"Se
trovassi Cristoforo Colombo lo ucciderei, per avere scoperto l'America,
queste inospiti regioni, questo è luogo di selvaggi e non di
noi che siamo parti del fino fiore della bella patria italica",
scriveva a conclusione delle sue memorie, nel 1942, José Gelain,
ormai settantenne, giunto in Brasile a 19 anni, ai suoi cugini italiani
che volevano conoscere la storia dell'esodo della loro famiglia. Un
emigrato qualsiasi, che, però, sapeva leggere e scrivere. E'
un'accorata testimonianza riferita da Emilio Franzina nel saggio Gli
italiani al Nuovo Mondo. L'emigrazione italiana in America 1492-1942.
Lo studio scandaglia le vicende di cinque secoli di storia della diaspora
emigratoria degli italiani in America, dalla scoperta alla dichiarazione
di guerra del Brasile all'Italia, nel '42 appunto, attraverso dolorosi
percorsi individuali, folclore e letteratura, contributi della diplomazia
e della Chiesa, statistiche e disegni di legge. Un poema epico, ricco
di pathos: vi prendono corpo e parola malinconie, nostalgie, ma anche
caparbietà ed energie di 12 milioni di persone che fra Otto e
Novecento arrivarono come immigrati in America: "Non un lembo o
una frazione, ma un vero pezzo d'Italia si era trasferito in varie parti
del continente scoperto da Colombo".
Prima di allora, l'Oceano era stato percorso da mercanti, conquistadores,
francescani, domenicani e poi gesuiti in cerca di anime da salvare.
All'inizio del XIX secolo giunsero i patrioti in esilio, i primi mazziniani,
come Pietro Borsieri, il brillante giornalista del Conciliatore, oppure
Giovanni Berchet e Piero Maroncelli, che per evitare la fame dava lezioni
d'inglese e teneva gente a pensione. Giuseppe Garibaldi, nelle Memorie,
parla dei suoi viaggi attraverso gli Stati Uniti, il Perù, l'Uruguay,
e dei tanti suoi compatrioti liguri, sardi, napoletani che vi si erano
stabiliti. Si incontrano anche "viaggiatori per diletto",
come un tal Giuseppe Raddi, funzionario del Granducato di Toscana, che
nel 1818 se ne tornò dal Brasile portando con sé 4.000
esemplari di piante e 3.000 fra insetti, uccelli e rettili. Ma gli "uomini
oscuri", la gran massa senza volto e senza nome, arrivarono dopo,
verso il 1880.
"Guappi" (wop) li chiamavano negli Usa, "tani" (abbreviazione
di napoletani) in Argentina, e in Brasile "carcamani" perché
alteravano il peso della merce premendo con la mano sul piatto della
bilancia, ingenuo espediente di furbizia italica. E costoro, vagabondi,
lustrascarpe, millemestieri, ma anche manovali e scalpellini, per difendersi
da tanta reiterata umiliazione, si convinsero che dovevano superare
le profonde distinzioni che si erano portate dentro e dietro. Di lingua,
perché ciascuno si esprimeva nel proprio dialetto; di tradizioni,
perché ciascuno teneva rigorosamente alle proprie; di identità
regionale e paesana, per accedere a un'ideale e presunta italianità,
a un'identità nazionale più accesa e più forte
di quella di chi era rimasto in patria. Soltanto le generazioni venute
dopo recuperarono un senso di appartenenza nazionale, un ricordo delle
loro "radici italiane". E recuperarono, più tardi,
anche il dolore di una lacerazione profonda, se nel 1944, durante il
secondo conflitto mondiale, a Mulberry Bend, ad esempio, una delle zone
più difficili di New York, il 90 per cento di immigrati italiani
si scagliavano contro chi caldeggiava la rielezione di Roosevelt, perché
pensavano che l'America non stesse combattendo contro Mussolini e Hitler,
ma contro l'Italia, la loro vera patria, mandando i suoi figli ad uccidere
la propria gente. E ancora oggi c'è chi non rinuncia all'italianità
completa. Su 40-50 milioni di americani di origine italiana, oltre due
milioni hanno mantenuto l'antica cittadinanza. Ad avere un po' di fortuna,
dalle parti di San Paolo, in Brasile, si possono guardare foto e illustrazioni
straordinarie: uomini barbuti a cavallo, col fucile in mano; donne con
lunghe gonne, i capelli a crocchia e una Colt alla cintura; ragazzi
scalzi che tornano dalla foresta con teste di indios legate insieme.
