apprendere altrove quello che mi era precluso di studiare a scuola. Ad alimentare questa mia inclinazione aveva contribuito anche la riuscita delle prove compiute tempo addietro su mio cugino Francesco che cadeva con frequenza in deliquio a dispetto delle cure prescritte da un maestro della Scuola. Francesco, che mi seguiva come un'ombra poiché era più piccolo di me di nove anni e la mia veste monacale per lui costituiva un'attrattiva, quasi si trattasse di una còtta da guerriero, Francesco, dicevo, con quelle sue perdite di conoscenza per me rappresentava una sfida. E così alla prima occasione, quando un giorno andavamo sfaccendati per le rive dell'Irno e Francesco mi si gettò improvvisamente tra le braccia strabuzzando gli occhi ed emettendo dalla bocca una bava biancastra, non stetti a pensarci su. Da tempo nei manoscritti che leggevo nella biblioteca di mio zio Tommaso, priore della chiesa di S. Matteo, avevo letto delle virtù della canapa, di cui il bosco era pieno. Ebbene, ne raccolsi un po', feci un miscuglio e, mentre mio cugino si contorceva animalescamente tra i rovi della boscaglia, lo introdussi a forza nella sua bocca e attesi con speranza e timore insieme.
Dopo qualche minuto Francesco si calmò e aprì gli occhi: era stordito e gli doleva la testa, ma avevo raggiunto il risultato di ridurre di molto la durata della crisi. Tornati a casa raccontammo l'accaduto; la cura continuò con maggiore efficacia delle altre prime tentate, ed io sperai invano che mio padre desistesse dalla sua inflessibile decisione di farmi diventare abate. A fargli cambiare idea ci pensò Federico Imperatore.
Era anche lui a Salerno nel gennaio 1226 con la moglie Iolanda, e qualche volta andava a caccia tra le colline della Calvagnola. Le sue uscite erano superbe ed imponenti. Avrei capito e condiviso negli anni seguenti il perché di quello sfoggio di fasto e di potere, che rimaneva a lungo nella memoria delle genti. Davanti alla folla ammutolita, preceduto dalle insegne e dagli stendardi, tra paggi con levrieri e falconieri con i superbi girifalchi, sfilava il serraglio, vanto dell'Imperatore: aggraziati ghepardi dal maculato mantello, minacciosi leoni chiusi nelle gabbie, inusitate giraffe dal lunghissimo collo, animali mai visti prima. E dietro una corte di donzelli, armigeri e cavalieri, appariva infine, magnifico, Federico.
Il suo aspetto era nobile e maestoso mentre incedeva fiero sul baio di Spagna condotto per le redini da due scudieri. Sulla figura forte e muscolosa si levava un volto aperto e luminoso, incorniciato da capelli fulvi. Di colorito vivo e rubicondo, aveva la fronte aperta, gli occhi allegri, il naso ben proporzionato, la barba dorata, la bocca piccola. Lo sguardo rifletteva la natura indomabile che non permetteva ad alcun ostacolo di frapporsi all'esecuzione dei suoi desideri, come si disse già dei suoi avi. Sopra la veste indossava un mantello rosso, con ricami raffiguranti le aquile imperiali, che abbacinava per lo sfavillio degli ori e delle gioie. E, certo, quella parata mi ricordava per sfarzo e magnificenza il corteo, descritto da Curzio Rufo, del re persiano Dario, che avanzava preceduto da trecentosessantacinque giovani, velati di mantelli di porpora, tanti di numero quanti sono i giorni dell'anno.
Mentre in prima fila guardavo anch'io a bocca aperta, un falco cadde davanti a me sbattendo le ali. Si era spaventato per l'abbaiare furioso di un levriero ed era riuscito a fuggire nonostante il suo falconiere avesse tentato di trattenerlo per il legaccio. Svolazzando tra la folla, con il cappuccio che gli bendava il capo, aveva gettato lo scompiglio fra le schiere dei falconieri e dei paggi. L'Imperatore in persona si lanciò a cavallo all'inseguimento del falco e lo raggiunse quando l'animale era davanti a me, con un'ala che si era messa di traverso e che sicuramente si sarebbe spezzata se io non lo avessi afferrato e con una istintiva manovra non l'avessi raddrizzata. Non sfuggì questo gesto all'occhio di Federico, che, arrivatomi vicino, smontò con un balzo dal destriero e si impossessò dell'uccello illeso. Mi guardò per un certo tempo squadrandomi dalla testa ai piedi, e poi esclamò sorridendo: "Perbacco ragazzo, sei nato piuttosto per curare che per pregare". E mi chiese di accompagnarlo quel giorno a caccia, qualora, aggiunse con ironia, qualche altro falco avesse avuto bisogno di un raddrizza ali.
