§ IL CORSIVO

IL TEMPO DELLE ANIME MORTE




Aldo Bello



Dobbiamo partire da lontano nel tempo e nello spazio. Quel venerdì di novembre del '63 ero a Cassino, al mio primo e unico approccio con l'insegnamento di Italiano e Storia in un istituto superiore, quando mi telefonò Rocco Morabito, caporedattore del Giornale d'Italia: "Hanno ucciso Kennedy", mi disse. "Dammi le reazioni della gente". L'unica partecipazione intelligente, in una brutta città che si dilaniava politicamente mentre viveva di rendita in nome del martirio dell'Abbazia e degli stupri marocchini, fu - allora, come alcuni mesi dopo, quando in una piovigginosa sera del '64 il Messaggero in edizione straordinaria titolò su nove colonne "Krusciov defenestrato" - quella di un pretore-scrittore ingiustamente messo in soffitta, Dante Troisi. "Prova a guardare una foto di JFK tra la folla anonima di una strada", mi disse. "Ciò che colpisce è lo sguardo di uomini e donne. C'è un'adorazione quasi religiosa, c'è una passione ardente che nessun altro politico al mondo ha saputo mai suscitare. Il kennedismo non è stato solo questo, è stato anche questo: la capacità naturale di ispirare fiducia e di affermare la propria autorità-autorevolezza che di solito si chiama carisma e che è qualcosa di fondamentalmente irrazionale. Non a caso De Gaulle usava dire che non c'è prestigio senza mistero".
Questo "dono misterioso" aiuta a spiegare come mai, in un Paese che brucia rapidamente la propria storia, JFK non è scomparso dall'orizzonte della memoria collettiva. E' sempre vivo. Fosse vissuto più a lungo, avrebbe conosciuto le sconfitte e dunque l'oblio. Ma la morte prematura è di per sé fonte di mito, perché - come scriveva il poeta Alfred Edward Housman - "è fortunato l'atleta che muore giovane", quando le sue ghirlande d'alloro sono ancora verdi e le promesse rimangono incompiute. La persistenza evocativa di JFK non sta infatti nelle sue imprese di Presidente, perché promise molto più di quanto mantenne: in politica, avviò la riforma dei diritti civili, ma ne trascurò l'attuazione; nei rapporti internazionali, fu sostanzialmente un 'falco": diede disco verde allo sbarco nella Baia dei Porci, rischiò il conflitto nucleare per impedire l'installazione dei missili sovietici a Cuba, spedì i primi 16.000 marines in Vietnam, sfidò l'Urss all'ombra del Muro gridando "Io sono berlinese". Ma nessuno tien conto di tutto questo e di altro ancora. La nostalgia ha altre origini e altre motivazioni. Non conta la grandezza storica di JFK. Conta la potenzialità della sua grandezza. E conta il fatto che quella del suo tempo era l'America che ancora amava (o per lo meno non odiava) la politica e riconosceva a quel Presidente alcuni grandi meriti che, col passare degli anni, hanno acquistato un fascino sempre più intenso. Forse perché si sono rivelati irripetibili. Egli seppe catturare l'immaginazione dei giovani e convogliare il loro idealismo al servizio della nazione. Nessuno, dopo di lui, è riuscito a fare altrettanto, men che mai coloro che hanno tentato di imitarlo. Egli suscitò e mantenne vive grandi speranze. Diede l'impressione che fosse possibile un cambiamento pacifico di dimensioni planetarie, e ciò gli conferì una straordinaria popolarità in ogni angolo della Terra. Ebbe la capacità di mobilitare uomini di eccellenti qualità, che lo servirono lealmente, sentendosi protagonisti di un grande momento della storia americana. Con lui la politica, ossia il mettersi al servizio del proprio Paese per forgiare un'età migliore, fu un'attività onorevole. Egli fu, nel significato più alto, un visionary, termine che negli Stati Uniti sta ad indicare "chi sa immaginare un futuro".
