§ VARIAZIONI SUL TEMA

L'IMMAGINE FOTOGRAFICA




Franco Barbieri



Nel numero 11/95, insieme alle riflessioni su "L'immagine fotografica", Apulia ritenne interessante proporre un confronto di idee, tra autori, sull'argomento e anche su variazioni sul tema.
L'invito è stato accolto, sorprendentemente, dai lettori (nessuno dei quali si dichiara autore) che, sensibili e preparati, hanno trovato l'occasione per esprimere le proprie opinioni sull'argomento... ed oltre.
Nella sua articolata missiva il signor Enzo Colosso, dichiarandosi "amante della fotografia e di Arte", esterna il proprio pensiero nella cornice di citazioni di autorevoli scrittori. Mi sembra opportuno chiarire, innanzi tutto, che le opinioni da me espresse rappresentano il tentativo di indagare e, forse, di aiutare a comprendere la dinamica del guardare e del vedere, riferito alla particolare espressione della fotografia, artistica o meno, e del suo linguaggio. Trattandosi di opinioni, si può presumere di non incontrare un unanime consenso.
Ora la lettera, nel suo testo integrale.

Egregio dottor Barbieri,
ho letto le sue pagine sulla fotografia, e vorrei fare alcune riflessioni in merito. Come ci hanno insegnato i teorici del settore (Roland Barthes in testa, col suo "La camera chiara"), lo sguardo non è mai innocente, come invece vorrebbe far credere, e non è mai neutro, primario. Lo sguardo è già parlato: nasce già abitato da fantasmi, virato da premesse emotive, da ragioni sotterranee e persino inconfessabili. Quando uno sguardo ha aperto la propria finestra su una immagine qualsiasi (l'immagine risibile di un nudo in spiaggia, o l'immagine-ferita d'una sequenza di guerra: ormai tutto è omologato, purtroppo!) il "taglio" risulta già, comunque, investito di umori soggettivi, psicologici, addirittura psicoanalitici. Ed è difficile distogliere lo sguardo. Anche dall'immagine più raccapricciante.
In altre parole.- nei giornali (o in collezione) si "mostra" qualcosa che è già avvenuto, che è già , scattato" (anche in senso bellico: di arma che "spara" un'immagine), forse perché è paradossalmente qualcosa che quieta, che riconforta un nostro tessuto ipocrita di continuum esistenziale: qualcosa che derealizza la realtà. La fotografia sottolinea una distanza, che lo spettatore "percepisce come un'espressione della propria inadeguatezza morale": io sono qui, ma non posso far nulla. E, come per contrappasso, ne vengo rassicurato. La fotografia perde la sua valenza politica immediata, diventa una metafora conciliante della nostra precarietà metafisica: si annacqua nella genericità. Chiosa Barthes: "La duplice violenza del momento fotografato ci impedisce questa presa di coscienza. E' proprio per questo che le foto possono essere impunemente pubblicate". Perché la fotografia è una pericolosa macchina di oblio. Che cosa c'era prima di lei? Forse la stampa, il disegno, la pittura? No, ci ricorda terribilmente John Berger (nel suo libro "Del guardare"): insieme ad un'altra studiosa, Susan Sontag, sostiene che prima c'era la memoria. Ora la fotografia spezzetta la nostra vita in fotogrammi irrelati, in morticini destinati alla scatola dell'oblio. Delega alla macchina i nostri rimorsi. E la macchina fotografica ci solleva dal peso della memoria: "Come Dio ci sorveglia e sorveglia in nostra vece. Ma nessun altro Dio è mai stato così cinico, poiché la macchina fotografica registra allo scopo di dimenticare".
