§ IMMIGRATI

MAREA SULL'EUROPA




M. B.



Forzando un po' le cifre, lo scenario emerso dalla Conferenza internazionale sulle migrazioni, svoltasi qualche tempo fa a Roma, è più o meno questo: una quota considerevole dei circa cinque miliardi di abitanti dei Paesi meno sviluppati - nove decimi della popolazione mondiale - desidererebbe volentieri andare a risiedere nei Paesi più avanzati, dove abita il decimo restante: Europa occidentale e America settentrionale, più Australia e magari Nuova Zelanda. Al Giappone, di fatto, non sembrano pensare in molti. Non tutti coloro i quali coltivano questo desiderio posseggono i mezzi, l'energia, l'opportunità per tradurlo in atto; ma, pur con questo limite, il numero dei migranti potenziali configura flussi migratori verso l'Occidente, e in particolare verso l'Europa, di dimensioni eccezionali e dalle conseguenze imprevedibili.
La questione non è fatta solo di numeri. Tra il 1880 e il 1910 gli Stati Uniti accolsero circa 17 milioni di emigranti europei, ma si trattava di un semi-continente ancora scarsamente popolato, dove l'immigrazione poté distribuirsi su un territorio immenso, e anzi contribuì in misura decisiva allo sviluppo del Paese. In un periodo analogo, tra il 1960 e gli anni Ottanta, la stessa Europa occidentale ha accolto circa 13 milioni di immigrati; ma quello fu un periodo di intensa industrializzazione, caratterizzato da una tecnologia che richiedeva ancora un'alta intensità di manodopera. Nulla del genere è prevedibile per i prossimi anni. Sebbene l'Europa sia in netto calo demografico, al presente la tecnologia tende ad eliminare, dal più al meno, tanti posti di lavoro quanti ne crea.
Fino al 1989 ci si poteva illudere che la pressione migratoria sarebbe provenuta soprattutto dal Sud, cioè dall'Africa, dal Sud-Est asiatico e dall'America Latina, e già non era problema da poco. Ma in questi ultimi anni si è scoperto che il disastro dei sistemi politici ed economici dell'Est appare destinato ad alimentare in misura ancora maggiore le immigrazioni da quella parte del mondo. Gli episodi degli albanesi piombati a decine di migliaia sulle coste pugliesi era stato soltanto un'anticipazione. E' un sistema intrecciato e stratificato, che vede i russi premere sulla Polonia, i polacchi sulla Germania, sui Paesi scandinavi e sull'America del Nord, gli jugoslavi e i rumeni sull'Italia e sulla Spagna, i rumeni e i bulgari sull'Ungheria e sull'Austria, i bulgari e gli ungheresi sulla Francia e sull'Inghilterra, ciascun Paese essendo di caso in caso territorio di arrivo o transito temporaneo verso altri lidi, soprattutto Usa, Canada, Australia.
Se l'Europa vuole elaborare una politica delle migrazioni che non la trasformi né in una fortezza dalle porte sbarrate né in una terra in cui chiunque si può accampare, si trova quindi di fronte a severe scelte, oltre che a contingenze da essa non dipendenti. La soluzione che sembra vista oggi con maggior favore nel dibattito sulle migrazioni sembra essere quella di promuovere un più cospicuo flusso possibile di investimenti verso quei Paesi, in modo da creare sul luogo i posti di lavoro che in caso contrario i loro abitanti verranno a cercare da noi. A parte altri interrogativi - la lentezza degli effetti attesi da tali investimenti, in sistemi economici dove tutto è da ricostruire; il fatto che le risorse da destinare all'Est sono in concorrenza con quelle da destinare al Sud - quest'idea appare viziata da una visione economicistica dei fattori che spingono gli individui ad emigrare. Se in Russia la liberalizzazione, dopo aver destato tante speranze, dovesse declinare a favore di un nuovo autoritarismo; se nell'ex Jugoslavia non si placano i conflitti interetnici; se le popolazioni della Bulgaria e della Romania ne avessero improvvisamente di regimi "post" che assomigliano un po' troppo ai regimi "ante"; ebbene: in tali casi nessun aiuto economico riuscirebbe a impedire a quelle popolazioni di spingersi in massa verso Ovest. Perciò una politica euro-occidentale delle migrazioni deve far fronte a un dilemma. Gli immigrati, comunque vada, arriveranno. Ma l'Europa, anche se alcune regioni di essa sono tuttora meno sovrappopolate di altre, non ha più posto per accogliere in modo definitivo milioni di immigrati in pochi lustri, offrendo loro un livello di vita uguale a quello dei suoi attuali cittadini. Lo impedisce, tra l'altro, un semplice fatto ecologico. L'Europa è già asfaltata, cementizzata, edificata per un venti per cento della sua superficie. Un aumento significativo della sua popolazione, forte consumatrice di tecnologia, potrebbe degradare in modo irreversibile il suo ambiente.
Quanto l'Europa può realisticamente offrire è quindi un insieme di soluzioni flessibili e integrate, differenziate per grandi aree regionali. Tra di esse l'immigrazione permanente sarebbe solo una, da dosare in funzione della struttura demografica e dello stato del sistema economico del Paese ospitante. Due alternative all'immigrazione permanente sono l'immigrazione temporanea, dell'ordine di settimane o mesi, e quella a termine, fra i tre e i cinque anni. La prima avrebbe la funzione - vista dalla parte dell'Europa - di soddisfare il bisogno di manodopera che non solo l'agricoltura, ma anche l'industria e i servizi devono affrontare durante i picchi di attività che si verificano nel corso di un anno, mentre consentirebbe ai lavoratori ospiti di guadagnare in pochi mesi più di quanto guadagnano in alcuni anni nei loro Paesi.
L'immigrazione a termine più lungo dovrebbe invece soddisfare le esigenze di manodopera qualificata in diversi settori produttivi, e permetterebbe agli immigrati di accumulare sia risparmi sufficienti sia esperienze lavorative adeguate per iniziare nuove attività in proprio nel loro Paese d'origine. Nell'insieme, queste diverse Soluzioni dovrebbero quanto meno temperare la "nevrosi migratoria" che sembra aver colpito in modo particolare, negli ultimi anni, i popoli dell'Est.
Certamente, questo complesso di soluzioni richiede strutture istituzionali, strumenti di coordinamento nazionali e internazionali operanti nell'Ovest e tra Est ed Ovest, una capacità di innovazione politica e una coscienza sociale delle sconvolgenti trasformazioni che i nuovi flussi migratori porteranno con sé, che gli europei al momento non solo non posseggono, ma intorno ai quali hanno idee sostanzialmente confuse. E questo, ancor più dell'ondata migratoria che continua da Est e da Sud, può essere il pericolo maggiore.


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