Non è stato più così, né in America né altrove. E oggi che la politica viene irrisa e ripudiata si può capire perché il suo ricordo non si cancelli. Il gran tempo trascorso consente di fare un bilancio? E il kennedismo come fenomeno di riconciliazione del cittadino con la politica permette di fare un ragionevole confronto? No, se qualcuno si illude di conquistare alla propria persuasione la parte avversa. Sì, se si prende questa spaccatura profonda che continua a dividere coscienza, pensiero e perfino moda, americani e occidentali (cioè europei), come uno straordinario simbolo. Niente si è placato, niente è scolorito intorno al suo nome. Eppure, il tempo che ci separa dai suoi "mille giorni" è tanto, e nel frattempo il mondo si è rovesciato su se stesso. Altri Presidenti americani hanno avuto notevole statura. Johnson varò leggi che diedero dignità a neri, immigrati e Terzo Mondo, dichiarando "guerra alla povertà". Nixon chiuse la partita col Vietnam e aprì alla Cina. Reagan sognò ad occhi aperti il capitalismo puro, che causò antagonismi profondi, ma anche terremoti universali. Allora, il problema che continua a proporsi, il segreto che si vuole disvelare, è ancora questo: che cosa non c'era prima di JFK, che cosa non c'è più stato dopo?
Le risposte sono state tante, diverse e tutte - singolarmente prese - parziali. Ma una sembra più convincente: per prima cosa mancava, e non c'è più stato, un establishment. Che definizione dare a questa parola, usata spesso per definire il potere, ma anche per indicare doveri e impegni di coloro che devono dare di più, perché possono dare di più alla cosa pubblica? Establishment (avrebbero detto Adam Smith e Max Weber) è l'insieme di esponenti di élite della politica, degli affari e della cultura che sentono il dovere di offrire un contributo per una ragione pratica (mantenere equilibrio e interessi) e una ragione nobile: ciascuno deve fare la propria parte al servizio del proprio Paese e del proprio tempo. Questo termine, "servizio", riportato al centro dell'attenzione e dell'azione pubblica, ha senso se la classe dirigente che esprime il proprio establishment vede se stessa, i propri valori e dunque anche i propri doveri come stabili, in un orizzonte ben definito, nel quale si intuisce perfettamente ciò che si deve fare in futuro perché si conosce perfettamente ciò che ci si lascia alle spalle. I due dati rilevanti sono continuità e stabilità espresse al livello più alto. Dunque, continuità e stabilità che non possono esprimersi attraverso personaggi improvvisati o riciclati, comunque legati ad avventure politiche o finanziarie e men che mai a viscerali genealogie partitiche, le une e le altre di istantanea ricchezza, di estemporanea influenza, e alla resa dei conti di esito letale. JFK era circondato di establishment. Voleva dire il meglio economico, il meglio intellettuale, il meglio professionale di una forte e intelligente classe dirigente persuasa (questo è il marchio dell'establishment) di lasciare un segno. Ricordiamo ancora gli Schlesinger, i Galbraith, i McNamara, gli Harriman. L'indice dei nomi è un vero e proprio Gotha, ed ècornice di un'idea di rinnovamento vero e decisivo.
Quando e come finì quell'establishment? Finì con l'altro Kennedy, Robert, un po' prima della sua morte. Lo liquidò proprio lui, che pure ne aveva fatto parte, con la complicità dei figli ammutinati dell'establishment stesso. Si spezzò un'autentica classe dirigente. Tramontò un'epoca folgorante.
L'altra risposta, cioè l'altra variabile fondamentale, è data dalle dimensioni del mondo.
