Nel
numero 11/95, insieme alle riflessioni su "L'immagine fotografica",
Apulia ritenne interessante proporre un confronto di idee, tra autori,
sull'argomento e anche su variazioni sul tema.
L'invito è stato accolto, sorprendentemente, dai lettori (nessuno
dei quali si dichiara autore) che, sensibili e preparati, hanno trovato
l'occasione per esprimere le proprie opinioni sull'argomento... ed oltre.
Nella sua articolata missiva il signor Enzo Colosso, dichiarandosi "amante
della fotografia e di Arte", esterna il proprio pensiero nella
cornice di citazioni di autorevoli scrittori. Mi sembra opportuno chiarire,
innanzi tutto, che le opinioni da me espresse rappresentano il tentativo
di indagare e, forse, di aiutare a comprendere la dinamica del guardare
e del vedere, riferito alla particolare espressione della fotografia,
artistica o meno, e del suo linguaggio. Trattandosi di opinioni, si
può presumere di non incontrare un unanime consenso.
Ora la lettera, nel suo testo integrale.
Egregio dottor
Barbieri,
ho letto le sue pagine sulla fotografia, e vorrei fare alcune riflessioni
in merito. Come ci hanno insegnato i teorici del settore (Roland Barthes
in testa, col suo "La camera chiara"), lo sguardo non è
mai innocente, come invece vorrebbe far credere, e non è mai
neutro, primario. Lo sguardo è già parlato: nasce già
abitato da fantasmi, virato da premesse emotive, da ragioni sotterranee
e persino inconfessabili. Quando uno sguardo ha aperto la propria
finestra su una immagine qualsiasi (l'immagine risibile di un nudo
in spiaggia, o l'immagine-ferita d'una sequenza di guerra: ormai tutto
è omologato, purtroppo!) il "taglio" risulta già,
comunque, investito di umori soggettivi, psicologici, addirittura
psicoanalitici. Ed è difficile distogliere lo sguardo. Anche
dall'immagine più raccapricciante.
In altre parole.- nei giornali (o in collezione) si "mostra"
qualcosa che è già avvenuto, che è già
, scattato" (anche in senso bellico: di arma che "spara"
un'immagine), forse perché è paradossalmente qualcosa
che quieta, che riconforta un nostro tessuto ipocrita di continuum
esistenziale: qualcosa che derealizza la realtà. La fotografia
sottolinea una distanza, che lo spettatore "percepisce come un'espressione
della propria inadeguatezza morale": io sono qui, ma non posso
far nulla. E, come per contrappasso, ne vengo rassicurato. La fotografia
perde la sua valenza politica immediata, diventa una metafora conciliante
della nostra precarietà metafisica: si annacqua nella genericità.
Chiosa Barthes: "La duplice violenza del momento fotografato
ci impedisce questa presa di coscienza. E' proprio per questo che
le foto possono essere impunemente pubblicate". Perché
la fotografia è una pericolosa macchina di oblio. Che cosa
c'era prima di lei? Forse la stampa, il disegno, la pittura? No, ci
ricorda terribilmente John Berger (nel suo libro "Del guardare"):
insieme ad un'altra studiosa, Susan Sontag, sostiene che prima c'era
la memoria. Ora la fotografia spezzetta la nostra vita in fotogrammi
irrelati, in morticini destinati alla scatola dell'oblio. Delega alla
macchina i nostri rimorsi. E la macchina fotografica ci solleva dal
peso della memoria: "Come Dio ci sorveglia e sorveglia in nostra
vece. Ma nessun altro Dio è mai stato così cinico, poiché
la macchina fotografica registra allo scopo di dimenticare".
Cose analoghe, o molto simili, possono dirsi del paesaggio. Robert
Adams, il grande fotografo-letterato del paesaggio, ha una visione
più trionfale e "romantica" della fotografia, come
tentativo estremo di avvicinare la verità e la bellezza, che
cerca - direi wagnerianamente - di non separare (nel libro "La
bellezza in fotografia", sottotitolo "Saggi in difesa dei
valori tradizionali"). Ma l'immagine brucia: "La forma a
cui l'arte aspira è di una luminosità assoluta, ma è
anche così intensa da non poter essere guardata direttamente".
