In
questo secondo percorso della mia "Il c'era una volta... della
Confindustria", sono sempre i tentativi di medaglioni a rincorrersi
nella memoria. D'altronde, tutti i fatti sono solo persone. Lo stesso
è per il pensiero, i ricordi, l'ambiente. Disturbiamo solo noi
stessi per rilevarlo.
Perciò per chi ha conosciuto Costa o, meglio ancora, con lui
ha lavorato c'è un perenne posto nella sua memoria, senza aver
neppure bisogno della storia, che invece a sua volta è prevalentemente
ingannevole, come lo è ad esempio anche la statistica. Ma questo
è un altro discorso, che pure sarebbe di moda, tant'è
che origina anche saggi inimmaginabili, pure se talvolta con credenziali
giornalistiche.
Costa, anche non più presidente, è stato il pensatore
e la coscienza critica della Confindustria, sin dal primo cambio della
guardia, con l'avvento di Alighiero De Micheli, già presidente
dell'Assolombarda, industriale tessile. Il parto che da Milano lo ha
condotto a Roma, dove pure aveva interessi nelle costruzioni edilizie,
più che complicato ha subito rinvii e ritardi, richiesti dai
tempi, dalle sempre esistenti mediazioni, dalle successive transazioni
che avevano a che fare come in ogni organizzazione di categoria con
interessi territoriali e settoriali.
Dopo Genova, che allora faceva parte del triangolo industriale, toccava
a Milano, ed in un secondo tempo anche a Torino. Solo agli inizi degli
anni '90 c'è entrata pure Roma.
Dunque, con De Micheli l'Assolombarda ha ripreso il suo posto nella
presidenza confindustriale, e ciò dopo analoghe designazioni
che rientravano a conclusione di pranzi di lavoro al Grand Hotel. Da
Piazza Venezia le auto partivano verso Piazza San Bernardo con i big
promotori del nuovo esponente e rientravano con la conferma del precedente.
A quei tempi la stabilità durava molto di più degli attuali
non rinnovabili quattro anni.
Allora erano gli esponenti a procedere alle designazioni; oggi lo sono
i saggi, abilitati a fare i sondaggi: ricercatori e notai allo stesso
tempo.
De Micheli ha coniugato la sua autorevolezza con marchio Assolombarda
con la sua concretezza, con la quale ha cercato di dare velocità
alla sua azione. Fra l'altro è stato promotore della Confintesa,
che ha raccolto la voce e rappresentato la presenza imprenditoriale
in politica dei datori di lavoro di tutti i settori, e perciò
dell'impresa, nei suoi valori, nei suoi intenti e naturalmente pure
nei suoi interessi.
C'era stato lo sganciamento delle partecipazioni statali dalla Confindustria,
c'era la politica dei due forni (perché due soltanto, se in realtà
erano di più?) della Democrazia Cristiana, c'erano i sindacati
nuovamente anelanti all'unità ma ciascuno alla ricerca di una
propria forza per tentare di imporsi agli altri, c'era la necessità
di un clima politico che desse ferma e continua conferma delle sue scelte
di libertà, di omologazione occidentale e perciò atlantica,
c'era urgenza di un personale politico dal quale doveva sorgere la figura
ed il livello dello statista. L'Italia unitaria con figure siffatte
si è fermata al prefascismo, e poi al solo De Gasperi è
subentrata l'era degli aspiranti e qualcuno dice che ciò sia
la nostra fortuna, ma invece confonde lo statista con l'uomo del destino;
che nessuno vuole neppure contrabbandato come decisionista o forte.
Molti ricordano tuttavia, ancora oggi, non solo Cavour, non solo ovviamente
Garibaldi, ma anche Giolitti. Con questi medaglioni dell'Italia tutta
intera, anche la Confindustria ha avuto, nel suo piccolo o nel suo grande,
i propri medaglioncini di riferimento, nati anch'essi dal tempo, dai
tempi.
Uno di questi è stato De Micheli, con la sua Confintesa, che
naturalmente si proponeva molto, con l'iniziativa di raccordo attuata
da esecutori prevalentemente liberali, con la sua sede in via dei Condotti,
con polivalenti manifestazioni culturali e così via. Questa Confintesa
tuttavia non ebbe vita né lunga, né felice. E la ragione
è che non seppe darsi un metodo, si affidò ad una certa
saltuarietà giornalistica, ricorse ad un certo momento ad una
denominazione neutra quale quella di "Centro Informazioni Sociali"
(CIS), ma organismi con questa caratterizzazione o sigla già
allora, e poi dopo, ce ne sono stati e ce ne sono più di uno.