Erano gli italiani del Rio Grande do Sul, di Santa Caterina o delle
radure tra le foreste che circondavano il territorio paulista. E poi
scene di lavoro nei campi, di frati in bicicletta, di matrimoni, di
giustizia sommaria, di omicidi, di incendi, di cavalcate: un'epopea
western (ma in realtà sulla costa occidentale) che ha inghiottito,
senza lasciarne traccia, oltre un milione di italiani, in buona parte
friulani (passati per austriaci, nelle statistiche, all'epoca di Francesco
Giuseppe), veneti, ma anche lombardi in genere, cremonesi, bergamaschi.
Separati, e in un secondo tempo, i meridionali, e i calabresi in particolare,
solo di due paesi: Fuscaldo e Paola. Una canzone toscana del secolo
scorso diceva:
Forse un dì
noi verremo lì da te
là dov'è la raccolta del caffè.
Ma ancor qui
ci sarà da lavorar
senza andar in America a emigrar...
Dai tempi della
raccolta del caffè, degli italiani che dissodavano la terra,
insieme con i tedeschi, alla manodopera dello schiavismo nero, è
passato più di un secolo. Oggi gli italiani sono in gran parte
integrati, la maggioranza non ricorda una parola della lingua madre.
Anche se c'è un ritorno di fiamma: il passaporto europeo è
un simbolo di privilegio, quello italiano una griffe. E' una novità
assoluta. Anche perché la lingua italiana, sebbene sia quella
di una delle maggiori etnie che hanno popolato e prodotto reddito,
cultura e progresso in Brasile, non è insegnata alle scuole.
La lingua straniera più diffusa tra i brasiliani (inglese,
ovviamente, a parte) è quella francese, sebbene l'emigrazione
francese sia stata pressoché insignificante. Ma l'amore intellettuale
per la Francia è antico quanto il Brasile: la pressione politica
e militare di Londra sul Portogallo e poi sull'Impero brasiliano ha
causato negli ultimi due secoli un rigetto della cultura anglosassone,
che poi si è esteso agli Usa: il Brasile è ancora oggi
ai ferri corti col grande fratello americano al quale (come, a torto
o a ragione, fanno tutti i Paesi latino-americani) imputa tutte le
colpe storiche, presenti e passate. La lingua e la cultura ispanica
sono d'altra parte talmente contigue al Brasile, da provocare un rapporto
di necessità ma non sempre di fraternità. I brasiliani
non perdonano agli argentini, ai boliviani, agli uruguayani, agli
spagnoli, di pretendere di essere capiti nella loro lingua: "Parlano
il "portinhol" - dicono irritati - cioè spagnolo
con qualche comica traccia di portoghese". Non per questo i brasiliani
si sentono vicini ai portoghesi: parafrasando una celebre frase di
Oscar Wilde sui rapporti fra inglesi e americani, si potrebbe dire
che i brasiliani e i portoghesi sono uniti da molte cose, ma divisi
dalla lingua comune.
I portoghesi sono considerati storicamente non tanto come i vecchi
sfruttatori e colonialisti, ma gli eterni fuggiaschi e parassiti,
fin dai tempi in cui la corte di Braganza, tallonata da Napoleone,
lasciò Lisbona e si imbarcò con un convoglio di ciambellani,
dame, saltimbanchi, oro, merletti e pidocchi, creando poi l'Impero
brasiliano, primo e unico Stato del continente latino-americano nato
da un motu proprio monarchico e non da una guerra d'indipendenza.
Il risultato è che i portoghesi sono per i brasiliani quel
che i belgi sono per i francesi: più o meno, degli imbecilli,
degli sprovveduti, oggetto di feroci barzellette. I francesi, che
con gli olandesi tentarono una penetrazione in Brasile nei primi secoli
della colonizzazione, diventarono subito un solido punto di riferimento
culturale per la buona borghesia brasiliana, i cui rampolli andavano
a studiare a Parigi. Cucina, cinema e libri francesi hanno sempre
goduto qui buona fama.