La Storia era il palcoscenico di JFK. Il Presidente della "Nuova Frontiera" era all'altezza del suo ruolo e lo sapeva. Ma oggi la Storia se ne è andata. Non è più il fondale del lavoro del Presidente degli Stati Uniti. In questi tempi semibarbari il common people, la "gente stradale" vuol discutere fino ai dettagli di coefficienti delle tasse e di piani assicurativi, vuole garanzie sulla pensione, e ha due soli nemici: i cartelli del crimine organizzato che popolano di piovre gli States, e gli immigrati clandestini che ogni notte perforano il muro costruito lungo il confine messicano segnato da un fiume dal doppio nome: da una parte lo chiamano Rio Grande, dall'altra Rio Bravo. Fattasi piccola, la storia si presenta volentieri in Iraq, in difesa del petrolio, e malvolentieri in Bosnia, dove boccheggia un Islam meticcio e straccione.
Al di qua dell'Atlantico, dove l'Occidente è la somma di quindici Europe. Ripercorriamo una vicenda emblematica.
Nel giugno del '55, per iniziativa di Gaetano Martino, sei Paesi (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) firmarono la Dichiarazione di Messina e avviarono il processo che portò nel '57 al Mercato Comune Europeo. I Trattati di Roma istituirono la Cee e l'Euratom. L'annuncio fu dato dalla Patarina, la campana del Campidoglio. I suoi rintocchi e le firme degli Spaak, degli Schmann, degli Adenauer, ci convinsero che l'unione continentale dovesse essere prima di tutto una frontiera politica e intellettuale, un'idea in grado di mobilitare le coscienze per un avvenire di libertà e di tolleranza, dopo l'ininterrotta guerra civile che aveva insanguinato le terre d'Europa. Rileggendo oggi quanto il nostro ministro degli Esteri sostenne alla Camera, restiamo colpiti dallo spirito profetico di quell'intervento: " Quando la Conferenza di Messina ebbe luogo, non fu apprezzata nel suo giusto valore: fu anzi accolta con alquanto scetticismo e quasi con ironia ( ... ). La via dell'integrazione economica come strumento per una futura unificazione politica sembrava troppo lunga e difficile, se non addirittura utopistica. Essa pareva più idonea a consentire la sopravvivenza di un'aspirazione anziché a tradurla nella realtà della vita ( ... ). Si deve invece alla Conferenza se l'idea dell'unità dell'Europa, dopo aver lungamente vagato nel mondo delle astrazioni, è potuta finalmente scendere nella realtà delle cose".
Significativo fu anche il richiamo alla Convenzione di Filadelfia che nel 1787 associò in forma nuova gli Stati sovrani dell'America del Nord, rompendo con la vecchia tradizione europea dell'unicità, indivisibilità e illimitatezza della sovranità, che erano i pilastri dogmatici sui quali si fondava la teoria-prassi dello Stato nazionale. Nacque proprio a Filadelfia un sistema diverso, mai sperimentato nel passato: unire Stati differenti, conservandone le identità nell'unità dell'indirizzo politico. Questo fu anche il principio ispiratore dell'Unione europea. Martino sostenne perciò che nei Trattati di Roma si Poteva "fondatamente scorgere il nucleo primigenio di una struttura federale destinato ad evolversi verso forme più perfette e compiute". E da questa visione politica prese poi corpo l'iniziativa di Altiero Spinelli sfociata nel progetto di nuovo Trattato, in parte recepito a Maastricht. Era la corsia preferenziale che portava alla fine della guerra civile europea, culminata con le macerie fumanti del secondo conflitto mondiale. "Dopo 25 secoli durante i quali questa parte del nostro continente è stata sempre la fucina vera della politica del mondo", disse Martino, "noi oggi dobbiamo, non senza umiliazione, riconoscere che essa, voglio dire l'Europa occidentale, non è più soggetto, ma oggetto di politica internazionale". E concluse: "Ciò che manca all'Europa è solo la sua unità. Bisogna unirsi se non si vuole perire".