Cose analoghe, o molto simili, possono dirsi del paesaggio. Robert Adams, il grande fotografo-letterato del paesaggio, ha una visione più trionfale e "romantica" della fotografia, come tentativo estremo di avvicinare la verità e la bellezza, che cerca - direi wagnerianamente - di non separare (nel libro "La bellezza in fotografia", sottotitolo "Saggi in difesa dei valori tradizionali"). Ma l'immagine brucia: "La forma a cui l'arte aspira è di una luminosità assoluta, ma è anche così intensa da non poter essere guardata direttamente". Si è destinati, dunque, platonicamente, ad accontentarsi del riflesso debole della "luce" fotografica. "Da giovani, pensiamo a un'arte che si confronti con i fatti amari, perché crediamo che il male possa essere sconfitto affrontandolo: invecchiando, e cominciando a dubitare di questa possibilità, vorremmo che l'arte non si limitasse a confermare la pena della nostra disillusione". A quesiti immensi come: "L'Arte è una consolazione sufficiente per la vita?", oppure: "La bellezza può rendere tollerabile la sofferenza?", credo che si debbano preferire le pagine di Walt Whitman nelle quali Adams si abbandona alla sensibilità immensa delle praterie americane. Ma ormai anche qui lo spazio è malato: "La geografia è senza speranza". Il fotografo ha lavorato per tutto un giorno per trovare l'inquadratura giusta per il suo casolare solitario, ma passa rombando un aeroplano, e quello spazio scompare: "Alla fine tutto era quieto come prima, ma l'identità del luogo, legata a quell'assoluto silenzio dello spazio, per me era perduta". Come disse quella donna che tornò al suo luogo nativo distrutto dalla civiltà: "Il paesaggio? No, non è più qui". Venite a vedere certe orrende periferie, e gli spazi violati - violentati - di Terra d'Otranto, per toccare con mano!
Come concludere? Dicendo che forse la "Bellezza" non turba più? Che l'arte ha ormai esaurito la grande carica utopica dell'età moderna? Che dopo tutte le disillusioni sul futuro si sente la tremenda necessità di una "normalizzazione"? Che per salvarci dovremo tornare al neoclassico? Che i nostri occhi "vedono" ormai in modo diverso? Che il progresso porta sempre con sé molte perfidie e altrettanti tradimenti? Poiché amo la fotografia - e l'Arte - mi lascio, e lascio per tutti, uno spiraglio salvifico: in fondo, il bello sa prendersi sempre la rivincita con la sua arma segreta: che è la sorpresa. Per lo meno, è quanto disperatamente spero.
Tutto questo volevo dirle, suggeritomi dal suo discorso sulla fotografia. Probabilmente sono andato troppo in là. E forse no. Ma non è il dubbio che alimenta l'evoluzione del pensiero e della scienza? Ergo sumus!
La prego di gradire, con i sensi della mia stima, e della mia ammirazione per le sue splendide immagini in "Apulia", le più vive cordialità.
Enzo Colosso

