Dobbiamo partire
da lontano nel tempo e nello spazio. Quel venerdì di novembre
del '63 ero a Cassino, al mio primo e unico approccio con l'insegnamento
di Italiano e Storia in un istituto superiore, quando mi telefonò
Rocco Morabito, caporedattore del Giornale d'Italia: "Hanno ucciso
Kennedy", mi disse. "Dammi le reazioni della gente".
L'unica partecipazione intelligente, in una brutta città che
si dilaniava politicamente mentre viveva di rendita in nome del martirio
dell'Abbazia e degli stupri marocchini, fu - allora, come alcuni mesi
dopo, quando in una piovigginosa sera del '64 il Messaggero in edizione
straordinaria titolò su nove colonne "Krusciov defenestrato"
- quella di un pretore-scrittore ingiustamente messo in soffitta,
Dante Troisi. "Prova a guardare una foto di JFK tra la folla
anonima di una strada", mi disse. "Ciò che colpisce
è lo sguardo di uomini e donne. C'è un'adorazione quasi
religiosa, c'è una passione ardente che nessun altro politico
al mondo ha saputo mai suscitare. Il kennedismo non è stato
solo questo, è stato anche questo: la capacità naturale
di ispirare fiducia e di affermare la propria autorità-autorevolezza
che di solito si chiama carisma e che è qualcosa di fondamentalmente
irrazionale. Non a caso De Gaulle usava dire che non c'è prestigio
senza mistero".
Questo "dono misterioso" aiuta a spiegare come mai, in un
Paese che brucia rapidamente la propria storia, JFK non è scomparso
dall'orizzonte della memoria collettiva. E' sempre vivo. Fosse vissuto
più a lungo, avrebbe conosciuto le sconfitte e dunque l'oblio.
Ma la morte prematura è di per sé fonte di mito, perché
- come scriveva il poeta Alfred Edward Housman - "è fortunato
l'atleta che muore giovane", quando le sue ghirlande d'alloro
sono ancora verdi e le promesse rimangono incompiute. La persistenza
evocativa di JFK non sta infatti nelle sue imprese di Presidente,
perché promise molto più di quanto mantenne: in politica,
avviò la riforma dei diritti civili, ma ne trascurò
l'attuazione; nei rapporti internazionali, fu sostanzialmente un 'falco":
diede disco verde allo sbarco nella Baia dei Porci, rischiò
il conflitto nucleare per impedire l'installazione dei missili sovietici
a Cuba, spedì i primi 16.000 marines in Vietnam, sfidò
l'Urss all'ombra del Muro gridando "Io sono berlinese".
Ma nessuno tien conto di tutto questo e di altro ancora. La nostalgia
ha altre origini e altre motivazioni. Non conta la grandezza storica
di JFK. Conta la potenzialità della sua grandezza. E conta
il fatto che quella del suo tempo era l'America che ancora amava (o
per lo meno non odiava) la politica e riconosceva a quel Presidente
alcuni grandi meriti che, col passare degli anni, hanno acquistato
un fascino sempre più intenso. Forse perché si sono
rivelati irripetibili. Egli seppe catturare l'immaginazione dei giovani
e convogliare il loro idealismo al servizio della nazione. Nessuno,
dopo di lui, è riuscito a fare altrettanto, men che mai coloro
che hanno tentato di imitarlo. Egli suscitò e mantenne vive
grandi speranze. Diede l'impressione che fosse possibile un cambiamento
pacifico di dimensioni planetarie, e ciò gli conferì
una straordinaria popolarità in ogni angolo della Terra. Ebbe
la capacità di mobilitare uomini di eccellenti qualità,
che lo servirono lealmente, sentendosi protagonisti di un grande momento
della storia americana. Con lui la politica, ossia il mettersi al
servizio del proprio Paese per forgiare un'età migliore, fu
un'attività onorevole. Egli fu, nel significato più
alto, un visionary, termine che negli Stati Uniti sta ad indicare
"chi sa immaginare un futuro".