Più che altrove nelle Americhe, invece, l'italiano era ridotto
a idioma dei poveri: un italiano farcito di termini dialettali, distaccato
dal prestigio della letteratura moderna, legato ancora alle "parlate"
dei miserabili imbarcati sui bastimenti che spesso erano poco più
che bare galleggianti.
Curiosamente, i nostri antichi emigrati hanno generato nuove lingue:
non solo delle parlate intermedie fra il veneto e il portoghese, fra
il bergamasco e il portoghese, fra il calabrese e il portoghese; ma,
nel Rio Grande do Sul, anche un vero e proprio trilinguismo italiano-portoghese-francese,
essendovi arrivati in massa, circa un secolo fa, i cappuccini francesi,
il clero più colto, seguito dalle sorelle di San Giuseppe di
Chambéry, dai fratelli Maristi e dai Lassalliani. Nel 1924
fu pubblicata a puntate sulla Staffetta Riograndese un'epopea italiana:
la storia esemplare di "Nanetto Pipetta, nassuo in Italia e vegnudo
in Mérica per catare la cuccagna", cioè del povero
Pipetta, nato in Italia e venuto in America a cercar fortuna e ricchezza.
A differenza di quella verso gli Stati Uniti o l'Argentina, l'emigrazione
in Brasile fu totale e definitiva. Chi partiva sapeva che non sarebbe
tornato, non avrebbe scritto a casa, non avrebbe inviato rimesse.
In alcuni paesi della montagna veneta, abruzzese, calabrese, a testimonianza
di un'estirpazione irrevocabile, gli emigranti si portarono via anche
le campane della chiesa.
Questa cesura contribuisce a chiarire come mai, ancora oggi, la storia
dell'emigrazione italiana verso il Brasile sia così poco conosciuta
e quanto sia difficile, da parte degli odierni discendenti degli immigrati,
la ricerca delle proprie radici. Restano le narrazioni della traversata,
ricordata per anni come un evento spaventoso. Un detto dei nuovi arrivati
era: "Chi non sa per chi pregare, preghi per coloro che sono
in mare". Ci si riferiva agli stenti, ma soprattutto ai naufragi.
Uno di questi, della nave "Sirio", fa ancora parte del nostro
folclore musicale:
Urtò
il Sirio l'orribile scoglio
di tanta gente la misera fin.
Padre e madre abbracciava i suoi figli
che sì sparivano tra le onde del mar.
Sbarcati, la situazione
non cambiava. Un giornale di Puerto Alegre, un secolo fa scrisse:
"Ci chiediamo se il Brasile chiami gli immigranti per popolare
la terra o i cimiteri". Al Parlamento italiano, nel 1880, il
deputato Antinobon lesse alcune relazioni sui connazionali emigrati:
"Di 200 ci riducemmo in 40. Chi perse il marito, chi la moglie,
chi i figli. Si dice da queste parti che alcuni del Tirolo (cioè
i trentini) si sia mangiato un figlio". Le stesse canzoni diventavano
nenie di lamento:
A la Merica
noi siamo arrivati
n'abbiam trova' né paglia né fieno
abbiam dormito sul nudo terreno
come le bestie abbiam riposa'.
Tra i pericoli
che attendevano questa carne da soma, gli assalti dei giaguari. Tra
le insidie, le rivolte e le scorrerie degli indios e le repressioni
dell'esercito; fra i risultati dell'ignoranza, il nutrimento con frutti
velenosi. Fra il 1885 e il 1935, un intero popolo - un milione e mezzo
di persone - divenne invisibile e fu dimenticato. Oggi, i discendenti
riemergono come per incanto e chiedono ai nostri Consolati un passaporto
italiano. La nuova Mérica, nel bene e nel male, per loro è
l'Italia.
