§ MIGRAZIONE DI FINE SECOLO

FIGLI PERDUTI D'ITALIA




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Vanni Cuomo



Davvero strano destino, quello dell'emigrato. E' uno che fugge da un Paese che non lo ha cacciato e giunge in un Paese che non lo ha richiesto. E si accorge di essere tormentato da due stati d'animo che resistono molto a lungo, anche dopo il successo, se il successo arriva. Il primo riguarda il vecchio Paese: non può negare la radice, neppure se lo volesse. Nel nuovo mondo lo impediscono. Si è classificati secondo l'origine. Il secondo è questo: è nel nuovo mondo, fa cose nuove, le fa bene e glielo riconoscono. Ma non può essere un l'altro", non può rinascere. E' sempre quello che era. Nel caso nostro, "è un italiano". Se ne è fiero o meno, il problema è suo. Gli resta sulle spalle come un macigno. Nasce dunque il problema delle radici. Proprio nell'America in cui ciascuno "può farsi da sé" (così almeno si sogna), la radice (l'origine etnica, la provenienza, la giustificazione del proprio nome e della propria immagine fisica) è un obbligo. Tentare di separarsi da essa è come abbandonare il campo di scelta: si è presi per disertori. Nessuno è libero di avere radici interiori, private. Deve avere radici cercate, trovate, descritte e accettate, secondo il codice espressivo della nuova cultura di massa.
L'immagine dei gruppi etnici, nella tradizione americana, ancora oggi corrisponde alla grande pittura religiosa italiana: continue conferme e celebrazioni di un dato fisso che è la narrazione della fede. Qui la fede si compone di tre parti fondamentali, tenacemente ripetute a ogni scatto di generazione. La prima è che la mia stirpe è buona, ma ha avuto una grande sfortuna, una dura prova. La seconda è che ha faticato e lottato per affermarsi. La terza è che, nonostante molte vicissitudini, ha avuto successo.
Il successo consiste soprattutto nel diritto di confrontarsi alla pari con le altre stirpi e gruppi. Questo è ciò che la cultura formale e ufficiale si aspetta. Per rispondere ad essa, gli italo-americani si mettono, tre o quattro volte l'anno, in abito da sera, ingioiellano le loro signore e, in quell'occasione, invece di pronunciare in modo scivoloso e quasi furtivo il nome italiano (Sciàvon invece di Schiavone, Dijus invece di Del Giudice), lo declamano con calma, al modo in cui lo hanno re-imparato. Si celebrano, si premiano a vicenda, congratulandosi di essere italiani. Gli "italiani from Italy", quelli che vivono qui per lavoro, ma che non sono mai emigrati, guardano con benevola condiscendenza, pensano che questi riti un po' ingenui non li riguardino. E invece li riguardano. La strana storia degli immigrati italiani è un pezzo della storia italiana, che è una sola, esporta talento e maledizione, e non consente di far finta di niente. Di recente, all'Università di Yale è stata presentata una tesi di laurea, salutata dai docenti come una "rivelazione". Esaminando decine di reperti letterari, la tesi sostiene che l'immagine dell'Italia è "donna", dunque due volte straniera agli occhi di coloro che la guardano da lontano: e infatti la trovano bella ma infida, attraente ma fragile, capace di estro ma non di forza, qualcosa che si ammira ma che si deve proteggere "per il suo bene". Non ha stabilità e non dà affidamento. Quella di Gay Talese, l'autore italoamericano entrato nelle liste dei best seller con il suo Unto the sons ("Dedicato ai figli"), è una vicenda emblematica.
Talese narra la storia dell'emigrazione vista da un bambino italiano del 1940, sperduto in un paesino del New Jersey, dove la religione è solo quella degli irlandesi, dove tutti diffidano della gentilezza e del sorriso di questi ospiti non richiesti, dove le storie d'Italia si ascoltano solo da altri immigrati, che a loro volta raccontano le loro memorie care e distorte di un mondo mai veramente conosciuto, un mondo inventato per stare alle regole del gioco, per mostrare di avere radici.