Non è stato più così, né in America né
altrove. E oggi che la politica viene irrisa e ripudiata si può
capire perché il suo ricordo non si cancelli. Il gran tempo
trascorso consente di fare un bilancio? E il kennedismo come fenomeno
di riconciliazione del cittadino con la politica permette di fare
un ragionevole confronto? No, se qualcuno si illude di conquistare
alla propria persuasione la parte avversa. Sì, se si prende
questa spaccatura profonda che continua a dividere coscienza, pensiero
e perfino moda, americani e occidentali (cioè europei), come
uno straordinario simbolo. Niente si è placato, niente è
scolorito intorno al suo nome. Eppure, il tempo che ci separa dai
suoi "mille giorni" è tanto, e nel frattempo il mondo
si è rovesciato su se stesso. Altri Presidenti americani hanno
avuto notevole statura. Johnson varò leggi che diedero dignità
a neri, immigrati e Terzo Mondo, dichiarando "guerra alla povertà".
Nixon chiuse la partita col Vietnam e aprì alla Cina. Reagan
sognò ad occhi aperti il capitalismo puro, che causò
antagonismi profondi, ma anche terremoti universali. Allora, il problema
che continua a proporsi, il segreto che si vuole disvelare, è
ancora questo: che cosa non c'era prima di JFK, che cosa non c'è
più stato dopo?
Le risposte sono state tante, diverse e tutte - singolarmente prese
- parziali. Ma una sembra più convincente: per prima cosa mancava,
e non c'è più stato, un establishment. Che definizione
dare a questa parola, usata spesso per definire il potere, ma anche
per indicare doveri e impegni di coloro che devono dare di più,
perché possono dare di più alla cosa pubblica? Establishment
(avrebbero detto Adam Smith e Max Weber) è l'insieme di esponenti
di élite della politica, degli affari e della cultura che sentono
il dovere di offrire un contributo per una ragione pratica (mantenere
equilibrio e interessi) e una ragione nobile: ciascuno deve fare la
propria parte al servizio del proprio Paese e del proprio tempo. Questo
termine, "servizio", riportato al centro dell'attenzione
e dell'azione pubblica, ha senso se la classe dirigente che esprime
il proprio establishment vede se stessa, i propri valori e dunque
anche i propri doveri come stabili, in un orizzonte ben definito,
nel quale si intuisce perfettamente ciò che si deve fare in
futuro perché si conosce perfettamente ciò che ci si
lascia alle spalle. I due dati rilevanti sono continuità e
stabilità espresse al livello più alto. Dunque, continuità
e stabilità che non possono esprimersi attraverso personaggi
improvvisati o riciclati, comunque legati ad avventure politiche o
finanziarie e men che mai a viscerali genealogie partitiche, le une
e le altre di istantanea ricchezza, di estemporanea influenza, e alla
resa dei conti di esito letale. JFK era circondato di establishment.
Voleva dire il meglio economico, il meglio intellettuale, il meglio
professionale di una forte e intelligente classe dirigente persuasa
(questo è il marchio dell'establishment) di lasciare un segno.
Ricordiamo ancora gli Schlesinger, i Galbraith, i McNamara, gli Harriman.
L'indice dei nomi è un vero e proprio Gotha, ed ècornice
di un'idea di rinnovamento vero e decisivo.
Quando e come finì quell'establishment? Finì con l'altro
Kennedy, Robert, un po' prima della sua morte. Lo liquidò proprio
lui, che pure ne aveva fatto parte, con la complicità dei figli
ammutinati dell'establishment stesso. Si spezzò un'autentica
classe dirigente. Tramontò un'epoca folgorante.
L'altra risposta, cioè l'altra variabile fondamentale, è
data dalle dimensioni del mondo.