La Confindustria ha sempre avuto e ha sempre bisogno di questa presenza
ed io, nel mio piccolo, pure con le presunzioni o pretese, l'ho sempre
pensato. Dovendo riconoscere che pure quando ne sono stato fra i principali
operatori la Confindustria è riuscita a fare solo dei tentativi,
che concernono in definitiva la sua presenza e la sua comunicativa nella
società nostra. Nel passato c'è stata tuttavia una differenza
fra posizione confindustriale e status politico con annessa classe dirigente.
La differenza è che la prima non si contentava e ricercava ed
applicava una sperimentazione nella speranza dei meglio, ed il secondo
si contentava, non ricercava, gli bastava lo spazio di un mattino (e
cioè quello della durata di un governo: allora almeno uno all'anno),
credeva di risolvere i problemi aggiungendo migliaia di decreti e di
norme, senza eliminarne alcuna, al centinaio di migliaia già
esistenti, portando il debito pubblico al livello cui è giunto,
solo perché il consociativismo aveva il diritto di pretendere
e di ottenere, avendo anche il diritto di nascondere la manina.
Anche oggi, la realtà è più o meno così:
perché da una parte facciamo e subiamo la manovrina con poco
più di cinquemila miliardi, abbiamo registrato la legge finanziaria
1995, ci accingiamo ad affrontare la legge finanziaria '96 con i saldi
in passivo da prevedere e quindi da assimilare, e dall'altra vediamo
la valanga solo mensile di BoT da assorbire.
L'Italia, prima di essere quella della Costituzione, delle Istituzioni,
delle riforme probabili e così via, è solo questa. Ed
allora? Dietro questo allora c'è anche la Confindustria.
Del resto, c'è sempre stata e doveva esserci. C'è stata,
per riferirci agli anni per me più a portata di mano. Con l'accordo
di Palazzo Vidoni, con l'attuazione dell'ordinamento corporativo, con
le divise fasciste e con i moschetti impugnati dai suoi dirigenti a
guardia dell'Esposizione del Ventennale a via Nazionale, con la registrazione
subito quasi notarile di quanto era avvenuto con il 25 luglio (per il
quale poco si mosse organizzativamente, ma con il convinto e pieno del
fondo dell'ascensore del Palazzo delle Assicurazioni di Piazza Venezia,
sede della Confindustria, di distintivi fascisti, o in nuovo, per quanto
mi riguarda, nella testata di un settimanale artigiano che allora redigevo
e che passò da un ormai deceduto Artigianato Fascista a L'Artigiano:
ma avevamo trecentomila abbonati, allora!).
La Confindustria, dunque, è stata anche questa. Ma Confindustria
era anche quella nella quale le barzellette sul regime venivano inventate
e diffuse giorno per giorno, tant'è che vi era un capo del personale,
napoletano, che con gli interlocutori, dipendenti, alternava colloqui
ed incontri con l'ultima... (non erano solo divagazioni, ma pure nette
contestazioni); era anche sede clandestina durante la Resistenza di
riunioni del Comitato Nazionale di Resistenza, anche perché uno
dei suoi esponenti era Emilio Lussu, e chi gli dava accoglienza era
Codina, un sardo come lui: un Codina vice segretario generale, che a
me confidente di questo fatto domandava se io ero partigiano. lo invece
anche allora non facevo politica, essendomi limitato in quei tempi a
rifiutare il mio trasferimento nel Nord. Nella mia vita, non mi è
mai occorso, per fortuna, di dover dire di "avere famiglia",
perché questa per me ha significato solo tanti doveri da assolvere,
con o senza marchio individuale.
Non so quanti con me possano ricostruire, da viventi, questo tipo di
Confindustria, ma a me è capitato e capita di essere uno fra
questi. Mi capita quello che succede a tanti artigiani: riprodurre da
postumi l'effigie o manufatti di chi si è conosciuto da vivo.
Artigianato, ho detto, e naturalmente non arte e neppure storia, che
sono decisamente tutt'altra cosa.