Nelle precedenti considerazioni, ho posto particolare cura nel non sfiorare argomenti di interpretazione morale o filosofica. Il lettore, invece, inizia proprio con un assunto morale: "lo sguardo non è mai innocente". E mi spiazza.
Il quesito posto, e che mi pongo, è più modesto: cosa è lo sguardo fotografico?
Per il signor Colosso, lo sguardo è "qualcosa che quieta, che riconforta... e la fotografia una pericolosa macchina dell'oblio". Non mi trova d'accordo.
Il guardare, cioè il percepire, non ha in sé nulla di ipocrita - intendendo con ciò la tendenza mistificatoria insita nella ragione stessa di esistere - mentre può spiegarsi nel processo di formazione dell'immagine mentale che invera la presenza dell'assenza, punto di incontro del reale e dell'immaginario, cioè generazione del doppio. Se la nostra percezione, quindi il nostro ricordo, è una rappresentazione, allora l'immagine fotografica ne è la materializzazione; la fotografia, dunque, non può essere una macchina dell'oblio.
Affrontare il problema della "verità e bellezza", dell'arte che "ha ormai esaurito la grande carica utopica dell'età moderna", del progresso che "porta con sé molte perfidie e altrettanti tradimenti", mi induce a ritirarmi in buon ordine e lasciare aperto il quesito ad altri.
Ma le lettere, insieme alle altre ricevute (due elle quali vengono pubblicate subito dopo), rivelano che la "provocazione" contenuta nell'invito è stata accolta in misura inaspettata dai lettori a dimostrazione, anche, dell'esistente desiderio, diffuso e sommerso, di poter dare voce alle riflessioni su quanto comunemente si tende a celare per quella sorta di preoccupazione di apparire non conformi alla "materialità" dilagante ed incombente.
La prossima lettera, di chi si firma "una lettrice", mi sembra che colga un aspetto importante di quanto ho cercato di esprimere: nel processo del guardare esiste la qualità-emozione, senza la quale non può esservi, in senso confuciano, l'umanità e quindi la rappresentazione e la conoscenza.
Mi dispiace che alla lettrice possa essere apparso un po' "aristocratico" il mio atteggiamento nel rivolgermi ai cultori e agli autori. L'intendimento è opposto. Le riflessioni sono soprattutto indirizzate a chiunque possa essere interessato al linguaggio fotografico che deve essere "nobile" e considerato "nobile"! Da qui la sollecitazione rivolta agli autori i quali, con la propria sensibilità ed esperienza, possono essere di essenziale aiuto.

Egregio signor Barbieri,
Ho letto con interesse il suo articolo su "Apulia" del giugno '95 e, anche se l'invito ad un confronto di idee è rivolto ad altri autori, voglio esprimere, quale osservatore, qualche osservazione.
Non ho condiviso l'impostazione dello scritto nella parte in cui si rivolge essenzialmente ai cultori della materia, ma l'idea di fondo che lo ha animato è veramente degna di apprezzamento e ammirazione.
Parlo dell'identificazione della fotografia come diretta espressione di "emozioni dell'animo filtrate dal ragionamento e dalla cultura". Ed ancora, e soprattutto, dell'assimilazione della Poesia alla fotografia.
Fino a poco tempo fa ero attratta da questa forma di espressione - artistica o meno che fosse - solo come fatto puramente esteriore, come immagine da osservare, da scrutare, da analizzare, specialmente quando ritraeva volti o azioni umane.
Finalmente, e questa volta guardando solo alcune immagini di case e scorci di paesaggio, ho scoperto che quelle fotografie erano l'espressione di un "poeta" e che quindi la 'fotografia" potesse comunicare all'osservatore le emozioni di chi aveva operato.
E poi ho scoperto anche il potere evocativo dell'immagine fotografica e la sua forza distruttiva quando rappresenti emozioni non più ripetibili o, qualche volta, semplici sensazioni di un mondo interiore, che, proprio per il suo apparire cristallizzato ed immobile in quell'immagine, non ha più alcuna possibilità di sopravvivenza.
In quel momento ho percepito la grandissima forza, negativa o positiva, a seconda dei tempi e delle emozioni attuali dell'osservatore dell'immagine fotografica e ne ho compreso in pieno la vitalità come tramite di espressione e di comunicazione.
Se poi il discorso della strumentalità della tecnica consente, anche a quelli che vengono definiti "orecchianti" e quindi al di là delle intenzioni un pò aristocratiche dell'"autore", di avvicinarsi a questa forma d'arte senza altro obiettivo se non quello della manifestazione e della trasmissione dell'emozione, allora la conquista culturale si fa definitiva e tranquillizzante e forse persino entusiasmante. Ringraziandola per l'occasione di queste piccole riflessioni la saluto.

La terza lettera che viene pubblicata, inviata dal signor Franco Ascalone, affronta, tra l'altro, egregiamente, la differenza tra le tradizionali espressioni di immagini e la fotografia, riconoscendo a quest'ultima la proprietà di essere "documento" che può fermare e sorprendere il flusso della vita invitandoci a sostare e riflettere.