Durante il suo lungo lavoro di ricerca, Talese fece vedere varie volte il suo materiale al corrispondente di un grosso quotidiano italiano, e prima della pubblicazione costui lesse il manoscritto, 650 bellissime pagine di memoria. Ma con 900 errori. Nessuno dei quali riguardava i luoghi, memorizzati con accanita passione da chi era partito, tramandati dai nonni ai padri, rinfrescati nella descrizione dai nuovi arrivati, dagli afferenti al clan legati per sempre dalla provenienza da uno stesso luogo. Gli errori erano di storia. Le vicende italiane si erano affettuosamente confuse nella mente dei narratori, anche perché la storia italiana, fino a poche decine di anni fa, non incontrava in alcun punto la storia americana. L'Italia non era che una stella remota e un luogo della superstizione di una particolare genia di emigranti. Non era né vera né falsa, né bella né brutta. Era quella che si vede nelle processioni di Sullivan Street.
Quanto all'Italia di Henry James, e per certi aspetti anche di Hemingway, essa apparteneva agli aristocratici, era un retrogiardino da visitare dopo la Francia o un'avventura quasi dannunziana da vivere fra le trincee o negli aspro-monti abruzzesi. Aveva il suo posto in un museo o in un romanzo, non del tutto nella vita. Dunque, le storie che i parenti raccontano al piccolo Talese, che ascolta incantato nella bottega di sarto del padre, è storia non vera, cosparsa di errori. Nell'Italia umbertina indifferente e classista, contadina, analfabeta ad altissimo indice statistico, disinformata, con poche strade e meno ferrovie, l'immaginazione poteva prendere il posto della realtà. Così, nel villaggio calabrese di Maida, a cui buona parte della memoria del libro era dedicata, giunse un giorno il giovane re d'Italia, Vittorio Emanuele III. "Alto, bello, smilzo", lo descrive la memoria dell'emigrato. Che fare, con la realtà che vedeva il re piccolo e brutto? Nulla, se non pregare Talese di non correggere quell'errore, né gli altri, perché la distorsione della memoria è un diritto di chi è partito; perché la celebrazione è una richiesta della cultura americana; perché proprio la differenza tra verità e memoria attribuisce al testo una grandiosa malinconia, rappresenta il lieve e profondo squilibrio che non potrà mai essere curato.
Spaghetti and Meatballs, spaghetti e polpette di carne, è il titolo di un bel racconto lungo di Don De Lillo, fra l'altro autore del romanzo Libra, e una delle figure di punta della narrativa post-moderna negli Stati Uniti. Sembra di cogliervi un riferimento piuttosto corrivo all'Italia, ma non è così. Gli spaghetti con le polpette sono una ricetta molto popolare tra gli italo-americani, e la tesa vicenda domestica che sostanzia il racconto di De Lillo si sviluppa in un caratteristico ambiente italo-americano, dove lo scontro di culture rivela la progressiva erosione del senso ancestrale della famiglia da parte di un sistema di valori assai diverso rispetto ai codici di comportamento recati dagli emigranti. La radicale messa in questione del primato anglosassone nella cultura americana, che sta al centro di un accanito dibattito da alcuni anni, la rivalutazione dei principi di etnicità e di multiculturalismo in opposizione alla logora categoria degli Stati Uniti come "crogiuolo", ripropongono il problema della specificità culturale degli italo-americani. Sappiamo bene che la forte spinta all'assimilazione da una parte, e la fragilità culturale degli immigrati dall'altra, hanno considerevolmente assottigliato un'autentica identità originaria negli italo-americani: il passato ha assunto contorni vaghi, "misteriosi". E lo dimostrano le opere dell'unico scrittore italiano che ha scritto in lingua italiana, Paolo Valesio. Gli scrittori di seconda e terza generazione, se riflettono spesso un ambiente italo-americano e ricorrono a stereotipi che fanno parte di quel territorio, appartengono pienamente alla letteratura americana per scelta linguistica e per modelli o referenti letterari.
Uno è, precisamente, De Lillo. Un altro, della generazione precedente, è John Fante, incluso da Vittorini in Americana quando ben pochi lo conoscevano e divenuto poi un grosso caso, un punto di riferimento per tutto un filone sperimentale. L'italianità dei "beat" Lawrence Ferlinghetti e Gregory Corso appare molto più mediata. Se mai, andrà riscoperta l'area in parte sommersa dell'oralità e del folclore. Ben diversa la situazione del Canada. E' vero che nessun autore canadese di primo piano vanta un'origine italiana, ma l'identità culturale degli italo-canadesi ha resistito al processo di assimilazione.