In tutta l'America Latina la parola "gringo" serve a indicare
gli statunitensi, in termini ironico-dispregiativi. Fa eccezione l'Argentina,
dove gringo equivale a "italiano". Nel Paese nel quale il
40 per cento della popolazione porta cognomi liguri, piemontesi, veneti,
lombardi, abruzzesi-molisani, pugliesi, lucani e calabresi, per rimproverare
a qualcuno un comportamento scorretto, si dice che "ha agito
all'italiana". Il rapporto di amore-odio con l'Italia viene da
lontano e ha le sue radici in quello che il sociologo Jauretche definì
il "razzismo del medio pelo", cioè della borghesia
benestante, candidata ad inserirsi nell'oligarchia del potere. Una
borghesia edonista, figlia di immigrati poveri, che non si riconobbe
nei genitori e cercò di neutralizzarne il ricordo con la rimozione.
C'è una vasta letteratura indigena su questo fenomeno. L'immigrato
che si incorporava nell'agricoltura della Pampa acquistava una dimensione
sociale, l'inurbato no. "Per decenni - dice Jauretche - l'operaio
è rimasto un'entità immaginaria, di pelle bianca e cognome
italiano, principalmente occupato nei servizi pubblici e con una cultura
che lo poneva ai margini della società. Gli altri sottoproletari,
di sangue misto, erano "negros"".
In realtà, l'Italia ha fornito anche una forte migrazione intellettuale,
le cui tracce sono riscontrabili a occhio nudo nella cultura degli
argentini, nell'architettura dei loro monumenti, nella loro letteratura,
nella loro vita sociale. E anche la storia del più recente
progresso argentino è strettamente legata all'opera di uomini
e imprese industriali al cento per cento italiani. Ma la vecchia immagine
dell'emigrante italiano che si arenava nella zona del porto o nei
quartieri periferici, che parlava il dialetto d'origine e che quindi
finiva per adattarsi ad una neolingua, un misto di castigliano e di
genovese, il "cocoliche", o di pugliese, o di veneto, sopravvive
nell'inconscio collettivo. Sopravvive a tal punto che la stampa di
Buenos Aires stenta a trovare le parole per annunciare l'effluvio
di miliardi che l'Italia riversa sul Paese, grazie ai patti di cooperazione.
Inoltre, i servizi giornalistici dedicati all'Italia sono in gran
parte forniti dalla France Press, che poco elegantemente esercita
nei nostri confronti un umorismo sciovinista, dalle indubbie finalità.
Il "medio pelo", che fornisce la classe intellettuale, ha
sempre considerato indispensabile un viaggio in Europa, dove tuttavia
è doveroso visitare l'Inghilterra, utile visitare la Francia,
inutile visitare la Spagna, poco fine raggiungere l'Italia.
Nel codice mnemonico argentino la fame di moda italiana, la spasmodica
ricerca del made in Italy, non hanno del tutto cancellato gli antichi
luoghi comuni. Bene ha fatto, di recente, un intellettuale milanese,
l'architetto Alberto Galardi, a ripubblicare uno dei più rari
testi letterari in cocoliche, Los amores de Giacumina, campionario
di questo mito negativo, con la coppia di italiani gretti e maneschi,
la figlia Giacumina inevitabilmente avviata alla malavita, gli arredi
sentimentali del tango, dal caminito alle osterie portuali. Del resto,
l'immagine stereotipa dell'italianito viene quotidianamente contraddetta
dall'orgoglio con il quale tanti discendenti di italiani si dichiarano
tali, dall'ammirazione quasi religiosa degli argentini per il nostro
stile di vita, per la nostra produzione industriale, per il nostro
design, per il nostro cinema, per il nostro sviluppo tecnologico.
E viene contraddetta dalle migliaia di persone che, in nome della
loro origine, chiedono il passaporto italiano. Per questi emigranti
di ritorno, l'Italia, più che la patria degli avi, rappresenta
una nuova frontiera, un luogo del futuro: rappresenta, cioè,
ciò che era l'Argentina per i loro padri. Non chiedono un semplice
ritorno a casa, ma un luogo dove sia consentito non rinunciare al
livello di vita già raggiunto e ora più che mai in pericolo.
Perché, in realtà, ciò che temono non è
l'immagine degli antenati, ma la prospettiva di dover ritornare ai
loro tempi, di povertà e di duro lavoro. Non per niente il
quadro è ancora fosco: recessione, svalutazione, prezzi alle
stelle, disoccupazione e sottoccupazione che coinvolgono 5 milioni
di persone su un totale di 12 milioni di lavoratori (di cui 2 milioni
di statali), un'economia sommersa che rappresenta il 40 per cento
del prodotto lordo.