Quell'Europa stava passando dalla ricostruzione al boom e i suoi leaders erano consapevoli che sarebbe stata fatalmente terreno privilegiato dello scontro tra Usa e Urss per la lunga fase della guerra fredda. Per questa ragione si convenne che l'Europa dei Sei non sarebbe mai stata l'Europa Vi uno più altri cinque". Ma qualche cosa, stradafacendo, ed Europa crescendo, è accaduta. Riguarda l'Europa e riguarda l'Italia.
Circa quarant'anni dopo gli accordi capitolini, un ministro tedesco-unificato, Theo Waigel, ha - per usare la sua stessa franca brutalità - "messo i piedi nel piatto", sostenendo che l'Italia, "benché Paese fondatore della Cee", comunque non potrà far parte dell'Unione monetaria europea; mentre la Francia dovrà comunque essere della partita, "perché in caso contrario l'Unione monetaria porterebbe alla spaccatura dell'Unione europea". La contraddizione rende evidente la disparità di considerazione agli occhi di Bonn (o di Berlino, se vogliamo proprio), nella quale rientra un giudizio complessivamente negativo sul nostro Paese, del quale i partners spiano non soltanto i miglioramenti - faticosi ma innegabili - dei conti pubblici, ma anche la tenuta istituzionale e politica. Waigel a parte, quella percezione è una realtà con la quale dobbiamo confrontarci. Sarebbe drammatico, allo stato delle cose, se cominciassimo a coltivare l'idea della contrapposizione tra Europe; o peggio ancora, se ci lasciassimo prendere dalla tentazione di buttare a mare i Trattati, come se il risanamento finanziario sia un regalo all'Europa o alla Germania post-Muro, e non un dovere verso noi stessi e i nostri figli. Per rispondere non a Waigel, ma all'Europa che fortissimamente volemmo, risentimento e rivendicazionismo non servono. Sono necessarie un'inversione di tendenza nella cultura del nostro Paese e un'attenta riflessione su quanto sta realmente accadendo in Europa.
Punto primo. Dal 1985 al 1995 la crescita industriale dell'Italia (25,5%) è stata seconda, nel mondo, soltanto a quella americana (28,5%). Francia, Germania e Regno Unito seguono a distanza, restando nello stesso decennio al di sotto del 20% di crescita del prodotto industriale. Il Giappone, che era al primo posto assoluto fino al 1992, è precipitato all'ultimo (15,3%) per una prolungata recessione. Sul piano della capacità industriale, l'Italia ha sempre surclassato la Germania, e questo è bene che i tedesco-unificati se lo mettano in testa. All'uscita dalla fase recessiva globale dei primi anni Novanta, che è avvenuta quasi contemporaneamente in tutti i principali Paesi europei nel corso del '93, la curva di risalita industriale dell'Italia è stata molto più veloce di quella della Francia, della Germania e del Regno Unito, con un angolo montante analogo, e nel '95 superiore, a quello degli stessi Stati Uniti. Ciò significa che nonostante le inefficienze del sistema pubblico, il disastro dei conti dello Stato e il peso del protezionismo burocratico della solidarietà sociale, le piccole e medie imprese italiane hanno conquistato un'efficienza e una competitività pari a quella della rinnovata industria americana e superiore a quella degli altri europei. Evidentemente il capitale umano e quello finanziario si riproducono e crescono indipendentemente e nonostante il sistema politico. Quel che si verifica in Italia ha il sapore della novità planetaria: lo Stato elude gli italiani, ma gli italiani riescono ad eludere lo Stato. Cioè: gli italiani sono profondamente liberisti, molti senza saperlo; lo Stato è socialista, ma nel senso deteriore (di socialismo reale), e non in quello nobile del termine. Sicché gli italiani vanno avanti comunque, e rimorchiano anche la zattera sgangherata di uno Stato appesantita dalla spazzatura politica e dalle scorie burosaure.