Gentile signor Barbieri,
l'immagine fotografica, si dice, ferma in un millesimo di secondo la storia del mondo, che poi prosegue il suo corso inesorabile. E a volte ho pensato che altrettanto potesse dirsi del paesaggio (o del figurativo) in pittura. Non è vero, ad esempio, che dopo la distruzione sopravvenuta durante la seconda guerra mondiale Varsavia fu ricostruita qual era grazie ai quadri del Canaletto, che aveva fedelmente "ritratto" questa città?
Poi, a rifletterci bene, ho concluso che questa ipotesi pone una domanda centrale: può la pittura proporsi come alternativa al reale positivo? E può porsi come sostituzione, distillata e corretta, di quel che ci circonda? La risposta è no. Perché la pittura è il risultato della riflessione sul reale visivo, ma soprattutto della messa in evidenza del sotteso, dell'invisibile che attraverso le immagini l'artista rende visibile, come del resto ha scritto Paul Klee. Ciò significa che la pittura si costituisce così come un epifenomeno sufficientemente complesso e qualificato, tale da poter sostituire il reale visivo.
La fotografia, invece, che pure rientra nel più vasto e complesso mondo dell'arte, non può rappresentare le metafore. Le fotografie mostrano, non dimostrano. Sicuramente qualcuno, più sensibile, ha cercato di specchiarsi, da fotografo, in una condizione umana per la quale sentiva attrazione e persino una forte solidarietà. Ma, detto questo, si può pretendere che qualche fotografia possa cambiare il mondo? Credo di no. Credo, anzi, che le brutte fotografie lo peggiorino.
C'è di più. Il mondo peggiora da sé. Osservo le sue splendide foto sulla Cina. Ebbene: fra qualche anno potranno sembrare a modo loro "antiche", quasi fossero vecchie di un secolo, e non certo per colpa dell'autore. La ragione è la stessa che oggi coinvolge qualsiasi scorcio o dettaglio, paesaggio in campo lungo, centro storico in primo piano, ove le architetture del passato vengono soffocate sistematicamente dall'estendersi delittuoso del cemento armato che raramente le risparmia. Così da Pechino al Cairo, da Agrigento ad Atene, da Gerusalemme a Città del Messico le metamorfosi sono tali da farci meditare su un capitolo memorabile di Victor Hugo dal titolo: "Questo ucciderà quello". Hugo ci intratteneva con argomenti emblematici sulla scoperta di Gutenberg che avrebbe distrutto le Cattedrali, che per lui rappresentavano il più irraggiungibile riassunto, tradotto in pietra, del sapere. Di tutto il sapere. Quel titolo è quanto mai attuale, se il riferimento è trasferito al binomio monumento-cemento: questo ucciderà quello. Di qui, fra l'altro, la valenza storicistica della fotografia. Soprattutto di quelle fotografie che, guardate anche a breve distanza di tempo, esibiscono un ideale velo o patina color seppia, o qualche capello grigio, o le rughe profonde della propria età. "Mostrano", appunto, i risvolti di ciò che fu, le radici che costantemente si rinnovano, la nostra più autentica realtà. Anche una foto d'arte, che suscita in noi intense emozioni, che può farci sentire dentro una miracolosa - e meravigliosa - macchina del tempo, è realtà e non sogno, è dato storico e non metafora dell'esistenza.
Allora? Allora, Hugo insegni. Fotografate graffiti, ruderi, piramidi, mura, castelli, chiese, strade come "interni", paesaggi come sintesi di cultura e panorami come sintesi di civiltà; e officine, ciminiere, case, campagne, palazzi di vetro e ovili, palafitte e grattacieli. Fotografate Cattedrali. E gli uomini che ci stanno dentro e intorno. Fermate il tempo a futura memoria. Tanto più se in ciascuna foto l'autore ci mette un poco della sua anima. Perché ci sarà sempre un "questo" che ucciderà "quello". E non metaforicamente. Scattate anche emozioni, sensazioni, folgorazioni. Saranno anch'esse "documento". E mandatele in giro per il mondo, fatele adottare da milioni di uomini. Più del Canaletto sterilizzati nei musei, che trasfigurano la realtà; più delle immagini televisive che srotolano giorno e notte le accidie caine dell'umanità (e le chiamano comunicazione di massa); più di tutto questo e altro ancora, la fotografia sa e può sorprendere con un clic, fermandolo nella sua essenza infinitesimale, il flusso eracliteo della vita. E' il frutto di quel clic che ci invita a sostare e a riflettere. Ci fa scendere dal mondo, senza impedirci di riprenderlo di lì a poco. E le pare cosa da niente?
La ringrazio per l'ospitalità. E le rinnovo i sensi della mia stima e ammirazione.
Franco Ascalone