Comunque, per cercare di concludere, fra questi diversi tempi della
Confindustria e cioè quella di cui posso parlare perché
sono ancora vivente (e si tratta degli inizi degli anni Trenta per finire
agli ultimi quattro anni che ci dividono dal Duemila, e sono per me
proprio tanti!), devo rilevare che nella Confindustria di allora c'era
già una sorta di monumento, maggiore o minore non conta. Nel
ricordo i monumenti sono sempre grandi: anche la casa in cui sono nato
si chiamava palazzo. Questo monumento era costituito dalla solennità
della sede. Oggi invece ci sono i pantaloncini da gioco del calcio del
presidente e di esponenti della Confindustria, che pure si confrontano
con una squadra di giornalisti economici. Sono tutti calciatori.
Ai miei tempi quando si trattava di confronto pubblico le cose erano
diverse. Oggi c'è difatti di mezzo la preoccupazione della modernità.
Ai miei tempi ed immodestamente per me ce la facevamo diversamente.
Purtroppo la mia constatazione è solo quella di uno che ha la
mia età. Se qualche bambino la pensasse in parte soltanto come
me sarei più ottimista sul futuro. Mi sia data la speranza di
crederlo.
Fra i soliti
ignoti
Ma in questi miei tentativi di "medaglioncini" confindustriali
datati, mi si dia la possibilità di ricordare anche Mario Dosi.
Ha avuto importanza nella mia vita. L'ha avuta certamente nella realtà
della Confindustria, e non mi rammarico se oggi non c'è alcuno
a ricordarlo o a saperne qualcosa: ogni grande entità si compiace,
del resto, di avere il proprio milite ignoto.
Dosi l'ho conosciuto durante il ventennio, quando era direttore della
Federazione dell'industria serica. Assistevo alle sue conversazioni
con il mio amico Codina, di cui ho detto altre volte. Poi è
divenuto, a Resistenza conclusa, attivista dell'Assolombarda nella
promozione del nuovo corso sia occidentale che di libertà economica,
politica, sociale. E questo è il credo dei "confindustriali"
di quegli anni, fossero imprenditori o burocrati non importa, perché
l'identità era la stessa (ma adesso è lo stesso?). Mario
Dosi è il primo ad avere dato credito al "garofano rosso":
l'ha inventato per dar vita ad una testata di un periodico che si
rivolgeva a tutti (ma dietro certo l'Assolombarda) per far capire
che ci si poteva intendere almeno su alcune cose. Naturalmente e come
al solito, c'è stato chi ha capito, chi non ha capito e chi
non ha voluto capire.
In seguito Mario Dosi è divenuto deputato, in forza naturalmente
di questi presupposti di militanza politica.
Era perciò parlamentare di provenienza imprenditoriale come
Cesare Merzagora. E ricordo di avergli detto di questa affinità
o similitudine. E lui se ne compiacque sorridente, silenzioso come
certi democristiani di allora. Merzagora, per chi oggi non lo sappia,
era un ex: di grandi imprese, di trascorsi nel Medio Oriente, di esperienze
politiche, di aspirazioni presidenziali e così via. Dosi si
compiacque di questo accostamento, sia pure nominativo.
Poi fu lui a prendere l'iniziativa per quanto mi riguarda. Fu lui
a chiedere a De Micheli di acconsentire a che fossi nominato direttore
de Il Sole, ma già nel 1953 con Bersellini, erede del fondatore
de Il Sole, aveva chiesto che ne fossi nominato corrispondente da
Roma. De Micheli dette il suo assenso, ma lo stesso non se ne fece
niente, perché si ritenne che l'operazione specifica dovesse
rientrare in un'operazione globale.
In Italia, invece, si sa cosa significhi operazione globale, e cioè
operazione di cui si è capaci di dover perdere la vista. E
così ovviamente è avvenuto per la mia nomina a direttore
de Il Sole, verificatasi esattamente tre anni dopo.
Nel frattempo ho coabitato con Dosi: perché presidente del
Consiglio di Amministrazione de Il Sole nell'ufficio romano di corrispondenza
del giornale, prima a ridosso della sala Pichetti, poi in via della
Mercede sopra l'ex Sala Umberto. Sono due strade emblematiche per
la Roma di una volta. Allora queste strade erano Roma: adesso sono
solo due strade con un transito impossibile e con un parcheggio inesistente;
i ciottoli sono però gli stessi.