Ma quanto potrà durare questo nuovo miracolo di un'industria sana in uno Stato malato? Poco, se non si cambia in tempo. Si sta formando un mercato globale molto più denso di competitori tecnologici che nel passato. La nostra industria cresce più di quella europea, ma meno di quella dei cosiddetti Paesi emergenti, che tra non molto getteranno sul mercato prodotti a tecnologia intermedia simili a quelli che offriamo noi e la nostra lira sottovalutata. Già entro due o tre anni si potranno riscontrare i primi sintomi della competizione generata da coreani, indiani, cinesi, altri asiatici, molti sudamericani, alcuni africani e, soprattutto, dal nuovo sistema industriale americano, con il suo primato nelle alte tecnologie. Il modello italiano non potrà andare avanti alimentandosi soltanto di flessibilità, di genialità individuale, di isole di efficienza in un mare di contraddizioni, con molte innovazioni ma con scarsa tecnologia di base. Cioè: l'Italia deve reindustrializzare. Deve avere più iimprese piccole, medie e medio-grandi, tutte ricaricate di un maggiore potenziale tecnologico e diffuse sul territorio nazionale, senza esclusioni geografiche. In caso contrario, nei prossimi dieci anni non rinnoveremo il successo di quelli precedenti e rischieremo una decadenza forse irreversibile. Allora sì che il Paese potrà frantumarsi. Altro che Europa!
Contribuiremo a realizzare un sogno mostruoso che si aggira per il Vecchio Continente. E del quale parleremo fra breve.
Punto secondo. Come evitare questa fatalità? Attuando tre riforme strategiche sul piano politico. La prima: da prevalentemente "sociale", lo Stato deve diventare prevalentemente "competitivo". Lo Stato che utilizza tasse e balzelli per finanziare i consumi, ma non la produttività, è morto ovunque e le sue spoglie contaminano. La nuova socialità dello Stato deve esprimersi come indirizzo delle risorse pubbliche verso investimenti strategici che aumentino la competitività complessiva del sistema nazionale. La garanzia che questo Stato deve dare è quella di certificare la remuneratività di un investimento di capitale sul proprio territorio, non quella di assicurare a ciascuno un po' di capitale senza curarsi della produttività dell'erogazione. Dunque: liberalizzazione diffusa, privatizzazioni reali (e non colossali imbrogli all'italiana) e meno tasse per rendere sempre più efficiente il mercato; ma anche più in vestimenti sulla tecnologia, sulle infrastrutture e sulla formazione del capitale umano. L'Italia deve allearsi di nuovo con gli italiani, diventando luogo di organizzazione della speranza di ricchezza, non più luogo di volontarismo solidaristico, antropologicamente e culturalmente devastante, o di grovigli di favori di scambio, di corruzioni, di mafie vernacole o in lingua alimentate dall'inerzia pubblica, o di esclusioni territoriali per le miopi strategie che scambiano il mercato per un suq.
La seconda: dall'Europa al mondo. L'Italia è una grande nazione industriale, ma in un'Europa di non-uguali sarebbe soffocata dalla prevalenza di modelli economici pesanti e burocratizzati che ucciderebbero la sua struttura industriale, leggera e creativa. Un disegno europeo del genere, inoltre, sarebbe troppo piccolo e protezionista di fronte alla scala del mercato globale. L'Italia ha certamente interesse a partecipare a un'Europa come area di libero scambio e di cooperazione industriale, ma non ha alcun vantaggio ad essere parte minore e strozzata di un'unione politica e monetaria europea. Interesse del nostro Paese è di proiettarsi verso il mondo, aprendosi ad esso e diventandone il mercato più libero e più denso di opportunità. La terza: da importatori ad esportatori di cultura. La competizione planetaria è soprattutto un confronto tra modelli culturali. Il primato culturale è un veicolo indiretto di commercializzazione. Ma, più sottilmente, per un popolo è anche il modo di attrarre capitale sul proprio territorio. Chi crea ed esporta cultura importa ricchezza netta che può reinvestire informa strategica. E' tempo che il Paese venga fuori dai corni infami che lo hanno a lungo condizionato: quello del "culturame", e l'altro, speculare, degli "intellettuali organici". Solo queste tre riforme possono sottrarre l'Italia grande nazione industriale alla prigionia di uno Stato piccolo, torvamente vessatore, che dai giorni dell'Unità utilizza come secondini i suoi bracci istituzionali per scindere identità, stravolgere vocazioni, ritardare progressi. Tre riforme politiche e culturali, dunque, per una moderna carta di credito da presentare a tutti gli stolti Waigel del mondo.