Quest'invito avrebbe cambiato la mia vita: all'Imperatore mio padre dovette cedere e le porte della Scuola di Medicina si aprirono per me. Dopo alcuni anni lo stesso Federico mi consegnò la pergamena con cui mi autorizzava a esercitare la medicina e da allora divenni suo medico.
Ma a Fiorentino purtroppo la mia scienza non riusciva a recargli più alcun beneficio.
Erano stati troppo affannosi per lui gli ultimi anni, pieni di lutti, tradimenti, ambasce e sforzi sovrumani. Non li aveva trascorsi certo come la Regola prescrive: "Si vis incolumen, si vis te reddere sanu curas tolle graves, irasci crede prophanum. Haec tria: mens ilaris, requies, moderata diaeta ". Ovvero per vivere a lungo bisogna prevenire i mali, mantenendo la mente allegra, riposando e mangiando moderatamente. Di questi precetti Federico aveva rispettato solo l'ultimo.
Durante la notte del 10 dicembre, quando mancavano tre giorni alla sua morte, vinto dalla stanchezza, mi ero ritirato per un breve riposo. Fui svegliato perché l'Imperatore chiedeva di me. Mi alzai dal mio giaciglio, salii velocemente le scale e mi precipitai da lui. Era assopito; grosse gocce di spesso sudore imperlavano il suo volto pallido e smagrito. La pena si rinnovò mentre lo ricordavo affrontare con la sua impetuosità le situazioni più avverse, sorridere all'arrivo di un fido, scrutare con affetto il viso di Manfredi.
Manfredi era lì, spossato dall'ansia e dalla pena. Dormiva con la testa appoggiata sul tavolo vicino alla lucerna ed il suo viso pareva una copia più giovane di quello del padre.
Federico si scosse quando mi avvicinai a lui e per un istante parve non riconoscermi. Poi mi disse con fatica e con voce flebile: "Giovanni, so che sto per andare in un mondo diverso da questo, ... se c'è veramente. E' giunto il momento di consegnarti qualcosa di molto importante. Dieci anni fa iniziai a scrivere della mia vita. Questa storia la si potrebbe chiamare De arte regnandi contra pontificem ", e rise di questa sua facezia, risata che fu stroncata da una smorfia di dolore. "Il manoscritto è in quella borsa di cuoio: prendilo". Rovistai su una mensola al lato del letto e trovai ciò che mi era stato indicato; l'Imperatore prese i fogli con la mano tremante e iniziò a scorrere le prime righe, mentre un abbozzo di sorriso aleggiava sulle sue labbra. "Terrai tu questo scritto mi disse, "come ultimo dono al suddito fedele e perché tu sei desti nato a salvare il salvabile". Così si espresse, calcando molto la voce su queste ultime parole e alzando su di me uno sguardo profondo e indecifrabile. "Portalo via", aggiunse "e tienilo separato dal testamento. Leggi attentamente quello che vi è scritto, e capirai cosa dovrai fare, dopo ".
Indovinando dalla mia stupita espressione le domande che stavo per porgli, era sul punto di aggiungere altro, quando lo vidi impallidire ancora di più e chiudere gli occhi. Non avrebbe più ripreso conoscenza fino alla morte.
Rimasi ancora a lungo accanto al suo letto ad assisterlo, poi, sfinito, tornai nella mia stanza. Ma non riuscivo più ad addormentarmi, pensando alle misteriose parole. Come! Io avrei dovuto salvare il salvabile! Ma cosa avrei dovuto difendere io, essendo i nemici già allo sbaraglio, ed il papa stesso esule in terra di Francia, mentre l'Impero era saldo nelle mani dei forti e valorosi figli dell'Imperatore? E poi, cosa avrei potuto fare nella bisogna io, più versato alle scienze che all'azione, così spesso perduto nei richiami e nelle chimere della mia vocazione?
