§ RADIOGRAFIA SUD

PARTITA APERTA




B.M., S.B.



Le grandi ristrutturazioni aziendali si sono in gran parte arrestate. Da quel momento, la ripresa economica ha cominciato a produrre qualche lieve risultato positivo. E' aumentata, anche se di poco, l'occupazione nell'industria, salita in un anno dello 0,7 per cento, mentre il terziario ha confermato la tendenza positiva iniziata nel luglio '95, visto che l'incremento è stato dell'1,4 per cento, con andamenti positivi per quasi tutti i settori, con la sola eccezione del commercio dove sono ancora soprattutto gli autonomi a perdere il lavoro. Cioè, i piccoli negozianti, specialmente quelli con merci non qualificate. In compenso, qualche giovane e qualche donna, ma quasi esclusivamente nel Nord del Paese, sono riusciti ad entrare nel ciclo produttivo. Ma tutto ciò, ribadisce l'Istat, non è stato sufficiente ad intaccare lo zoccolo duro del tasso di disoccupazione che, come nell'anno precedente, è rimasto sostanzialmente fermo oltre il 12 per cento. Né la ripresa è riuscita a mitigare l'emergenza del Mezzogiorno. Il Sud resta semmai, e ancora una volta, il grande escluso, mentre si amplia il solco che divide le due Italie: il Bel Paese rischia di andare a pezzi, ora più che mai nel passato.
Di più: l'incidenza dei disoccupati di lunga durata (vale a dire chi cerca lavoro da almeno un anno) è ancora salita, passando dal 62,3 al 64,8 per cento sul totale. La conferma indiretta del fatto che chi ha più di quarant'anni ed è fuori dal ciclo produttivo, fuori resta. A trovare un po' di lavoro, attualmente, sono soltanto i più giovani e le donne. Ma attenzione, avverte l'Istat: l'occupazione a disposizione di queste due categorie è molto diversa da quella degli anni scorsi. Soprattutto per l'universo femminile. Se infatti oggi le donne riescono, più degli uomini, a trovare una qualche occupazione (in un anno +1,6 per cento, contro lo 0,2 per cento degli uomini), ciò avviene perché quell'occupazione è di carattere marginale: trionfa infatti il lavoro part time e a tempo determinato.
Tuttavia le cifre nude e crude non sono sufficienti a spiegare l'ennesimo paradosso italiano: quello per il quale la pur timida ripresa non riesce a creare nuovi posti di lavoro. Basta però guardare alla ripartizione territoriale dei dati per comprendere il perché del fenomeno. Si scopre così che mentre nel Nord cresce l'offerta di occupazione e contestualmente diminuisce la disoccupazione, riducendosi dal 7,2 al 6,7 per cento (quasi un tasso fisiologico), al Centro la situazione resta sostanzialmente stabile. E il Sud continua inesorabilmente a perdere terreno.
Abbandonato a se stesso, col venir meno dei naturali serbatoi occupazionali, quali l'agricoltura e la pubblica amministrazione (in un solo anno in tutto il settore pubblico si sono persi ventottomila posti di lavoro, con un calo dell'1,9 per cento), il Mezzogiorno si trova senza vie d'uscita in alcune aree, e con molte contraddizioni in altre. C'è un bel dire che quel che è peggio è che questo Sud si trascina dietro l'intero Paese, visto che alla fine l'intero problema della disoccupazione (e non soltanto questo) resta invariato a livello nazionale. Questa è una antica banalità, risaputa dai giorni dell'Unità. Il dato costante è che è solo il Sud a pagare il prezzo più alto. Qui, con la contrazione dell'offerta di lavoro e nell'impossibilità di crearne di nuova, il tasso di disoccupazione continua a lievitare senza fine. In un anno è passato dal 21,1 al 21,7 per cento, secondo le cifre ufficiali. Un dato drammatico (ma sottostimato, e chiariremo perché), al punto che, osserva l'Istat, l'incidenza della disoccupazione meridionale sul totale nazionale è passata dal 54,6 al 56,2 per cento. Ancora una volta sono i giovani ad essere direttamente coinvolti. Ragazzi senza futuro, verrebbe da dire, visto che mentre aumenta il tasso di disoccupazione, si riduce simultaneamente quello d'attività.
