§ MIGRAZIONE DI FINE SECOLO

SULL'ALTRA FACCIA DEL PIANETA




M. B.



Si lascia Ayers Rock, il monòlito rosso che sorge dalle sabbie del deserto nella solitudine primordiale, e non si trova più un altro luogo che parli da solo, come fanno soltanto i luoghi intrisi di magia o depositari di un mito. Quello di Ayers Rock è però un mito degli aborigeni, cioè dei "primi australiani", mentre i "secondi australiani", i bianchi anglo-celtici, non hanno loro luoghi mitici né una leggenda delle origini che valga la pena di essere ricordata, forse perché hanno voluto rimuovere la storia, dal momento che nessuno riconosce volentieri di essere discendente di galeotti. La mancanza di un qualsiasi mito collettivo ha perciò impedito la nascita di una "australianità" più profonda che non sia quella di "Crocodile Dundee".
Si prendano, ad esempio, i nomi delle città: o sono nomi di governatori britannici dell'epoca coloniale, mai miti benefattori, spesso aguzzini o assassini, o nomi di donne, mogli di qualcuno di questi signori, o infine nomi di paesi e città inglesi sradicati, che hanno significato nel Regno Unito, non in questo continente. Gli stessi nomi aborigeni (come Gurangula, Kottotungo, Culangatta, Warraguburra) non evocano alcunché, sono soltanto suoni per posti poco attraenti. Altri nomi, invece, evocano il pittoresco-ironico-deludente, la "terra nullius" che incontrarono gli esploratori in cerca di chissà quale Eldorado: Montagna della Delusione, Montagna della Miseria, Baia della Disperazione.
Nelle grandi città vivono tantissimi "terzi australiani", quelli che migrarono qui nel dopoguerra. Molti sono italiani. Anche costoro non hanno elaborato alcun mito collettivo pregnante, forse non avendone avuto il tempo: ma tutti ricordano e raccontano la storia di come giunsero qui, del perché decisero di emigrare. E sono sempre storie di gente comune. Che tuttavia corse dei rischi. Tant'è che temeva per il colore degli occhi, dei capelli e della pelle. Non per niente nel 1947, quando si aprirono le frontiere australiane all'emigrazione, la prima nave carica di disastrati della guerra, giunta in Australia dall'Europa, era zeppa di biondissimi baltici, in modo che l'opinione pubblica accettasse più facilmente la prima ondata di nuovi venuti. Poi sarebbero arrivati gli altri, quelli di pelo scuro e di pelle non proprio roseo-lentigginosa: che tuttavia dovevano avere una qualche apparenza europea, calcolata dai discendenti della feccia brigantesca britannica in almeno il sessanta per cento. Così va il mondo.
Oggi, l'Australia resta nello stesso tempo aperta e tignosa. Vanno bene gli europei d'ogni nazionalità, mediterranei compresi, e gli asiatici d'ogni provenienza. Non vanno bene i neri, neanche quelli di pelle olivastra. Capita dunque che in un territorio sconfinato ci siano solo diciassette milioni di abitanti, qualcosa come 120 gruppi etnici, che realizzano il grande sogno australiano, frutto di tanti piccoli sogni individuali sintetizzabili in una casetta di mattoni rossi e con tegole rosse, con annesso giardino, in una Melbourne che porta il nome di un governatore britannico, in un'Adelaide che porta il nome di una moglie di governatore, in una Sydney che potrebbe contenere otto volte Roma e che continua a diluire tradizioni e memorie nello spirito di frontiera che, per realizzarsi, deve vincere un gigantesco deserto.
Allora, dov'è l'Australia? Nel punto morto del mondo, dicono i nostri emigrati per sempre. E per Donald Horne, autore di The Lucky Country, un classico sull'australianità, l'Australia dovrebbe considerarsi parte dell'Asia. In effetti, l'Indonesia è molto più vicina a Sydney di Los Angeles o di Londra. Ma agli asiatici risulta molto antipatico un Paese troppo grande, decisamente occidentale, con bandiera dell'Union Jack, con un'economia argentina, con una politica estera americana. Questo dicono gli asiatici, questo condividono molti australiani, italo-australiani compresi.
Forse è anche per questo che da quelle parti non si esalta alcuna saga collettiva, alcun mito delle origini, anche se materia prima c'è, e non di scarsa qualità, che riguarda i secondi e terzi australiani, ma anche i primi: quegli aborigeni che sono ridotti a vivere nelle riserve, e che fino al 1960 non erano nemmeno cittadini, cioè non potevano neanche giurare fedeltà alla regina d'Inghilterra. Gli unici non "naturalizzati" in patria, a differenza degli emigrati senza ritorno che avevano raggiunto "il continente fuori dal mondo".


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