Si è destinati, dunque, platonicamente, ad accontentarsi del
riflesso debole della "luce" fotografica. "Da giovani,
pensiamo a un'arte che si confronti con i fatti amari, perché
crediamo che il male possa essere sconfitto affrontandolo: invecchiando,
e cominciando a dubitare di questa possibilità, vorremmo che
l'arte non si limitasse a confermare la pena della nostra disillusione".
A quesiti immensi come: "L'Arte è una consolazione sufficiente
per la vita?", oppure: "La bellezza può rendere tollerabile
la sofferenza?", credo che si debbano preferire le pagine di
Walt Whitman nelle quali Adams si abbandona alla sensibilità
immensa delle praterie americane. Ma ormai anche qui lo spazio è
malato: "La geografia è senza speranza". Il fotografo
ha lavorato per tutto un giorno per trovare l'inquadratura giusta
per il suo casolare solitario, ma passa rombando un aeroplano, e quello
spazio scompare: "Alla fine tutto era quieto come prima, ma l'identità
del luogo, legata a quell'assoluto silenzio dello spazio, per me era
perduta". Come disse quella donna che tornò al suo luogo
nativo distrutto dalla civiltà: "Il paesaggio? No, non
è più qui". Venite a vedere certe orrende periferie,
e gli spazi violati - violentati - di Terra d'Otranto, per toccare
con mano!
Come concludere? Dicendo che forse la "Bellezza" non turba
più? Che l'arte ha ormai esaurito la grande carica utopica
dell'età moderna? Che dopo tutte le disillusioni sul futuro
si sente la tremenda necessità di una "normalizzazione"?
Che per salvarci dovremo tornare al neoclassico? Che i nostri occhi
"vedono" ormai in modo diverso? Che il progresso porta sempre
con sé molte perfidie e altrettanti tradimenti? Poiché
amo la fotografia - e l'Arte - mi lascio, e lascio per tutti, uno
spiraglio salvifico: in fondo, il bello sa prendersi sempre la rivincita
con la sua arma segreta: che è la sorpresa. Per lo meno, è
quanto disperatamente spero.
Tutto questo volevo dirle, suggeritomi dal suo discorso sulla fotografia.
Probabilmente sono andato troppo in là. E forse no. Ma non
è il dubbio che alimenta l'evoluzione del pensiero e della
scienza? Ergo sumus!
La prego di gradire, con i sensi della mia stima, e della mia ammirazione
per le sue splendide immagini in "Apulia", le più
vive cordialità.
Enzo Colosso
Nelle precedenti
considerazioni, ho posto particolare cura nel non sfiorare argomenti
di interpretazione morale o filosofica. Il lettore, invece, inizia
proprio con un assunto morale: "lo sguardo non è mai innocente".
E mi spiazza.
Il quesito posto, e che mi pongo, è più modesto: cosa
è lo sguardo fotografico?
Per il signor Colosso, lo sguardo è "qualcosa che quieta,
che riconforta... e la fotografia una pericolosa macchina dell'oblio".
Non mi trova d'accordo.
Il guardare, cioè il percepire, non ha in sé nulla di
ipocrita - intendendo con ciò la tendenza mistificatoria insita
nella ragione stessa di esistere - mentre può spiegarsi nel
processo di formazione dell'immagine mentale che invera la presenza
dell'assenza, punto di incontro del reale e dell'immaginario, cioè
generazione del doppio. Se la nostra percezione, quindi il nostro
ricordo, è una rappresentazione, allora l'immagine fotografica
ne è la materializzazione; la fotografia, dunque, non può
essere una macchina dell'oblio.