Ho saputo sempre che egli ha amato sua madre - il che è facile,
anzi naturale - ma l'ha venerata, giorno per giorno dividendone la
vita. Si ricorda, a Bologna, che lui oltre cinquantenne l'accompagnasse
in chiesa. lo non l'ho fatto, ma me ne accorgo e me ne pento, amaramente,
solo adesso. Mia madre è morta poco meno di 50 anni fa.
Si è dichiarato nettamente favorevole alla nazionalizzazione
dell'energia elettrica, ed io invece ne ero nettamente contrario,
anzitutto per convinzione, secondariamente per coerenza. Dosi invece
ha voluto insistere solamente sulla sua strada. Oggi, invece, a me
occorre di avere ragione per ieri. Non me ne compiaccio, ma se ne
deve rammaricare chi si è sbagliato.
Come presidente dell'INA, cui è approdato perché non
sapevano o volevano dargli altro, si è meravigliato che io
meno che sessantenne non ottenessi o chiedessi altro per la mia vita
di lavoro, cui per altro non mi sembrava fosse disposto o potesse
fare altro. Ricordiamoci che i potenti o presunti tali non trafficano
in certezze, ma solo e spesso vanamente in speranze.
Ma di Dosi voglio ricordare altri due tratti.
Il primo ha a che fare con il discorso parlamentare sulla nazionalizzazione
dell'energia elettrica. Me ne chiese consiglio, nel suo studio allora
in via Paisiello. Me ne spiegò le ragioni di opportunità,
anzi di necessità politica: allora era democristiano. Gli consigliai
di attenuare per lo meno i toni; non ne tenne conto. Arrivò
anzi ad un drammatico scontro con il segretario generale della Confindustria
di allora. Fu frantumato ad opera di questo segretario generale addirittura
il vetro di una scrivania, più che per la sostanza della nazionalizzazione
per il fatto che l'accusatore fosse o non un funzionario rispetto
ad un imprenditore, quale Dosi si riteneva essere e facente parte
della promotion per la nazionalizzazione. La mia fortuna di direttore
de Il Sole avente a che fare con un Dosi presidente del Consiglio
d'Amministrazione fu che questo presidente entrò automaticamente
in eclissi, e pure era tanto consuetamente esigente anche con me da
lui prescelto. Poi mi è occorso di poter designare a tale presidenza
un nominativo, assolutamente innocuo, anzi naturalmente predispostovi:
si tratta di Quinto Quintieri, da Badoglio nominato ministro delle
Finanze ed inopinatamente ritrovato come liberale sempre da Badoglio
quando non c'erano i cerca persone.
Di questo mio Dosi devo aggiungere ancora qualche altra cosa. E' sopravvissuto
alla madre e so che sperava di fare a meno di questa sopravvivenza.
Ero direttore de Il Sole quando me ne fu data notizia e mi fu suggerito
di essere asettico nel darla su di un giornale del quale egli era
ancora presidente del Consiglio d'Amministrazione, però fossilizzato.
Feci ovviamente a meno di questi suggerimenti e chi me li manifestò
deve ricordarli.
Ha avuto un incidente di macchina ed è sopravvissuto: ma ha
avuto la forza di continuare lo stesso.
Infine l'ho incontrato anni dopo, mentre passeggiava senza giacca,
d'estate, con camicia e cravatta, ma con bretelle, lungo un viale
estremamente fiorito del giardino comunale di Lugano: ero con mia
moglie, lui consuetamente solo.
L'uno e l'altro manifestammo sorpresa e desiderio di dirci tante cose.
Tuttavia ne dicemmo poche ed inutilmente d'occasione. Le solite promesse
tanto ingombranti da non poter essere mantenute, per mancanza di tempo
o di stringenti occasioni. Forse perché ricordi e valori maturano
con il tempo, che ad un certo momento non c'è più. Il
fatto è che la vita terrena ci unisce e ci divide, anche purtroppo
ci contrappone (ma questo non è stato il caso). Quella dell'aldilà
fortunatamente ci dà la speranza e l'attesa di incontrarci.
Nel mio terreno calendario futuro di incontri c'è per me anche
Dosi.