La Storia era il palcoscenico di JFK. Il Presidente della "Nuova
Frontiera" era all'altezza del suo ruolo e lo sapeva. Ma oggi
la Storia se ne è andata. Non è più il fondale
del lavoro del Presidente degli Stati Uniti. In questi tempi semibarbari
il common people, la "gente stradale" vuol discutere fino
ai dettagli di coefficienti delle tasse e di piani assicurativi, vuole
garanzie sulla pensione, e ha due soli nemici: i cartelli del crimine
organizzato che popolano di piovre gli States, e gli immigrati clandestini
che ogni notte perforano il muro costruito lungo il confine messicano
segnato da un fiume dal doppio nome: da una parte lo chiamano Rio
Grande, dall'altra Rio Bravo. Fattasi piccola, la storia si presenta
volentieri in Iraq, in difesa del petrolio, e malvolentieri in Bosnia,
dove boccheggia un Islam meticcio e straccione.
Al di qua dell'Atlantico, dove l'Occidente è la somma di quindici
Europe. Ripercorriamo una vicenda emblematica.
Nel giugno del '55, per iniziativa di Gaetano Martino, sei Paesi (Francia,
Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) firmarono la Dichiarazione
di Messina e avviarono il processo che portò nel '57 al Mercato
Comune Europeo. I Trattati di Roma istituirono la Cee e l'Euratom.
L'annuncio fu dato dalla Patarina, la campana del Campidoglio. I suoi
rintocchi e le firme degli Spaak, degli Schmann, degli Adenauer, ci
convinsero che l'unione continentale dovesse essere prima di tutto
una frontiera politica e intellettuale, un'idea in grado di mobilitare
le coscienze per un avvenire di libertà e di tolleranza, dopo
l'ininterrotta guerra civile che aveva insanguinato le terre d'Europa.
Rileggendo oggi quanto il nostro ministro degli Esteri sostenne alla
Camera, restiamo colpiti dallo spirito profetico di quell'intervento:
" Quando la Conferenza di Messina ebbe luogo, non fu apprezzata
nel suo giusto valore: fu anzi accolta con alquanto scetticismo e
quasi con ironia ( ... ). La via dell'integrazione economica come
strumento per una futura unificazione politica sembrava troppo lunga
e difficile, se non addirittura utopistica. Essa pareva più
idonea a consentire la sopravvivenza di un'aspirazione anziché
a tradurla nella realtà della vita ( ... ). Si deve invece
alla Conferenza se l'idea dell'unità dell'Europa, dopo aver
lungamente vagato nel mondo delle astrazioni, è potuta finalmente
scendere nella realtà delle cose".
Significativo fu anche il richiamo alla Convenzione di Filadelfia
che nel 1787 associò in forma nuova gli Stati sovrani dell'America
del Nord, rompendo con la vecchia tradizione europea dell'unicità,
indivisibilità e illimitatezza della sovranità, che
erano i pilastri dogmatici sui quali si fondava la teoria-prassi dello
Stato nazionale. Nacque proprio a Filadelfia un sistema diverso, mai
sperimentato nel passato: unire Stati differenti, conservandone le
identità nell'unità dell'indirizzo politico. Questo
fu anche il principio ispiratore dell'Unione europea. Martino sostenne
perciò che nei Trattati di Roma si Poteva "fondatamente
scorgere il nucleo primigenio di una struttura federale destinato
ad evolversi verso forme più perfette e compiute". E da
questa visione politica prese poi corpo l'iniziativa di Altiero Spinelli
sfociata nel progetto di nuovo Trattato, in parte recepito a Maastricht.
Era la corsia preferenziale che portava alla fine della guerra civile
europea, culminata con le macerie fumanti del secondo conflitto mondiale.
"Dopo 25 secoli durante i quali questa parte del nostro continente
è stata sempre la fucina vera della politica del mondo",
disse Martino, "noi oggi dobbiamo, non senza umiliazione, riconoscere
che essa, voglio dire l'Europa occidentale, non è più
soggetto, ma oggetto di politica internazionale". E concluse:
"Ciò che manca all'Europa è solo la sua unità.
Bisogna unirsi se non si vuole perire".
Quell'Europa stava passando dalla ricostruzione al boom e i suoi leaders
erano consapevoli che sarebbe stata fatalmente terreno privilegiato
dello scontro tra Usa e Urss per la lunga fase della guerra fredda.
