§ MIGRAZIONE DI FINE SECOLO

TANGO ALL'ITALIANA




Sergio Bello



Sbarcavano in massa i manyapulenta e i ganeise, i bachichas e i cocoliche. Li chiamavano anche gongri, mayagofios, tallarín, tarugo manache, grebano. In una parola, i "tanos", gli italiani dell'Argentina. E con loro il tango, appena nato, si popolò di titoli familiari: "O sole mio", "Domani", "Giuseppe", "El zapatero", "Dona Flaca", "Farabuta", "Atenti pebeta", "Yra Yra", "Pipistrela"...
L'Argentina aveva un milione e trecentomila abitanti a metà del secolo XIX, quasi otto milioni nel 1914, di cui il 42 per cento composto da stranieri. Ma gli italiani costituivano la stragrande maggioranza. Ne erano sbarcati un milione e centomila nel secolo scorso, poco più di altrettanti tra il 1900 e il 1920. Di tutti costoro, una buona metà era definitivamente insediata nel nuovo Paese, in particolare nell'area di Buenos Aires: qui, proprio nel 1914, il quaranta per cento della popolazione era di origine italiana.
"Per questo motivo non è affatto sorprendente che l'apporto italiano al tango sia stato di primissima importanza", scrive Horacio Salas in Le Tango, pubblicato di recente in Francia da "Actes Sud".
Partito per esplorare il mito musicale del suo Paese, il letterato argentino non fa che imbattersi costantemente in una miriade di "tanos" che attraversano l'avventura del tango. Si comincia dai "tricos" che si esibivano quasi esclusivamente nel terribile quartiere della Boca, dove confluiva la fiumana di immigrati attraccati a Buenos Aires, e che oggi regge appena il confronto col "Caminito" in fatto di presenze turistiche.
Nascevano qui i primi astri della Vieja Guardia tanghèra, come Santos Discèpolo, napoletano purosangue, padre della futura star Enrique Santos Discepolìn, il quale ci ha consegnato tanghi come "Caramba" e "Payaso". Da quel momento, la lista dei compositori e degli interpreti eccellenti è davvero lunga. Nomi come Cayetano Puglisi, José Giambuzzi, Mario Batistella, Luio César Amadori, José Libertella restano indimenticati nella cultura tanghèra argentina. E ancora: Vicente Greco, Pascual Contursi, Alfredo Bevilacqua, Augusto Berto, Alberico Spatola, Juan Maglio, Arturo De Bassi. Tutta una schiera di imitatori, di discepoli, di apprendisti, ha coronato la storia di questa musica che, fuori dall'Argentina, affascinò e scandalizzò, venne amata e condannata, invocata e ripudiata, come forse nessun'altra in qualsiasi angolo del pianeta.
Da dove venivano questi italiani alle prese con le note e i pentagrammi? Modesto Papavero, l'autore di "Leguisame solo", era giunto da Alessandria, Alberto Marino e Alberto Moràn erano partiti rispettivamente da Verona e da Treviso. Fra l'altro, non facevano difetto soprannomi celeberrimi, come El Bachicha Deambroggio (neanche la deformazione del cognome può tener segrete le origini liguri e genovesi), o come El Pacho (il Pazzo) Juan Maglio. E c'era anche chi tentava di nascondersi dietro fantasiosi nomi d'arte, generalmente presi in prestito dai repertori spagnolo e francese: Barquina (Francesco Lojacono), Jorge Casal (Salvatore Pappalardo), Juliàn Centeya (Amleto Vergiati), Jorge Maciel (Carlo Pellegrini), Alberto Moràn (Remo Recagno)...
Il tango era nato fra le immense solitudini della Pampa, nelle sere dei bivacchi fra i recinti che custodivano milioni di zoccoli bovini, ricchezza e tragedia dell'Argentina. La Pampa era il regno dei "gauchos": e i gauchos si ritenevano gli autentici abitanti di questo Paese sterminato, diverso da tutti gli altri dell'America Latina. Nel gaucho c'erano l'orgoglio di appartenenza e il disprezzo per l'altro, per l'immigrato che era sempre un estraneo, un "gringo", un "negrito", un "kraut" (con questo termine venivano definiti, indistintamente, tedeschi e olandesi). Il gaucho si riteneva l'emblema argentino per eccellenza, il simbolo vivente di un Paese che prosperava sul commercio del bestiame e delle altre derrate alimentari, soprattutto mezzo secolo fa, quando il secondo conflitto mondiale rese l'Argentina l'entroterra-deposito gigantesco delle riserve statunitensi e alleate.
In quel tempo il tango risuonò allegro, accattivante, sensuale, tra le sterminate praterie argentine. Mille rivoli di ricchezza contribuivano a formare un fiume gigantesco di valuta, la ricchezza era un bene di tutti, a portata di mano. Nelle città si cantava: "El vivo vive del tonto, y el tonto vive de trabajo", chi sa vivere, vive dello sciocco, e lo sciocco vive del lavoro. Il "boemio", cioè chi riusciva con l'arte di arrangiarsi a tenere un alto livello di vita, attirava l'ammirazione generale. A Ushuaia, dalle parti del Capo Horn, o Capo delle Tempeste, in questa che è la città più australe del mondo, sulle pareti era scritto: "Dios está en todas partes, pero atiende en Argentina", Dio sta in ogni luogo, però fa affari in Argentina. Sembrava il trionfo dell'orgoglio machista del gaucho. Fu, di lì a poco, la cronaca di uno sperpero preannunciato.
E il tango riprese le sue note dolenti, di melanconie lontane, di speranze tradite, di sconfitta poco oltre la frontiera. Il gaucho si inurbò, e scoprì che quella musica non era stata in fondo mai soltanto sua, che il filone italiano, dei compositori e degli interpreti italiani, era sempre stato creativo, vigoroso. Erano stati i "tanos" a tener banco nei bordelli con tanghi come "La Franela" e come l'allusivo "Bartolo", magari suonati dal leggendario Tito Roccatagliata o da Alfredo Gobbi. Gli stessi che insieme col napoletano Ernesto Ponzio legittimarono poco più tardi il tango nei cabaret, come il Caffè Tarana, il favoloso ex Handsen passato di mano e acquistato dal lombardo Anselmo Tarana. Passavano di lì personaggi come Francesco Canaro, che il violino se l'era fatto da solo con un po' di legno trovato in un'officina; oppure Roberto Firpo, inventore della cosiddetta l'orchestra tipica". E fu proprio lui, all'Armenonville, ad eseguire per la prima volta un nuovo tango, che avrebbe preso ben presto le strade del mondo: era del giovane compositore Gerardo Rodriguez, e si intitolava "La Cumparsita".
Anche il più grande di tutti, Carlos Gardel, aveva un paroliere italiano: Alfredo La Pera. Come l'ultimo re del tango, Astor Piazzolla, figlio di un emigrato pugliese (di Trani) e di una toscana della Garfagnana.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000