I colletti
bianchi di Piazza Venezia
Ho comunque una illusione. Per tanti anni ho sentito di identificare
il volto della Confindustria prima ancora che negli imprenditori nella
sua burocrazia, che ne è stata l'ossatura e certamente ne ha
rappresentato la maggiore e forse unica continuità. Orbene,
fin qui ho parlato di G.B. Codina; vi aggiungo, perché prima
dimentico, Dettori, che prima di Balella ha fatto capire cosa dovesse
essere il funzionariato industriale (per un certo periodo la nostra
cassa previdenziale ha avuto il suo nome). E pongo, in questo molto
sommario elenco, oltre che Mario Dosi, di cui fin qui ho detto, anche
altri burocrati, funzionari, con gli occhi più innanzi per
taluni, con l'ambiziosa affermazione che ci siamo stati anche noi.
Peggio per loro, se alla Confindustria di oggi non lo sanno.
Ho parlato del mio excursus o, meglio, dell'inizio del mio cammino
verso la direzione de Il Sole, durante la presidenza di De Micheli.
La cosa non ebbe seguito allora perché il vertice confindustriale
aveva ritenuto che il cambio di direzione avvenisse contestualmente
per tutti i giornali di sua proprietà. Ed il varo fu effettuato
durante la presidenza di Furio Cicogna, già presidente dell'Assolombarda
e della Chatillon di alto livello nell'orbita della Montedison, che
a quei tempi faceva valere molto il proprio pensiero, che pur con
una buona calibratura dell'ufficio studi e relazioni esterne era però
soltanto peso esercitato dai due ricordati ingegneri Valerio e De
Biase.
Cicogna portò alla Confindustria la valanga della sua maggiore
età rispetto al predecessore De Micheli, il maggiore spessore
della sua dimensione e capacità imprenditoriale, la carica
di una fede, pure religiosa, in gran parte sopravvenuta, che animava
il suo nuovo ruolo alla Confindustria, un impegno per nuove iniziative
e pure velleitariamente per un nuovo tipo di presenza nell'industria
e nella società italiana. In questo senso, qualche cosa Cicogna
ha cercato di prendere da Costa in termini di esemplarità culturale
e ideologica, non riuscendovi tuttavia allo stesso livello e con la
stessa continuità penetrante di Costa. Qualche altra cosa aveva
già aggiunto con la promozione della Pro Civitate di Assisi
e qualche altra cosa infine tentò di creare nell'ambito della
Confindustria con l'avvio del cosiddetto "Noto Programma":
con nome pubblicizzato, perché veniva creata una organizzazione
ad hoc con compiti di partecipazione, formazione, indirizzi politici;
ma con denominazione estremamente indeterminata che faceva riferimento
ad un noto, non esistente, ma da creare. Non so se sia stato lo stesso
Cicogna ad inventare questa denominazione, tanto generica almeno quanto
quella degli 007.
Fatto è che ad un certo momento della preparazione di questo
nuovo organismo, che in un certo senso rappresentava la continuazione
della Confintesa fatta da sola dalla Confindustria e la resurrezione
di un CIS più dotato di mezzi e di organizzazione, fui chiamato
ad essere segretario esecutivo con tanto di Comitato centrale presieduto
da Cicogna e composto da grossi industriali, a ciascuno dei quali
corrispondeva la titolarità di un settore: Organizzazione,
e ne era a capo il presidente dell'Assolombarda e del vertice della
Pirelli, Dubini; Relazioni politiche con Alighiero De Micheli, Economia
con Radice Fossati, Religione con Borasio dell'Eridania, De Biase
per lo studio del Comunismo, Telesio per i Cinegiornali e per la TV.
Cicogna nell'instaurare il Comitato fece un più che azzardato
riferimento, che naturalmente mi sorprese e non so in quale misura
sorprese gli altri presenti (dico sorpreso, per non impegnare più
sbalorditive parole). Questo il riferimento: siamo di più dei
dodici Apostoli di Cristo. La sua fede religiosa, ripeto sopravvenuta,
si esprimeva anche così, come ad Assisi si manifestava con
la polemica con Don Rossi circa l'incisività reale della Pro
Civitate, o con il servire messa o con il richiedere pareri, compreso
quello mio, con visite sul posto di esperti o presunti tali.