Per questa ragione si convenne che l'Europa dei Sei non sarebbe mai
stata l'Europa Vi uno più altri cinque". Ma qualche cosa,
stradafacendo, ed Europa crescendo, è accaduta. Riguarda l'Europa
e riguarda l'Italia.
Circa quarant'anni dopo gli accordi capitolini, un ministro tedesco-unificato,
Theo Waigel, ha - per usare la sua stessa franca brutalità
- "messo i piedi nel piatto", sostenendo che l'Italia, "benché
Paese fondatore della Cee", comunque non potrà far parte
dell'Unione monetaria europea; mentre la Francia dovrà comunque
essere della partita, "perché in caso contrario l'Unione
monetaria porterebbe alla spaccatura dell'Unione europea". La
contraddizione rende evidente la disparità di considerazione
agli occhi di Bonn (o di Berlino, se vogliamo proprio), nella quale
rientra un giudizio complessivamente negativo sul nostro Paese, del
quale i partners spiano non soltanto i miglioramenti - faticosi ma
innegabili - dei conti pubblici, ma anche la tenuta istituzionale
e politica. Waigel a parte, quella percezione è una realtà
con la quale dobbiamo confrontarci. Sarebbe drammatico, allo stato
delle cose, se cominciassimo a coltivare l'idea della contrapposizione
tra Europe; o peggio ancora, se ci lasciassimo prendere dalla tentazione
di buttare a mare i Trattati, come se il risanamento finanziario sia
un regalo all'Europa o alla Germania post-Muro, e non un dovere verso
noi stessi e i nostri figli. Per rispondere non a Waigel, ma all'Europa
che fortissimamente volemmo, risentimento e rivendicazionismo non
servono. Sono necessarie un'inversione di tendenza nella cultura del
nostro Paese e un'attenta riflessione su quanto sta realmente accadendo
in Europa.
Punto primo. Dal 1985 al 1995 la crescita industriale dell'Italia
(25,5%) è stata seconda, nel mondo, soltanto a quella americana
(28,5%). Francia, Germania e Regno Unito seguono a distanza, restando
nello stesso decennio al di sotto del 20% di crescita del prodotto
industriale. Il Giappone, che era al primo posto assoluto fino al
1992, è precipitato all'ultimo (15,3%) per una prolungata recessione.
Sul piano della capacità industriale, l'Italia ha sempre surclassato
la Germania, e questo è bene che i tedesco-unificati se lo
mettano in testa. All'uscita dalla fase recessiva globale dei primi
anni Novanta, che è avvenuta quasi contemporaneamente in tutti
i principali Paesi europei nel corso del '93, la curva di risalita
industriale dell'Italia è stata molto più veloce di
quella della Francia, della Germania e del Regno Unito, con un angolo
montante analogo, e nel '95 superiore, a quello degli stessi Stati
Uniti. Ciò significa che nonostante le inefficienze del sistema
pubblico, il disastro dei conti dello Stato e il peso del protezionismo
burocratico della solidarietà sociale, le piccole e medie imprese
italiane hanno conquistato un'efficienza e una competitività
pari a quella della rinnovata industria americana e superiore a quella
degli altri europei. Evidentemente il capitale umano e quello finanziario
si riproducono e crescono indipendentemente e nonostante il sistema
politico. Quel che si verifica in Italia ha il sapore della novità
planetaria: lo Stato elude gli italiani, ma gli italiani riescono
ad eludere lo Stato. Cioè: gli italiani sono profondamente
liberisti, molti senza saperlo; lo Stato è socialista, ma nel
senso deteriore (di socialismo reale), e non in quello nobile del
termine. Sicché gli italiani vanno avanti comunque, e rimorchiano
anche la zattera sgangherata di uno Stato appesantita dalla spazzatura
politica e dalle scorie burosaure.