Le riflessioni. E, per chi sia spirito non libero, cioè di parte, le provocazioni. Penso all'incongruente imbecillitas vitae delle masse fondamentaliste che sono state mobilitate per la tragicomica kermesse anti-francese che non ha condotto, e non poteva condurre a nulla. A Mururoa la Francia di Chirac non sperimentava un'atomica diversa da quelle stivate negli arsenali russi, ucraini, americani, indiani, israeliani, pakistani, cinesi, inglesi, brasiliani e forse anche sudafricani. Se così fosse stato, Parigi non avrebbe dato alcun preannuncio. Avrebbe attuato gli esperimenti senza enfasi, e il mondo l'avrebbe appurato dagli aghi sismici. Forse solo qualche Cancelleria amica sarebbe stata avvertita in via cautelare e preventiva. Come, del resto, è sempre accaduto.
Perché, allora, il clamore del preavviso? Perché da Mururoa in realtà la Francia "mandava a dire". E mandava a dire proprio alla Germania: - Intendiamoci, tu hai la potenza economica, ma io ho quella militare, che tu non puoi consentirti, dunque l'Europa si fa in due, o in tre, con l'Inghilterra, che ha il cordone ombelicale legato all'America. Niente tentazioni di supremazia sul Vecchio Continente -. E il messaggio, subito decrittato a Bonn-Berlino, ha indotto i tedeschi ad affidare al loro ministro delle Finanze il discorso conseguente: la Francia farà comunque parte dell'Uem, mentre l'Italia resterà comunque esclusa. Perché non anche l'Olanda e il Belgio, che quanto a debito pubblico non stanno meglio di noi e che registrano uno sviluppo industriale di gran lunga inferiore? Perché non anche la Grecia, il Portogallo, la Spagna, che in un campo e nell'altro stanno - come si dice - ai piedi di Cristo?
Il fatto è che proprio l'Italia, malgrado i suoi sbandamenti istituzionali (dove, nel mondo, la politica abdica così di frequente in favore della "tecnica"? dove si sono mai succeduti tanti "governi tecnici"? dove la maggioranza dei governi tecnici è stata presieduta da esponenti di rilievo dell'Istituto centrale di emissione?), e malgrado il degrado del debito pubblico, le storture del fisco africano, le formidabili pressioni di uno Stato sociale nemico dell'intelligenza privata e della laicità degli indirizzi pubblici, (tranquilli, italiani: una volta o l'altra avremo un opulento Ministero senza Portafogli della Solidarietà!), malgrado tutto questo e altro ancora, impedisce che si realizzi quell'Europa "renana" o Europa "carolingia" che è il sogno della Germania odierna.