Ha tenuto assai meglio la lingua, pur senza esprimere grandi personalità di poeti o di narratori; sono subito riconoscibili le caratteristiche delle comunità italiane. Una storiella banale ma indicativa vuole che, al tempo degli attriti tra Reagan e il presidente canadese Trudeau, il primo avesse agitato lo spettro di una guerra: "Attenti: potremmo bombardare Vancouver, Ottawa, Montreal, Winnipeg", avrebbe minacciato Reagan. "E Toronto?", avrebbe domandato l'esterrefatto Trudeau. "Toronto, no. Non ce l'ho con gli italiani". Chi voglia farsi un'idea seria degli italo-canadesi, può leggere il documentato panorama di Kenneth Bagnell, Canadese, a portrait of the Italian-Canadians.
"Mamma mia dammi cento lire..." cantavano gli emigranti a fine secolo, inzeppati nei bastimenti che li portavano lontano. E una volta sbarcati a destinazione, si rimboccavano le maniche e lavoravano sodo, secondo l'iconografia ufficiale, risparmiando lira sopra lira: "La nostra emigrazione è uno dei più grandi fatti del mondo politico attuale; essa non è l'errante miseria della patria nostra, ma è un poderoso e nobile esercito di lavoratori che si spande per il mondo". Questo sterminato esercito di formiche migratrici portava oltre i patrii confini "tutto un contributo di forza e di intelligenza". E aveva un merito speciale: "Imprimere in tutti i grandi lavori compiuti nel mondo, in questo secolo, il carattere della genialità italiana".
Dunque, brava gente, gli italiani nel mondo: ma solo nella retorica dei grandi discorsi, nei rapporti ministeriali, nelle pubbliche orazioni, come dimostrano le frasi su citate, pronunciate da monsignor Scalabrini al XVIII Congresso della Dante Alighieri, la società fondata nel 1889 con lo scopo di sostenere e diffondere all'estero la lingua e la cultura italiana. Ben diversi i giudizi che di frequente venivano formulati in privato, senza veli o perifrasi, dagli stessi dirigenti della Dante, o da funzionari del ministero degli Esteri e da diplomatici che facevano propri anche i peggiori luoghi comuni nei confronti degli emigrati. A portare alla luce carteggi inediti e tutta una ricca documentazione dell'archivio storico della Società, tratteggiandone la storia in quarant'anni di attività - dalla nascita al 1930 -sono state due studiose: Beatrice Pisa, con Nazione e politica nella Società Dante Alighieri, e Patrizia Salvetti, con Immagine nazionale ed emigrazione nella Società Dante Alighieri. I due testi smantellano un mito e un simbolo nazionale, quello della Dante e della sua opera di provvidenziale benefattrice per gli italiani all'estero abbandonati da un'Italia madre-matrigna. Negli anni, le personalità di spicco della Società furono uomini politici di varie tendenze, dal meridionalista illuminista Pasquale Villari al sindaco di Roma Ernesto Nathan, al più volte ministro Luigi Rava.
In origine, lo scopo occulto della Società era stato quello di portare a compimento l'unità nazionale e di far sventolare il tricolore sulle terre irredente: Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia.
Abbandonata la fase più intensa della propaganda nazionalista, il suo compito, sostenuto da Villari, fu quello pedagogico per aiutare i patrioti all'estero, "gente onesta e laboriosa ma che la natia favella poco e male parlano", come diceva l'ambasciatore italiano a Washington nel 1896. Ma gli epistolari privati e i materiali d'archivio relativi all'alta missione che i funzionari della Dante sparsi per il mondo dovevano compiere rivelano verità sconcertanti. Altro che intelligenti e accaniti accumulatori di fortune. Altro che fedelissimi della patria lontana. Altro che solerti tutori di ordine e disciplina, dominati dall'amore per il focolare domestico. Rozzi, ignoranti, poco desiderosi di sottostare all'autorità e anche di mantenere stretti i legami con la madrepatria: i connazionali, che fagotto in spalla avevano preso la via dell'espatrio, si scontravano con lo sguardo nient'affatto generoso di tutta una classe dirigente che non lesinava opinioni severe nei confronti dei poco stimati compatrioti. "Ignorante e ambizioso" è il tratto precipuo dell'emigrato medio secondo F. Netri, presidente del Comitato Dante di Rosario, in Argentina. L'italiano è avido e litigioso, "preoccupato solo di poter, lesinando sul cibo, metter da parte qualche centinaio di lire per ritornare al suo villaggio". Sempre pronto a "parlare male delle cose del suo Paese" e a "spogliarsi, non appena mette piede in terra straniera, di tutto ciò che possa fargli ricordare, o almeno palesare ad altri, la sua nazionalità". Italiano in Argentina "è divenuto sinonimo di miserabile" e anche di "malfattore". Che fare? Per Netri forse si potrà rimediare quando "all'emarginazione di masse ignoranti e mal guidate si aggiungerà una corrente di emigrazione dell'elemento intellettuale".