Ma quanto potrà durare questo nuovo miracolo di un'industria
sana in uno Stato malato? Poco, se non si cambia in tempo. Si sta
formando un mercato globale molto più denso di competitori
tecnologici che nel passato. La nostra industria cresce più
di quella europea, ma meno di quella dei cosiddetti Paesi emergenti,
che tra non molto getteranno sul mercato prodotti a tecnologia intermedia
simili a quelli che offriamo noi e la nostra lira sottovalutata. Già
entro due o tre anni si potranno riscontrare i primi sintomi della
competizione generata da coreani, indiani, cinesi, altri asiatici,
molti sudamericani, alcuni africani e, soprattutto, dal nuovo sistema
industriale americano, con il suo primato nelle alte tecnologie. Il
modello italiano non potrà andare avanti alimentandosi soltanto
di flessibilità, di genialità individuale, di isole
di efficienza in un mare di contraddizioni, con molte innovazioni
ma con scarsa tecnologia di base. Cioè: l'Italia deve reindustrializzare.
Deve avere più iimprese piccole, medie e medio-grandi, tutte
ricaricate di un maggiore potenziale tecnologico e diffuse sul territorio
nazionale, senza esclusioni geografiche. In caso contrario, nei prossimi
dieci anni non rinnoveremo il successo di quelli precedenti e rischieremo
una decadenza forse irreversibile. Allora sì che il Paese potrà
frantumarsi. Altro che Europa!
Contribuiremo a realizzare un sogno mostruoso che si aggira per il
Vecchio Continente. E del quale parleremo fra breve.
Punto secondo. Come evitare questa fatalità? Attuando tre riforme
strategiche sul piano politico. La prima: da prevalentemente "sociale",
lo Stato deve diventare prevalentemente "competitivo". Lo
Stato che utilizza tasse e balzelli per finanziare i consumi, ma non
la produttività, è morto ovunque e le sue spoglie contaminano.
La nuova socialità dello Stato deve esprimersi come indirizzo
delle risorse pubbliche verso investimenti strategici che aumentino
la competitività complessiva del sistema nazionale. La garanzia
che questo Stato deve dare è quella di certificare la remuneratività
di un investimento di capitale sul proprio territorio, non quella
di assicurare a ciascuno un po' di capitale senza curarsi della produttività
dell'erogazione. Dunque: liberalizzazione diffusa, privatizzazioni
reali (e non colossali imbrogli all'italiana) e meno tasse per rendere
sempre più efficiente il mercato; ma anche più in vestimenti
sulla tecnologia, sulle infrastrutture e sulla formazione del capitale
umano. L'Italia deve allearsi di nuovo con gli italiani, diventando
luogo di organizzazione della speranza di ricchezza, non più
luogo di volontarismo solidaristico, antropologicamente e culturalmente
devastante, o di grovigli di favori di scambio, di corruzioni, di
mafie vernacole o in lingua alimentate dall'inerzia pubblica, o di
esclusioni territoriali per le miopi strategie che scambiano il mercato
per un suq.
La seconda: dall'Europa al mondo. L'Italia è una grande nazione
industriale, ma in un'Europa di non-uguali sarebbe soffocata dalla
prevalenza di modelli economici pesanti e burocratizzati che ucciderebbero
la sua struttura industriale, leggera e creativa. Un disegno europeo
del genere, inoltre, sarebbe troppo piccolo e protezionista di fronte
alla scala del mercato globale. L'Italia ha certamente interesse a
partecipare a un'Europa come area di libero scambio e di cooperazione
industriale, ma non ha alcun vantaggio ad essere parte minore e strozzata
di un'unione politica e monetaria europea. Interesse del nostro Paese
è di proiettarsi verso il mondo, aprendosi ad esso e diventandone
il mercato più libero e più denso di opportunità.
La terza: da importatori ad esportatori di cultura. La competizione
planetaria è soprattutto un confronto tra modelli culturali.
Il primato culturale è un veicolo indiretto di commercializzazione.
Ma, più sottilmente, per un popolo è anche il modo di
attrarre capitale sul proprio territorio. Chi crea ed esporta cultura
importa ricchezza netta che può reinvestire informa strategica.