Fra i visitatori nel giorno in cui per questa incombenza dovetti accompagnare
Cicogna ad Assisi vi erano, ognuno per conto suo, Scalfaro (che incontrandosi
con il suo conterraneo novarese Cicogna scambiò con questi
in ascensore una piacevole battuta, che purtroppo non ricordo e che
non mi pare avesse il sapore della prosa attuale del Presidente, prosa
tutto sommato di nera liturgia politica) e l'attore Paolo Stoppa.
Su questo programma, la cui validità operativa dettata da un
momento politico di estrema incertezza per i riflessi che produceva
nella vita economica (era il tempo del prezzo da pagare ai socialisti,
del pubblico che sopravanzava il privato, della svolta che si riteneva
di dover fare in vista di un complesso di "convergenze parallele",
ecc.), la Confindustria voleva far capire che doveva dire pure la
sua. Così all'organizzazione centrale ne corrispose una locale,
a carattere circoscrizionale con tanto di delegato industriale appunto
per circoscrizione e di coadiutore, spesso anch'egli industriale.
Le iniziative furono varie e talune anche significative. Appoggiato
e voluto da De Biase della Montedison, ex socialista, fu creato il
CESES, con compiti di studi economico-sociali dedicati al marxismo
e al comunismo. Direttore fu nominato Renato Mieli (un ex comunista,
tanto prima ben voluto da Togliatti), che però era più
preoccupato di approfondire e di studiare che non di avvicinarsi a
chi doveva per lo meno discutere le idee e le informazioni prevalentemente
accademiche che gli venivano fornite a mezzo di una rivista all'uopo
fondata. Abbiamo per molto tempo discusso con Mieli su questa metodologia,
ma la discussione rimase sterile.
Comunque, le iniziative fiorirono in vari campi, forse furono anche
esemplari e particolarmente valide in alcune materie (nei cinegiornali,
ad esempio, nell'affiancamento e nell'interpretazione del mondo cattolico,
nell'accurata specializzazione e diffusione di sintetici periodici
dedicati all'attualità o alle cronache parlamentari, conferenze
e dibattiti di alto livello, e così via).
Dato che queste attività collaterali della Confindustria nel
passato sono state sempre cicliche, anche per queste alla fase dello
slancio ha fatto seguito quella dei remi in barca, di una barca che
continuava ad esistere navigando di meno. Entusiasmi e soldi hanno
i loro tempi, con le inevitabili conseguenze sui bilanci sia di risultati
che di cifre. C'è però in tutta questa materia una continuità
che non potrà mai essere interrotta, che giustamente dà
luogo ad interpretazioni e applicazioni mutevoli con i tempi e con
le realtà, che richiede però il continuo confronto di
tutte le esperienze, e non so se esse vengano tutte interamente valutate.
Il problema vero della Confindustria è quello della identificazione
precisa della sua storia, che è poi l'anima dell'azione. Questa
matura con i tempi, ma di essi ci sono gli addendi da inserire nei
totali.
Le relazioni assembleari, gli appunti e i ricordi dei Presidenti,
le testimonianze dei protagonisti ai vari livelli valgono quando si
trovano. Le storie riassuntive quando ci sono state e quando si rintracciano
sono tutt'al più saggi accademici, spesso pure tendenziali.
C'è qualche Fondazione che ha tentato e tenta queste strade,
ma manca la struttura vera destinata a definire e tramandare la storia
di questa Confindustria: vissuta da centinaia di migliaia di esseri,
che nel tempo sono divenuti altrettanti militi ignoti con un altare
ancora da costruire. Il c'era una volta per la Confindustria significa
anche questo.
Dal Costa-bis
al gioco del calcetto
In questi tentativi di medaglioni ci sono da inserire altri quattro
nomi: c'è il Costa-bis, il vecchio Presidente rievocato e rivoluto,
l'unico nella storia della Confindustria; c'è l'Avvocato per
antonomasia, chiamato unicamente così ad emblema di un Ordine
che nonostante l'evidente contraddizione non è quello degli
avvocati, perché si tratta di Gianni Agnelli, c'è Guido
Carli, che è tornato da presidente alla Confindustria dopo
tanti anni, quando ne era stato un addetto dell'Ufficio Studi.
Ebbene, con il Costa-bis mi è occorso di collaborare nuovamente
dopo almeno tre lustri di pausa. Forse le difficoltà del secondo
periodo sono da attribuire alla diversa configurazione del contesto
generale del Paese: il primo egli aveva contribuito a creare, venendo
a Roma dal Nord insieme ai tanti altri che lì avevano pensato,
preparato, realizzato, motivato anche culturalmente.