Dal 1970 non si fa più un censimento degli italiani in Argentina.
Al Consolato italiano stimano che siano oltre un milione e mezzo,
di cui 600 mila nella sola area della Grande Buenos Aires. Ora è
in corso la cosiddetta "Operazione anagrafe": per ottenere
il passaporto, è necessario ricostruire l'albero genealogico,
alla ricerca del certificato di nascita o di battesimo dell'avo che
sancisce la discendenza italiana. Chi lo chiede, facendo interminabili
file, è sui 25-40 anni, commerciante, geometra, ingegnere,
operaio specializzato, impiegato bancario, persino medico. Una generazione
che non intravede in Argentina un buon futuro. Qualsiasi battaglia,
dicono qui, è fatta per sopravvivere, non per vincere. Il Consolato
rilascia in media 15 mila passaporti all'anno, smentendo indirettamente
lo psicologo francese, secondo il quale l'Argentina era il passato
dell'Europa e il futuro dell'America.
Lo storico della società contemporanea, se si trova a lavorare
nei luoghi dove hanno vissuto i protagonisti del passato oggetto della
sua inchiesta, o ricerca, vive di quella particolare condizione che
Walter Benjamin ha individuato per ciascuno di noi quando ricordiamo
e rappresentiamo i luoghi della nostra infanzia. In quel momento,
la nostra "è l'ispirazione di chi si sposta nel tempo
invece che nello spazio. Il libro di viaggi scritto dal nativo avrà
sempre affinità col libro di memorie". Per lo storico
c'è il rischio che accada sempre così, che la dimensione
del tempo prevalga su quella dello spazio anche quando, e cioè
quasi sempre, non sono la sua vita, il suo passato, la sua memoria
di uomini e luoghi ad essere tema di studio.
Lo conferma Fernando Devoto, storico della nostra emigrazione, raccontando
i suoi incontri con i figli settantenni delle prime ondate migratorie:
"Si intreccia uno scambio ricco di ricordi argentini e notizie
italiane, e si ha l'impressione di un rapporto, come dire?, "storicizzato"
con l'Italia, solo venato da una sottile nostalgia che tuttavia non
pare nostalgia di un Paese lontano, dove peraltro non sono nati, quanto
piuttosto il commosso rimpianto della Boca, il martoriato "barrio"
una volta ligure, di case di legno e di lamiera, da tempo scomparsa,
ma identificata con la giovinezza, età felice e "italiana"
solo per il ricordo di una comunità ormai inserita nel Paese
di adozione. Anche lo spazio e il tempo dell'infanzia e della giovinezza
vissuti nella memoria di questi testimoni sembrano aver registrato
un processo di antica e piena identificazione con l'Argentina, ma
con un riemergere d'amore per la terra degli avi che non doveva essere
del tutto sepolto, se poi riaffiora con tanta forza". Dice lo
scrittore Ernesto Sabato: "E' finita la cultura di un'epoca,
sono finiti un mondo e un sogno che sono stati la storia quotidiana
di una nazione intera. Restano solo la frustrazione e la fuga".
Da qualche tempo, nelle sale "coperte", nei teatri di provincia
e di borgata, danno con grande successo lo "Stefàno",
di Armando Discepolo, che racconta il fallimento di una famiglia di
emigrati napoletani. I personaggi e la storia del dramma si muovono
nell'Argentina del primo Novecento, il gelo e l'emozione che coinvolgono
le sale trasformano Stefàno e la sua piccola famiglia di sconfitti
in una cronaca amara dei nostri giorni. Nel buio complice dei teatri
si celebra una seduta psicanalitica di gruppo: ci sono gli stessi
tormenti e la stessa disperazione. "C'era una volta la Mérica",
dice Sabato. "Ora c'è solo la voglia di tornare in Italia,
in Germania, in Olanda; o di emigrare in Australia, in Canada, negli
Stati Uniti, dove c'è quello che manca qui, un progetto di
società". E di rincalzo, lo scrittore Osvaldo Soriano:
"Qui non c'è mai stata la cultura dello sforzo, e non
si è capito che lo sforzo era un reddito.