E' tempo che il Paese venga fuori dai corni infami che lo hanno a
lungo condizionato: quello del "culturame", e l'altro, speculare,
degli "intellettuali organici". Solo queste tre riforme
possono sottrarre l'Italia grande nazione industriale alla prigionia
di uno Stato piccolo, torvamente vessatore, che dai giorni dell'Unità
utilizza come secondini i suoi bracci istituzionali per scindere identità,
stravolgere vocazioni, ritardare progressi. Tre riforme politiche
e culturali, dunque, per una moderna carta di credito da presentare
a tutti gli stolti Waigel del mondo.
Le riflessioni. E, per chi sia spirito non libero, cioè di
parte, le provocazioni. Penso all'incongruente imbecillitas vitae
delle masse fondamentaliste che sono state mobilitate per la tragicomica
kermesse anti-francese che non ha condotto, e non poteva condurre
a nulla. A Mururoa la Francia di Chirac non sperimentava un'atomica
diversa da quelle stivate negli arsenali russi, ucraini, americani,
indiani, israeliani, pakistani, cinesi, inglesi, brasiliani e forse
anche sudafricani. Se così fosse stato, Parigi non avrebbe
dato alcun preannuncio. Avrebbe attuato gli esperimenti senza enfasi,
e il mondo l'avrebbe appurato dagli aghi sismici. Forse solo qualche
Cancelleria amica sarebbe stata avvertita in via cautelare e preventiva.
Come, del resto, è sempre accaduto.
Perché, allora, il clamore del preavviso? Perché da
Mururoa in realtà la Francia "mandava a dire". E
mandava a dire proprio alla Germania: - Intendiamoci, tu hai la potenza
economica, ma io ho quella militare, che tu non puoi consentirti,
dunque l'Europa si fa in due, o in tre, con l'Inghilterra, che ha
il cordone ombelicale legato all'America. Niente tentazioni di supremazia
sul Vecchio Continente -. E il messaggio, subito decrittato a Bonn-Berlino,
ha indotto i tedeschi ad affidare al loro ministro delle Finanze il
discorso conseguente: la Francia farà comunque parte dell'Uem,
mentre l'Italia resterà comunque esclusa. Perché non
anche l'Olanda e il Belgio, che quanto a debito pubblico non stanno
meglio di noi e che registrano uno sviluppo industriale di gran lunga
inferiore? Perché non anche la Grecia, il Portogallo, la Spagna,
che in un campo e nell'altro stanno - come si dice - ai piedi di Cristo?
Il fatto è che proprio l'Italia, malgrado i suoi sbandamenti
istituzionali (dove, nel mondo, la politica abdica così di
frequente in favore della "tecnica"? dove si sono mai succeduti
tanti "governi tecnici"? dove la maggioranza dei governi
tecnici è stata presieduta da esponenti di rilievo dell'Istituto
centrale di emissione?), e malgrado il degrado del debito pubblico,
le storture del fisco africano, le formidabili pressioni di uno Stato
sociale nemico dell'intelligenza privata e della laicità degli
indirizzi pubblici, (tranquilli, italiani: una volta o l'altra avremo
un opulento Ministero senza Portafogli della Solidarietà!),
malgrado tutto questo e altro ancora, impedisce che si realizzi quell'Europa
"renana" o Europa "carolingia" che è il
sogno della Germania odierna.