Soluzione contrastata: persino il ritratto degli intellettuali italiani che risiedono all'estero è penoso, come scrive Donato Sanmignatelli, viceconsole a San Paolo del Brasile: "Se tu conoscessi la scuola italiana di S. Paolo e tanti maestri quasi analfabeti, potresti persuaderti di quanto basso sia il livello morale di questi nostri connazionali. La sete del guadagno toglie ogni altra energia... L'unico scopo di tutti e di tutto è il denaro, far fortuna presto e con ogni mezzo". Su tutto domina l'avidità e in un clima in cui le comunità della Dante sembrano gli avamposti corrotti di un Far West in cui non ci sono ordine e legge, anche la politica è uno dei tanti mezzi per accumulare fortune: "Se un po' di attività rimane ancora disponibile, questa si rivolge alla politica che rappresenta un lucro". L'opinione è condivisa da un maestro italiano di Riberao Preto che, in una lettera a Villari, denuncia "le irregolarità e le barbarità" che consumano gli italiani. Nel leit-motiv dominante, il console generale d'Italia a San Paolo vede i compatrioti come una banda di "spostati, sfaccendati, imbroglioni d'ogni genere, persino di galeotti e di tenitori di postriboli".
Good morning, Bronx. Era un oceano di degrado, di violenza e di disperazione, immortalato sul grande schermo da Paul Newman in "Fort Apache". Al punto più alto della violenza, erano giunte le pallottole delle Magnum e la droga spappola-cervello, il crack. Chi vi abitava era costretto a ingrossare le legioni dei mercenari del crimine organizzato: le donne, punto di raccolta e di smistamento della droga; i giovani senza futuro arruolati come sentinelle sui tetti, con tanto di walkie-talkie e di fucile con cannocchiale; i bambini, corrieri in cambio di videogiochi e di qualche dollaro. Poi, dopo decenni di incubo, un procuratore nero fece piazza pulita. Il padre di tutti i ghetti, dove Tom Wolfe, nel suo best seller Il falò delle vanità, ambientò la metafora esemplare e iperbolica delle paure dell'America "Wasp" (bianca, anglosassone e protestante, mito infranto dalla marea montante degli immigrati ispanici), ha cambiato rotta e ha accettato la sfida del futuro. E' uscito dal tunnel. E al suo ingresso, tra le case di mattoni rossi, qualcuno ha scritto, retoricamente forse, ma anche realisticamente: "Il sole torna a risplendere". I Bronx sono ormai dappertutto (a Palermo come a Hong Kong, a Bogotà come al Cairo). Meno che nel Bronx.