Affrontare il problema della "verità e bellezza",
dell'arte che "ha ormai esaurito la grande carica utopica dell'età
moderna", del progresso che "porta con sé molte perfidie
e altrettanti tradimenti", mi induce a ritirarmi in buon ordine
e lasciare aperto il quesito ad altri.
Ma le lettere, insieme alle altre ricevute (due elle quali vengono
pubblicate subito dopo), rivelano che la "provocazione"
contenuta nell'invito è stata accolta in misura inaspettata
dai lettori a dimostrazione, anche, dell'esistente desiderio, diffuso
e sommerso, di poter dare voce alle riflessioni su quanto comunemente
si tende a celare per quella sorta di preoccupazione di apparire non
conformi alla "materialità" dilagante ed incombente.
La prossima lettera, di chi si firma "una lettrice", mi
sembra che colga un aspetto importante di quanto ho cercato di esprimere:
nel processo del guardare esiste la qualità-emozione, senza
la quale non può esservi, in senso confuciano, l'umanità
e quindi la rappresentazione e la conoscenza.
Mi dispiace che alla lettrice possa essere apparso un po' "aristocratico"
il mio atteggiamento nel rivolgermi ai cultori e agli autori. L'intendimento
è opposto. Le riflessioni sono soprattutto indirizzate a chiunque
possa essere interessato al linguaggio fotografico che deve essere
"nobile" e considerato "nobile"! Da qui la sollecitazione
rivolta agli autori i quali, con la propria sensibilità ed
esperienza, possono essere di essenziale aiuto.
Egregio signor
Barbieri,
Ho letto con interesse il suo articolo su "Apulia" del giugno
'95 e, anche se l'invito ad un confronto di idee è rivolto
ad altri autori, voglio esprimere, quale osservatore, qualche osservazione.
Non ho condiviso l'impostazione dello scritto nella parte in cui si
rivolge essenzialmente ai cultori della materia, ma l'idea di fondo
che lo ha animato è veramente degna di apprezzamento e ammirazione.
Parlo dell'identificazione della fotografia come diretta espressione
di "emozioni dell'animo filtrate dal ragionamento e dalla cultura".
Ed ancora, e soprattutto, dell'assimilazione della Poesia alla fotografia.
Fino a poco tempo fa ero attratta da questa forma di espressione -
artistica o meno che fosse - solo come fatto puramente esteriore,
come immagine da osservare, da scrutare, da analizzare, specialmente
quando ritraeva volti o azioni umane.
Finalmente, e questa volta guardando solo alcune immagini di case
e scorci di paesaggio, ho scoperto che quelle fotografie erano l'espressione
di un "poeta" e che quindi la 'fotografia" potesse
comunicare all'osservatore le emozioni di chi aveva operato.
E poi ho scoperto anche il potere evocativo dell'immagine fotografica
e la sua forza distruttiva quando rappresenti emozioni non più
ripetibili o, qualche volta, semplici sensazioni di un mondo interiore,
che, proprio per il suo apparire cristallizzato ed immobile in quell'immagine,
non ha più alcuna possibilità di sopravvivenza.
In quel momento ho percepito la grandissima forza, negativa o positiva,
a seconda dei tempi e delle emozioni attuali dell'osservatore dell'immagine
fotografica e ne ho compreso in pieno la vitalità come tramite
di espressione e di comunicazione.
Se poi il discorso della strumentalità della tecnica consente,
anche a quelli che vengono definiti "orecchianti" e quindi
al di là delle intenzioni un pò aristocratiche dell'"autore",
di avvicinarsi a questa forma d'arte senza altro obiettivo se non
quello della manifestazione e della trasmissione dell'emozione, allora
la conquista culturale si fa definitiva e tranquillizzante e forse
persino entusiasmante. Ringraziandola per l'occasione di queste piccole
riflessioni la saluto.
La terza lettera
che viene pubblicata, inviata dal signor Franco Ascalone, affronta,
tra l'altro, egregiamente, la differenza tra le tradizionali espressioni
di immagini e la fotografia, riconoscendo a quest'ultima la proprietà
di essere "documento" che può fermare e sorprendere
il flusso della vita invitandoci a sostare e riflettere.