Questa è la Germania che, con la sua politica monetaria, fa
pagare al resto d'Europa costi altissimi. E' la Germania che unilateralmente,
cioè senza concordare con i partners una politica comune, ha
allargato l'area d'influenza del marco dalle Repubbliche baltiche
al Danubio, e che vorrebbe ampliarla almeno fino all'Arno e al Tronto,
se non proprio fino al Tevere. E in nome di questo sogno non ha conosciuto
ostacoli: ha separato Praga da Bratislava, ricacciando indietro nella
storia Boemia e Slovacchia; altrettanto ha fatto con Slovenia e Croazia,
spingendo i partners a fare altrettanto, (chi non ricorda le pressioni
in questa direzione?), cancellando interi capitoli dei Trattati di
pace di fine prima guerra mondiale e sconfiggendo -con la frantumazione
della Jugoslavia - la Francia vincitrice che proprio quella Jugoslavia
aveva voluto creare, anche come contrappeso alla nascente potenza
italiana; grazie alla Bundesbank e ai colossi industriali, ha dato
precise coordinate ad economie che erano alle corde: quella polacca,
prima; quella ungherese, subito dopo. E altrettanto amerebbe fare
con quella italiana, mentre fa fibrillare pericolosamente sui mercati
internazionali una lira che, ad ogni buon fine, preferisce tenersi
stretta al dollaro. Questa Germania schizofrenica, che vuol conquistare
col marco quel che non poté dominare con la Wehrmacht, che
momentaneamente scende a patti con la Francia, sapendo bene che i
conti col franco francese li farà a tempo debito, non vuole
più l'Europa: vuole la germanizzazione dell'Europa. Italia
compresa. Perché dopo la rinuncia di Parigi, solo Roma, malgrado
tutto, potrebbe presentarsi come capitale-guida di un'Europa "mediterranea"
controbilanciante quella boreale. Disinnescare questa potenzialità
è il progetto tedesco di medio periodo.
Riusciranno, Cancelleria e Bundesbank, là dove fallirono gli
strateghi della Blitzkrieg? Sebbene si sia rotta la testa ogni volta,
la Germania ha la pazienza dei passi di Sigfrido nella storia. E potrebbe
lasciare poco o nulla di intentato, neanche - magari - la "jugoslavizzazione"
del nostro Paese. Questo debbono averlo capito anche coloro i quali
fino a qualche tempo fa soltanto prospettavano due o tre repubbliche
italiane, tutt'al più federate, e che poi hanno lasciato cadere
un pudico silenzio sul tema: dalla Fondazione Agnelli ai Circoli Cattaneo.
Aveva scritto nella metà dell'800 un tal Tocqueville: "Se
cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata
di esseri simili a quelli che volteggiano su se stessi per procurarsi
piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Al di sopra
di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare che si
occupa solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle
loro sorti. Questo potere è assoluto, minuzioso, metodico,
provvidente e persino mite". E' il potere che non ama la Storia,
che semmai si chiede quel che lo Stato onnipotente e onniscente può
fare per te, ma non ti interroga su quello che tu puoi fare per lo
Stato. Un potere che lobotomizza. Torniamo all'inizio. Prima della
"Nuova Frontiera" di Kennedy abbiamo vissuto una lunghissima
epoca di lupi. Poi la Storia ha abbandonato l'America e l'Occidente,
ma anche l'Unione Sovietica e l'Est. Sono sempre grandi le tragedie
del mondo: la Somalia, la Cambogia, Haiti, la Bosnia, il Sudan, le
stragi indie, le stragi africane, le stragi interetniche, le stragi
tribali. Ma ogni causa è diventata una piccola causa frantumata
fra leaders locali e temporanei, le ragioni arrivano e spariscono,
si incrociano paure ed egoismi che rimpiccioliscono il gioco e che
ci fanno dimenticare tutto e in fretta solo perché non possiamo
o non sappiamo riascoltare ogni giorno identiche vicende di sangue.
Sono grandi tragedie che esplodono nel vuoto. Chi non è colpito
volta le spalle.
I Grandi Capi (compresi quelli tedeschi) sono inchiodati in casa a
rivedere le strategie di espansione economica e ad uccidere - finalmente!
- la poesia dell'Utopia. Così, nello Spoon River che serpeggia
in quest'Italia e in quest'Europa il forte, vivido riapparire dell'immagine
di JFK assassinato a Dallas e sempre al centro di una nostalgia lacerante
per chi lo ha amato, di un'irritazione che non si placa per chi lo
ha respinto, ci dà un'illusione di vita che continua. Non ha
scritto forse Paul Valéry che la poesia non finisce mai, che
tutt'al più si può sospendere? Poi ci guardiamo intorno,
scrutiamo le anime morte che ci circondano, calcoliamo le compravendite,
percepiamo i loro fiati venefici. E tutto questo ci dà la misura
netta della frattura fra due scenari. In America Kennedy non c'è
più. Forse non può mai esserci, in Europa, un Kennedy.