Little Italy, invece, si tinge sempre più di giallo, accerchiata com'è dalla comunità di Chinatown, da tempo tesa all'occupazione di nuovi territori. Così, la "gloriosa terra nazionale" appare sempre più un ricordo annebbiato, tra la polvere, qualche brandello tricolore e scarsi residui di dialetti siciliano e napoletano. La roccaforte dell'emigrazione italiana si è pressoché spopolata. Chi vi arriva e fa riemergere le antiche memorie legate a quest'isola di italianità (e meglio ancora, di meridionalità) resta deluso. Sopravvivono qualche negozio e qualche ristorante, perché l'aspirazione dei giovani è di abbandonarla. Terza e quarta generazione parlano ormai un perfetto americano, senza le vecchie inflessioni dialettali. Da Park Avenue si raggiungono Broadway e il West Side, attraverso sequenze di edifici un giorno piccole fabbriche di abbigliamento, di pellami, di camicie per donne. Si entra nell'area cinese dove pullulano miriadi di piccoli negozi. E si sfocia nella confinante Little Italy. Il quartiere italiano, nella sua architettura di fine Ottocento, è rimasto intatto. Case basse, a due o tre piani, finestre a ghigliottina, scalette esterne antincendio. Mulberry Street: l'ingresso è grandioso, con due alte colonne, i capitelli appena abbozzati, in cemento e gesso candidi. All'angolo con Grand Street, una linda birreria. Poco più in là, cimeli italiani, pezzi di storia di un impero decaduto. Patetici i titoli in una libreria: Il segretario galante, cioè come scrivere alla fidanzata; Il libro delle donne, per conoscerle meglio; Casanova; L'assassinio della contessa Trigona; Fra' Ciavolino, che è come dire dal chiostro all'ergastolo; un erbario, un volume di ricette regionali italiane. Tutte edizioni di almeno mezzo secolo fa, degne di un museo. Persino Storie, romanzi e processi di donne, con ricche illustrazioni, e un'eccentrica Antologia dell'amore turco tradotta e stampata "in cento soli esemplari" agli inizi del secolo. Accanto, una riparatrice vetrina dedicata a San Gennaro. Di fronte, un lussuoso ristorante fregiato dal vessillo S.P.Q.R.
C'era una volta Little Italy. Lungo la Mulberry Street sfilavano i caffè e i ristoranti di Cosa Nostra. Il "Casabella" apparteneva alla famiglia Bonanno, il "Roma" agli Zeccardi della famiglia Genovese, il "Palermo" cadeva nella giurisdizione dei Gambino. La mafia era presente qui fin dagli inizi del secolo. Gli anziani ricordano i travestimenti di Petrosino per arrestare gli uomini della Mano Nera. I giovani raccontano di un procuratore italo-americano, Rudolph Giuliani, che ha sbaragliato le cinque famiglie che tenevano in pugno New York: i Genovese, i Lucchese, i Bonanno, i Colombo e i Gambino. Tra caffè, ristoranti, pizzerie, furono consumati gli omicidi mirati delle famiglie. Da "Umberto's" fu ucciso Joe Gallo. Al "La Stella" fu arrestato Aniello Dallacroce. Al "Joe & Mary" fu fatto fuori Carmine Galante. A "Il Tammaro" ci fu un attentato contro Lucky Luciano. In una Steak House sulla 46° Strada, all'angolo tra la Seconda e la Terza Avenue, lasciò la vita l'ultimo grande boss, Big Paul Castellano. La vita non valeva un cent.
Già nel 1892 Little Italy contava quindicimila abitanti. I vecchi raccontano storie e dipingono immagini consegnate alla storia: gli anni degli sbarchi in massa a Long Island, le strade affollate e sporche, gli appartamenti stracolmi all'inverosimile, le famiglie numerose, gli spari, gli accoltellamenti, gli agguati. Qui, tra le case disfatte, fra i marciapiedi sui quali si affacciavano "carnezzerie" e negozi di frutta, botteghe e portoncini, bassi e autorimesse, vetrine di fiorai e vetrine di cianfrusaglie, crebbe il sogno americano dei "cafoni" analfabeti meridionali.
Da qui, da dieci anni, fuggono i loro discendenti, gli americani dai nomi italo-storpiati, quelli che hanno voltato le spalle alle mafie e che si sentono in tutto e per tutto assimilati al melting pot americano. Sono i figli (fortunatamente) perduti dell'Italia, quelli che scalano il potere economico e il potere politico, e che se non hanno chiuso con le tradizioni è solo perché l'antica terra dei padri e dei nonni è quella di Roma, di Firenze, di Venezia, del Rinascimento, della pittura, della musica, del mare e del business.
I vecchi soltanto, quelli dalle radici inestirpabili e dall'assimilazione ormai impossibile, quelli sono perduti solo a se stessi, ultimi monumenti di un'Italia arcaica che non ha mai saputo raccontare le saghe disperate e straccione di chi, per fame e per persecuzioni, salutò il proprio villaggio, e non sapeva che sarebbe stato un addio per sempre.


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