Gentile signor
Barbieri,
l'immagine fotografica, si dice, ferma in un millesimo di secondo
la storia del mondo, che poi prosegue il suo corso inesorabile. E
a volte ho pensato che altrettanto potesse dirsi del paesaggio (o
del figurativo) in pittura. Non è vero, ad esempio, che dopo
la distruzione sopravvenuta durante la seconda guerra mondiale Varsavia
fu ricostruita qual era grazie ai quadri del Canaletto, che aveva
fedelmente "ritratto" questa città?
Poi, a rifletterci bene, ho concluso che questa ipotesi pone una domanda
centrale: può la pittura proporsi come alternativa al reale
positivo? E può porsi come sostituzione, distillata e corretta,
di quel che ci circonda? La risposta è no. Perché la
pittura è il risultato della riflessione sul reale visivo,
ma soprattutto della messa in evidenza del sotteso, dell'invisibile
che attraverso le immagini l'artista rende visibile, come del resto
ha scritto Paul Klee. Ciò significa che la pittura si costituisce
così come un epifenomeno sufficientemente complesso e qualificato,
tale da poter sostituire il reale visivo.
La fotografia, invece, che pure rientra nel più vasto e complesso
mondo dell'arte, non può rappresentare le metafore. Le fotografie
mostrano, non dimostrano. Sicuramente qualcuno, più sensibile,
ha cercato di specchiarsi, da fotografo, in una condizione umana per
la quale sentiva attrazione e persino una forte solidarietà.
Ma, detto questo, si può pretendere che qualche fotografia
possa cambiare il mondo? Credo di no. Credo, anzi, che le brutte fotografie
lo peggiorino.
C'è di più. Il mondo peggiora da sé. Osservo
le sue splendide foto sulla Cina. Ebbene: fra qualche anno potranno
sembrare a modo loro "antiche", quasi fossero vecchie di
un secolo, e non certo per colpa dell'autore. La ragione è
la stessa che oggi coinvolge qualsiasi scorcio o dettaglio, paesaggio
in campo lungo, centro storico in primo piano, ove le architetture
del passato vengono soffocate sistematicamente dall'estendersi delittuoso
del cemento armato che raramente le risparmia. Così da Pechino
al Cairo, da Agrigento ad Atene, da Gerusalemme a Città del
Messico le metamorfosi sono tali da farci meditare su un capitolo
memorabile di Victor Hugo dal titolo: "Questo ucciderà
quello". Hugo ci intratteneva con argomenti emblematici sulla
scoperta di Gutenberg che avrebbe distrutto le Cattedrali, che per
lui rappresentavano il più irraggiungibile riassunto, tradotto
in pietra, del sapere. Di tutto il sapere. Quel titolo è quanto
mai attuale, se il riferimento è trasferito al binomio monumento-cemento:
questo ucciderà quello. Di qui, fra l'altro, la valenza storicistica
della fotografia. Soprattutto di quelle fotografie che, guardate anche
a breve distanza di tempo, esibiscono un ideale velo o patina color
seppia, o qualche capello grigio, o le rughe profonde della propria
età. "Mostrano", appunto, i risvolti di ciò
che fu, le radici che costantemente si rinnovano, la nostra più
autentica realtà. Anche una foto d'arte, che suscita in noi
intense emozioni, che può farci sentire dentro una miracolosa
- e meravigliosa - macchina del tempo, è realtà e non
sogno, è dato storico e non metafora dell'esistenza.
Allora? Allora, Hugo insegni. Fotografate graffiti, ruderi, piramidi,
mura, castelli, chiese, strade come "interni", paesaggi
come sintesi di cultura e panorami come sintesi di civiltà;
e officine, ciminiere, case, campagne, palazzi di vetro e ovili, palafitte
e grattacieli. Fotografate Cattedrali. E gli uomini che ci stanno
dentro e intorno. Fermate il tempo a futura memoria. Tanto più
se in ciascuna foto l'autore ci mette un poco della sua anima. Perché
ci sarà sempre un "questo" che ucciderà "quello".