Non so se la citazione del signor Ascalone riferita al Canaletto sia casuale, benché motivata dalla notizia dell'utilizzazione delle sue vedute nella ricostruzione di Varsavia, ma di certo è stupefacente quanto sia appropriata all'argomento della fotografia; infatti il Canaletto fu nel '700 un utilizzatore, per le sue opere, della camera oscura, precorritrice, elementare ma essenziale, della macchina fotografica. Cosicché lo strumento, il mezzo, sembra, seppure modificato e più avanzato, rimanere lo stesso e con lo stesso fine: la rappresentazione. La consapevolezza della rappresentazione - immagine mentale - è la conoscenza.
Guardare è, allora, il momento fondamentale della conoscenza non finalizzato a ciò che dopo si fa e si può "vedere", non connesso o subordinato al tempo. Il vedere può essere comparato al "documento", testimone dei luoghi e dei tempi, e di conseguenza soggetto ai luoghi e ai tempi.
Sino all'avvento della fotografia, il "guardare" rimaneva condizionato dalla soggettività umana, per cui "dimostrare" risultava l'azione prevalente. Con la fotografia l'immagine mentale diviene immagine materiale, il sogno è rappresentazione cosicché non solamente si "dimostra" ma si "mostra e dimostra" insieme.
Un ringraziamento a quanti seguono questi appunti e a quanti parteciperanno a questa tribuna. Soprattutto se autori.


Bretagna, antica terra

La Bretagna, lembo della Francia proteso sull'Atlantico, luogo singolare e diverso, antica terra religiosa e magica, abitata da gente riservata e gentile, è segnata nel territorio da opere attestanti la continuità preistorica e storica.
I megaliti, cioè i dolmen (dal bretone doll = tavola, men = pietra) e i menhir (men = pietra, hir = alto) significavano i seggi per le anime dei morti, assolvendo funzioni di specie totemica e di rappresentazione tutelare.
Il politeismo celtico li assorbì e li lasciò al culto delle pietre dei Romani, che scolpirono su di esse le immagini dei loro dèi e, quindi, al Cristianesimo che, sopra o accanto, edificò le croci e i calvari.
Così, tra il 1450 e il 1650, i calvari si diffusero in Bretagna e, da semplici monoliti sovrastati da croci, diventarono sempre più sofisticati gruppi scultorei con la figura del Cristo, dei discepoli e dei testimoni della Passione scolpiti nella particolare pietra grigio-nera, Kersaston, granito, malleabile quando è bagnato, durissimo se a contatto con l'aria.
Artisticamente rappresentano il momento d'incontro tra la violenta e dura espressività del Nord Europa e il riserbo e la grazia dei paesi della Loira.
I calvari si ritrovano nel recinto parrocchiale insieme alla chiesa e alle tombe del cimitero, il più delle volte nel cuore della cittadina, vicino alla vita quotidiana degli abitanti.


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