La risposta, aveva detto l'Imperatore, era nelle pagine che avevo nelle mie mani, e allora accesi la lanterna ed iniziai a leggere il manoscritto che proseguiva così:
Ero un re fanciullo a Palermo, ma essere Federico, il figlio di Arrigo VI e di Costanza di Altavilla, orfano di entrambi e malsopportato nell'avvelenata e untuosa reggia siciliana, mi dava l'unico vantaggio di vivere libero da precettori e da obblighi. Tutti si professavano interessati alla mia salvezza, alla mia educazione ma in realtà io ero per loro l'ultimo dei pensieri. Dopo la morte di mia madre, avvenuta quando avevo quattro anni, io ed il mio Regno eravamo sotto la tutela del papa, che tramite i suoi legati si contrapponeva ai dignitari tedeschi insediati da mio padre ed alla nobiltà locale, tutti in lotta fra di loro. Castelli, terre, feudi, foreste e privilegi d'ogni genere erano usurpati alla Corona da vescovi, baroni ed avventurieri, in ogni parte del Regno. Tra le brame di potere e di ricchezza crescevo come un cucciolo, aiutato più dalla natura che dagli uomini. Mi svegliavo presto nella stanza che era stata di mio nonno Ruggero, e dopo aver sottratto un pezzo di frittella sotto gli occhi dei cucinieri assonnati - ormai rubavo tutto alla vita, nulla mi era dovuto - uscivo per strada, pieno di attesa per il giorno che iniziava.
La città era l'opulenta e affascinante capitale che i miei avi normanni avevano strappato agli arabi; conservava tutte le caratteristiche dei dominatori che per due secoli l'avevano popolata, abbellita e resa celebre nel Mediterraneo. Veniva chiamata ancora il Giardino di Allah per la verzura rigogliosa e per le fontane zampillanti di acque fresche e limpide che cingevano la città come una collana preziosa attorno al collo di una bella giovinetta. Mio nonno Ruggero e mio cugino Guglielmo, ultimo re normanno, amavano il bello. Costruirono strade lastricate e fiancheggiate da alberi, palazzi sontuosi, chiese con mosaici sublimi, opulenti mercati che si integrarono con le bellezze già esistenti. Edrisi, lo scienziato arabo che aveva scritto per Ruggero un libro di geografia, la descrive come la bella ed immensa città, il massimo e splendido soggiorno, la più vasta ed eccelsa metropoli del mondo.
Io l'ho subito amata, e la città ed i suoi abitanti hanno ricambiato con amicizia ed affetto questo sentimento. Si ricorderanno di me anche quando non ci sarò più, e vendicheranno la mia stirpe in un tramonto che sarà rosso per il sangue dei nemici.
Quella città io la conoscevo a palmo a palmo e dividevo le mie giornate tra il Cassaro, l'antica fortezza araba, ed il borgo dove abitavano gli amici che frequentavo ogni giorno.
Il vecchio saggio Ibn Salach piangeva ancora calde e commosse lacrime al ricordo del suo arrivo, molti anni prima, in quella terra ricca di bellezza. Ibn mi parlava con devozione dei re Ruggero e Guglielmo nei cui regni, arabi, ebrei e cristiani vivevano nella giustizia, in pace con se stessi e con il proprio Dio. Dai suoi racconti nacque in me l'interesse per le meraviglie del mondo, per gli animali, le piante, le stelle. Conobbi allora i primi rudimenti di quella scienza empirica venuta dagli arabi che deduce le regole dall'esperienza. Ancora adesso mi sembra che il maggior dono concesso dal Cielo agli uomini sia la capacità di capire e la voglia di conoscere. Nella notte palermitana a volte restavo con Ibn a guardare il cielo stellato e ad ascoltare stupito del moto delle stelle, degli angoli, delle traiettorie, delle comete. Assieme ai balsami delle rigogliose piante dei giardini fin da allora io respiravo i profumi della conoscenza.
Rashid mi insegnò tutto sulle armi. Una volta egli, seduto sullo sgabello per riprendere fiato dopo un mio ultimo assalto di spada, mentre si tergeva il sudore mi guardò con rispetto maggiore di quello dovuto ad un re fanciullo, affermando che se avessi combattuto sempre con quella maestria il mondo si sarebbe inchinato davanti a me.
Ma l'aiuto rivelatosi decisivo per la mia vita me lo diede Isabella, una ancella di mia madre, la quale mi costruiva memorie che non avevo descrivendomi le gesta dei miei avi, i Re Normanni e gli Imperatori Svevi, la splendente vita di corte e facendomi immaginare i giorni che si succedevano pieni di gloria.
Ascoltandola mi resi conto che in me si erano fuse le più potenti dinastie del mondo, che le terre dei miei antenati si estendevano dal mare freddo del Settentrione sino alle calde pianure della Sicilia. Esse mi appartenevano. Compresi che avevo un compito da assolvere, un obbligo che i miei avi che mi guardavano dai mosaici delle chiese aspettavano che io adempissi, e cioè quello di ricomporre il grande Sacro Impero, unendo le molteplicità, a guisa di un melograno che racchiude nella sua buccia rotonda molti semi diversi.

Ho indossato la rossa veste su cui è tessuto
il leone che assalta il cammello.
Ecco, sono pronto: non ci saranno più ostacoli
per l'Unto del Signore.

(1-continua)


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