Questa è la Germania che, con la sua politica monetaria, fa pagare al resto d'Europa costi altissimi. E' la Germania che unilateralmente, cioè senza concordare con i partners una politica comune, ha allargato l'area d'influenza del marco dalle Repubbliche baltiche al Danubio, e che vorrebbe ampliarla almeno fino all'Arno e al Tronto, se non proprio fino al Tevere. E in nome di questo sogno non ha conosciuto ostacoli: ha separato Praga da Bratislava, ricacciando indietro nella storia Boemia e Slovacchia; altrettanto ha fatto con Slovenia e Croazia, spingendo i partners a fare altrettanto, (chi non ricorda le pressioni in questa direzione?), cancellando interi capitoli dei Trattati di pace di fine prima guerra mondiale e sconfiggendo -con la frantumazione della Jugoslavia - la Francia vincitrice che proprio quella Jugoslavia aveva voluto creare, anche come contrappeso alla nascente potenza italiana; grazie alla Bundesbank e ai colossi industriali, ha dato precise coordinate ad economie che erano alle corde: quella polacca, prima; quella ungherese, subito dopo. E altrettanto amerebbe fare con quella italiana, mentre fa fibrillare pericolosamente sui mercati internazionali una lira che, ad ogni buon fine, preferisce tenersi stretta al dollaro. Questa Germania schizofrenica, che vuol conquistare col marco quel che non poté dominare con la Wehrmacht, che momentaneamente scende a patti con la Francia, sapendo bene che i conti col franco francese li farà a tempo debito, non vuole più l'Europa: vuole la germanizzazione dell'Europa. Italia compresa. Perché dopo la rinuncia di Parigi, solo Roma, malgrado tutto, potrebbe presentarsi come capitale-guida di un'Europa "mediterranea" controbilanciante quella boreale. Disinnescare questa potenzialità è il progetto tedesco di medio periodo.
Riusciranno, Cancelleria e Bundesbank, là dove fallirono gli strateghi della Blitzkrieg? Sebbene si sia rotta la testa ogni volta, la Germania ha la pazienza dei passi di Sigfrido nella storia. E potrebbe lasciare poco o nulla di intentato, neanche - magari - la "jugoslavizzazione" del nostro Paese. Questo debbono averlo capito anche coloro i quali fino a qualche tempo fa soltanto prospettavano due o tre repubbliche italiane, tutt'al più federate, e che poi hanno lasciato cadere un pudico silenzio sul tema: dalla Fondazione Agnelli ai Circoli Cattaneo. Aveva scritto nella metà dell'800 un tal Tocqueville: "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili a quelli che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare che si occupa solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. Questo potere è assoluto, minuzioso, metodico, provvidente e persino mite". E' il potere che non ama la Storia, che semmai si chiede quel che lo Stato onnipotente e onniscente può fare per te, ma non ti interroga su quello che tu puoi fare per lo Stato. Un potere che lobotomizza. Torniamo all'inizio. Prima della "Nuova Frontiera" di Kennedy abbiamo vissuto una lunghissima epoca di lupi. Poi la Storia ha abbandonato l'America e l'Occidente, ma anche l'Unione Sovietica e l'Est. Sono sempre grandi le tragedie del mondo: la Somalia, la Cambogia, Haiti, la Bosnia, il Sudan, le stragi indie, le stragi africane, le stragi interetniche, le stragi tribali. Ma ogni causa è diventata una piccola causa frantumata fra leaders locali e temporanei, le ragioni arrivano e spariscono, si incrociano paure ed egoismi che rimpiccioliscono il gioco e che ci fanno dimenticare tutto e in fretta solo perché non possiamo o non sappiamo riascoltare ogni giorno identiche vicende di sangue. Sono grandi tragedie che esplodono nel vuoto. Chi non è colpito volta le spalle.
I Grandi Capi (compresi quelli tedeschi) sono inchiodati in casa a rivedere le strategie di espansione economica e ad uccidere - finalmente! - la poesia dell'Utopia. Così, nello Spoon River che serpeggia in quest'Italia e in quest'Europa il forte, vivido riapparire dell'immagine di JFK assassinato a Dallas e sempre al centro di una nostalgia lacerante per chi lo ha amato, di un'irritazione che non si placa per chi lo ha respinto, ci dà un'illusione di vita che continua. Non ha scritto forse Paul Valéry che la poesia non finisce mai, che tutt'al più si può sospendere? Poi ci guardiamo intorno, scrutiamo le anime morte che ci circondano, calcoliamo le compravendite, percepiamo i loro fiati venefici. E tutto questo ci dà la misura netta della frattura fra due scenari. In America Kennedy non c'è più. Forse non può mai esserci, in Europa, un Kennedy.

 


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