Il secondo contesto se lo trovava diverso, per incertezza del corso
politico, per il disordinato addensarsi di valori e problemi che stentavano
a trovare sbocchi, perché il clima nazionale subiva sempre
più la legge o la vocazione dello spezzettamento, perché
arrivavano i primi conti dei conflitti generazionali, nell'aumento
dell'età media delle aziende sopraggiungevano le nuove tecnologie,
i nuovi rapporti fra produttività e lavoro, l'imminenza dell'entrata
in campo dell'erede del titolare dell'azienda.
La Confindustria ha cercato di fronteggiare questi fenomeni con gli
aggiornamenti del suo modo di essere Confindustria, con la creazione
del Comitato della piccola industria, con quella dei giovani industriali,
essendo unico il problema di questi e di quella, e cioè il
crescere, come diceva Benedetto Croce per il problema dei giovani.
Ma questa crescita come c'è stata, che cosa ha richiesto, che
cosa ha conseguito?
Sul finire degli anni Sessanta ha generato il Rapporto Pirelli, nato
dai giovani, ma disegnato dai grandi. Voleva provocare quello che
oggi si chiama un ribaltone e lo ha fatto e realizzato con tante enunciazioni
fraseologiche, sempre vaghe fino a quando uno con tanto di autoritarismo
incorporato e subìto riesce a fornire un testo, più
che di idee, di azioni. Lo spunto del cambiamento - singolare e straordinario
a doversi riconoscere - è che nel rapporto Pirelli si chiedeva
fra l'altro che la figura del segretario generale fosse sostituita
da quella del direttore generale. Con questo spostamento di qualifica
si è sostanzialmente attribuita una diversa natura al vertice
e alla composizione della burocrazia confindustriale, e ciò
per superare un certo senso di sostanziale inferiorità che
l'imprenditoria registrava rispetto all'assistenza burocratica di
cui aveva strettamente bisogno.
Ne derivarono le dimissioni dell'allora segretario generale e la successione
come direttore generale del precedente vice segretario generale. Gli
industriali, quelli del Rapporto, avevano vinto solo cambiando nome,
ma utilizzando un nome reale già esistente con la parola di
vice. E' stata, dunque, in gran parte una questione terminologica.
Fatto questo del resto non nuovo nella realtà sindacale e organizzativa,
perché la stessa cosa fece il fascismo allorché abolì
nelle organizzazioni dei datori di lavoro il titolo di segretario
generale per sostituirlo con quello di direttore generale.
Allora si eliminò Olivetti, dopo si è eliminato Morelli.
Per fortuna, però, gli sopravvenne Franco Mattei, che ha subìto
più tardi e reagito ad un affronto.
Sia Morelli che Mattei mi sono stati amici ed io ho la ventura di
aver collaborato con loro. Li ho grandemente stimati, e Mattei dello
stesso Morelli ha scritto che lo aveva avuto come maestro.
Nei loro livelli in qualche fase almeno della loro coesistenza si
sono anche sopportati, ma hanno sempre camminato insieme. lo posso
dirlo, aggiungendo per Mattei che almeno un paio di volte gli ho detto
che in quelle sue funzioni era sprecato per la Confindustria, perché
poteva certo essere il Presidente dell'IRI o il Governatore della
Banca d'Italia. Morelli si dispiacque di questa mia constatazione,
perché riteneva che il massimo dei massimi fosse la Confindustria.
Mattei replicò solo con un sorriso che forse rivolgeva solo
a se stesso.
Ed eccomi a due altri Presidenti, e cioè Gianni Agnelli e Guido
Carli.
Il primo non l'ho conosciuto di persona, pur essendo segretario generale
del Circolo di Studi Diplomatici, da me aiutato nella fondazione e
condotto durante la presidenza Agnelli, con Mattei direttore generale.
Agnelli, nel 1964, in qualità di apprendista per la presidenza
FIAT, perché allora il numero uno era Valletta (anche alla
FIAT, come una volta nei Savoia, si regna uno alla volta), partecipò
ad una assemblea della Confindustria presieduta da Cicogna nella quale
io da segretario esecutivo del "Noto Programma" dovevo riferire
sull'attività fino ad allora svolta, ovviamente anche con il
concorso finanziario FIAT. Agnelli anche allora amava il presenzialismo,
e cioè il più elementare fai da te e cioè il
farsi vedere.