E non metaforicamente. Scattate anche emozioni, sensazioni, folgorazioni.
Saranno anch'esse "documento". E mandatele in giro per il
mondo, fatele adottare da milioni di uomini. Più del Canaletto
sterilizzati nei musei, che trasfigurano la realtà; più
delle immagini televisive che srotolano giorno e notte le accidie
caine dell'umanità (e le chiamano comunicazione di massa);
più di tutto questo e altro ancora, la fotografia sa e può
sorprendere con un clic, fermandolo nella sua essenza infinitesimale,
il flusso eracliteo della vita. E' il frutto di quel clic che ci invita
a sostare e a riflettere. Ci fa scendere dal mondo, senza impedirci
di riprenderlo di lì a poco. E le pare cosa da niente?
La ringrazio per l'ospitalità. E le rinnovo i sensi della mia
stima e ammirazione.
Franco Ascalone
Non so se la citazione
del signor Ascalone riferita al Canaletto sia casuale, benché
motivata dalla notizia dell'utilizzazione delle sue vedute nella ricostruzione
di Varsavia, ma di certo è stupefacente quanto sia appropriata
all'argomento della fotografia; infatti il Canaletto fu nel '700 un
utilizzatore, per le sue opere, della camera oscura, precorritrice,
elementare ma essenziale, della macchina fotografica. Cosicché
lo strumento, il mezzo, sembra, seppure modificato e più avanzato,
rimanere lo stesso e con lo stesso fine: la rappresentazione. La consapevolezza
della rappresentazione - immagine mentale - è la conoscenza.
Guardare è, allora, il momento fondamentale della conoscenza
non finalizzato a ciò che dopo si fa e si può "vedere",
non connesso o subordinato al tempo. Il vedere può essere comparato
al "documento", testimone dei luoghi e dei tempi, e di conseguenza
soggetto ai luoghi e ai tempi.
Sino all'avvento della fotografia, il "guardare" rimaneva
condizionato dalla soggettività umana, per cui "dimostrare"
risultava l'azione prevalente. Con la fotografia l'immagine mentale
diviene immagine materiale, il sogno è rappresentazione cosicché
non solamente si "dimostra" ma si "mostra e dimostra"
insieme.
Un ringraziamento a quanti seguono questi appunti e a quanti parteciperanno
a questa tribuna. Soprattutto se autori.
Bretagna, antica terra
La Bretagna, lembo
della Francia proteso sull'Atlantico, luogo singolare e diverso, antica
terra religiosa e magica, abitata da gente riservata e gentile, è
segnata nel territorio da opere attestanti la continuità preistorica
e storica.
I megaliti, cioè i dolmen (dal bretone doll = tavola, men =
pietra) e i menhir (men = pietra, hir = alto) significavano i seggi
per le anime dei morti, assolvendo funzioni di specie totemica e di
rappresentazione tutelare.
Il politeismo celtico li assorbì e li lasciò al culto
delle pietre dei Romani, che scolpirono su di esse le immagini dei
loro dèi e, quindi, al Cristianesimo che, sopra o accanto,
edificò le croci e i calvari.
Così, tra il 1450 e il 1650, i calvari si diffusero in Bretagna
e, da semplici monoliti sovrastati da croci, diventarono sempre più
sofisticati gruppi scultorei con la figura del Cristo, dei discepoli
e dei testimoni della Passione scolpiti nella particolare pietra grigio-nera,
Kersaston, granito, malleabile quando è bagnato, durissimo
se a contatto con l'aria.
Artisticamente rappresentano il momento d'incontro tra la violenta
e dura espressività del Nord Europa e il riserbo e la grazia
dei paesi della Loira.
I calvari si ritrovano nel recinto parrocchiale insieme alla chiesa
e alle tombe del cimitero, il più delle volte nel cuore della
cittadina, vicino alla vita quotidiana degli abitanti.