L'impoverimento lo si vede dai secondi lavori: uomini colti che fanno
i tassisti di sera e di notte, docenti universitari che lavorano nelle
librerie aperte fin quasi a mezzanotte. Lo spettacolo della miseria
è dato dai mendicanti indigeni che si confondono con i holiviani
e con i peruviani che hanno passato la frontiera andina e sono giunti
fin qui. E i mendicanti non esistevano neanche ai tempi delle grandi
immigrazioni".
In una società che si è fatta sulla cultura dell'emigrazione,
il futuro è stato sempre una variabile dello spirito. E oggi
la paura è arrivata al punto che si studia la repubblica di
Weimar, per spiarne eventuali analogie. Dice Soriano: "Un ragazzo
che ha appena ottenuto un passaporto italiano e sta per andarsene
via mi ha detto che, nel giro di dieci anni, dove ora c'è l'Argentina
resterà solo un gran buco nero, una sorta di voragine senza
fondo che servirà per i residui tossici dei Paesi industrializzati.
E gli ultimi argentini, superbi e irripetibili, saranno intanto in
qualche altro posto della Terra, facendo una patria che non esiste".
Portatori di una civiltà contadina, conservatrice, cattolica,
i latini (e gli italiani in particolare) hanno mantenuto a lungo le
loro caratteristiche originarie, continuando a sentirsi "in trasferta".
Questo spiega perché mentre gli europei protestanti che emigravano
nel West degli Stati Uniti si trasformavano subito in americani, quelli
arrivati in Argentina hanno continuato e continuano a sentirsi europei,
nel momento stesso in cui - per una di quelle contraddizioni tipiche
dei popoli giovani - sviluppano un patriottismo di facciata smisurato,
che si manifesta ad ogni occasione. Buenos Aires pullula di monumenti
equestri; nelle scuole c'è ogni mattina l'alzabandiera; le
vittorie degli sportivi, da Fangio a Maradona, assumono l'aspetto
di trionfi militari; la più piccola questione territoriale
porta le folle al delirio, come accadde per le Malvinas-Falkland.
Faceva notare Ortega y Gasset, già nel 1929, che "gli
argentini non si adattano ad essere semplicemente un popolo: aspirano
a un destino eccezionale".
Intanto, il 60 per cento dei giovani sogna di riemigrare nella terra
degli avi. Questo fenomeno, che gli specialisti definiscono come "omogeneizzazione
mancata", investe anche la cultura: Borges resta uno scrittore
"internazionale", Sabato è "italiano",
Cortàzar "francese", Arldt "tedesco". Solo
le nuove leve sembrano accingersi a un recupero della cultura indigena:
che tuttavia si rivela come un'operazione politicamente impostata
su modelli europei. E il tango, manifestazione canora di questa instabilità,
nato negli angiporti come espressione popolare di un dramma interiore,
vive oggi una seconda giovinezza, non solo per effetto del turismo,
che pure è scarso, ma perché il malessere collettivo
lo ripropone come nostalgia, come memoria storica.
Passaporto, ma anche pensione italiana. Fra le comunità di
Córdoba, di Santa Fe, di Buenos Aires, i discendenti degli
italiani giunti nelle tre successive ondate della metà dell'Ottocento,
d'inizio secolo e del secondo dopoguerra, grazie all'accordo italo-argentino
del 1976, possono ottenere una pensione-manna-del-cielo di 300 dollari
al mese se dimostrano di aver lavorato nel nostro Paese almeno per
un anno o di avervi fatto il servizio militare. Un altro motivo di
aspettativa è il voto italiano per i connazionali all'estero.
I nostri progetti di legge sono molto larghi di vedute. A differenza
dei tedeschi, che hanno una legge con molte "griglie" (dopo
dieci anni di permanenza all'estero si perde il diritto di voto),
l'Italia sembra voler concedere il voto a tutti, oriundi e discendenti.
Se questi propositi non saranno modificati, si calcola che dieci milioni
di argentini in un prossimo futuro potranno partecipare alle nostre
elezioni. Non per niente sono attive Acli e Arci argentine. E bisogna
stare molto attenti: perché durante le loro elezioni gli argentini
sono riusciti a far votare persino i morti.
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