E stava ad ascoltare con quel tipo di attenzione che dimostrava che
non gliene importava niente. Quante audiences, oggi, con o senza telecomando,
stanno a confermare la stessa cosa.
C'è poi una seconda volta in cui Agnelli si è occupato
di me ed è quando venendo a visitare il Circolo di Studi Diplomatici,
accompagnatovi dall'ambasciatore Capomazza, me assente, ebbe a manifestarsi
contrario alla presenza di un confindustriale quale ero io nel Circolo
come segretario generale. Del suo consiglio, o della sua meraviglia,
non fu fatto niente, forse perché gli Agnelli si trovano non
di rado dove non ci dovrebbero essere.
D'altra parte Agnelli non fu esempio di ortodossia di rapporti, quando
il suo direttore generale alla Confindustria, e cioè Mattei,
dovette apprendere da altri che Agnelli aveva preparato e predisposto
Guido Carli come nuovo Presidente. Mattei si dimise subito e fu recuperato
da un istituto bancario di Pesenti e poi chiamato ai vertici della
Gemina.
Carli arrivò alla Confindustria, nominando direttore generale
Paolo Savona, proveniente dalla Banca d'Italia. Di Carli conoscevo
il padre, che da ex socialista era stato accolto con il consenso di
Mussolini alla Confcommercio, quale consulente della rivista cui collaboravo
anch'io: anni 33-34. Racheli, ex socialista anch'egli, ma fascista
poi, aveva aperto a Carli padre le porte del palazzo di piazza Giovacchino
Belli. Lo affiancava un giovane validissimo, anch'egli mio amico,
Dino Gardini, che poi divenne vice segretario generale del Partito
fascista per la parte economica. Nel postfascismo questi divenne presidente
dell'azienda banane somala.
Carli sapeva poco della nuova Confindustria e si mostrò incuriosito
- in un incontro che ebbe con l'ambasciatore Ortona e con me - per
le cose più che altro secondarie inerenti alle scelte di sede
della Confindustria.
Poche cose per non dirmi che la Confindustria non intendeva più
affiancare il Circolo di Studi Diplomatici: fatto che invece mi venne
comunicato dal povero Paolo Savona, povero perché ne avrebbe
fatto a meno e non sapeva come dirmelo. Mi disse tuttavia che "tutti
parlavano bene di me" ed io mi limitai a replicare che certamente
erano stati gli uscieri e le dattilografe: la parte più nobile
e ripagante di ogni struttura.
Tante le marce
con i tempi
Ho parlato di poco meno di mezzo secolo della Confindustria: di una
Confindustria che è stata anche mia, non fosse altro perché
ne ho sempre regolarmente ricevuto uno stipendio, ne ho percepito
la liquidazione per la cui definizione soprattutto presidenziale hanno
dovuto mettersi d'accordo un ex segretario generale ed un sopravvenuto
direttore generale, mi ha assistito da amico un ex vice segretario
generale, che aveva predisposto diverse possibili definizioni: una
favorevole alla confederazione, una equa nei miei riguardi, una d'incontro
a mezza strada.
La mia Confindustria era fatta anche così, perché chi
ne faceva parte era fatto anche così. In questi lunghi anni
la Confindustria non ha mai licenziato nessuno, tranne un cassiere
che non si era fatto più vedere ed un impiegato chiacchierato
che fra l'altro osava venire in ufficio con le scarpe da tennis. Tollerate
per qualcuno erano state pure le mezze maniche. Sono le ultime a Piazza
Venezia. Dopo tanti anni di monsù Travet mi è toccato
anche di vederle, non ricordo se accoppiate alle ghette.
La mia Confindustria, che non è preistoria, è stata
anche questa. Del resto, Olivetti indossava fino a poco meno degli
anni Quaranta il tight e il plastron.
Ed oggi c'è pure il calcetto, prima ricordato, per i big della
Confindustria con relative gambe pelose, che già del resto
un mio compagno di quinta ginnasiale al Collegio Romano immaginava
per il nostro professore di italiano.
Tutti in marcia con i loro tempi.
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