Nel 1995 l'intero esercito dei nuovi disoccupati italiani, ben 117 mila nuove unità, è stato reclutato nelle regioni meridionali. Il dato che fotografa la gravità dell'emergenza-occupazione nel Mezzogiorno non emerge da una rilevazione, fredda e distaccata, di un centro statistico qualsiasi, ma dall'indagine definitiva di un sindacato, la Cisl, sull'andamento del mercato del lavoro nell'anno trascorso. "Nell'ultimo anno - si legge nel documento - la disoccupazione si è prodotta tutta al Sud, dove in soli dodici mesi il numero dei disoccupati è aumentato di 117 mila persone, mentre nel Centro e nel Nord si è ridotto di 53 mila persone".
I dati specifici della Cisl: nell'anno, il tasso di disoccupazione è calato al Nord dal 7,3 al 6,9 per cento; al Centro è passato dal 10,8 al 10,4 per cento; nel Sud è aumentato dal 19,8 al 21,2 per cento. Il Mezzogiorno, in totale, alla fine del 1995 aveva il 55,4 per cento della disoccupazione totale, con trend in crescita. Nel 1994 era stato pari al 52,4 per cento. Si aggrava, poi, sempre nelle regioni meridionali, la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto il 55,9 per cento, contro il 52,3 per cento dell'anno precedente.
Secondo il sindacato, "al Sud la struttura produttiva e dei servizi non è riuscita ad agganciare il cielo favorevole innescato dalla svalutazione e dal contenimento del costo del lavoro". Un andamento del tutto differente da quello delle regioni settentrionali, dove si è verificato, sempre nel corso dell'ultimo anno, un recupero occupazionale dell'1,1 per cento. Anche al Centro si è rilevato un recupero dello 0,8 per cento, mentre al Sud, appunto, si registra un calo dell'occupazione pari o di poco superiore all'1 per cento.
Tra i diversi settori, l'agricoltura ha continuato vistosamente a perdere occupati, segnando un calo del 5,4 per cento ed espellendo altri 85 mila addetti. Ma anche l'industria ha ridotto ulteriormente l'occupazione dell'1,1 per cento, registrando un timido rallentamento del trend negativo (meno 70 mila occupati).
E' il terziario, invece, il settore che ha aumentato l'occupazione del 2 per cento, segnando una crescita di 236 mila occupati, di cui 150 mila donne. In questo settore l'andamento, esclusa la pubblica amministrazione, è positivo dovunque. Tirano di più i servizi alle imprese (+77 mila unità), seguiti da scuola, sanità e altri servizi sociali (+49 mila unità), commercio (+39 mila unità), alberghi e ristoranti (+39 mila unità), trasporti e comunicazione (+18 mila unità). La pubblica amministrazione ha registrato invece l'espulsione di 68 mila addetti.
Chiariamo perché i dati sull'inoccupazione spesso e volentieri non coincidano, da rilevazione a rilevazione, anche se alla fine la "forbice" risulta comunque divaricatissima tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Dall'Istat a tutti gli altri istituti, pubblici e privati, che effettuano tali rilevazioni, sono presi in considerazione in genere gli iscritti alle liste di collocamento, il cui numero varia a seconda dei tempi presi in esame; inoltre, spesso si procede per "campionature" più o meno ampie. Ciò determina l'emersione di dati oscillanti, con variazioni che statisticamente possono essere anche minime, ma che in cifre reali risultano abbastanza cospicue. Ciò non toglie, ripetiamo, la gravità della situazione. Il Sud resta l'arca di punta del malessere italiano. E lo dimostra, fra l'altro, un'impietosa quanto realistica indagine della Svimez.
Non solo nuovi stanziamenti, ma soprattutto una nuova e più efficace capacità progettuale e di spesa che consenta di sfruttare al meglio i fondi disponibili: il messaggio è indirizzato al Mezzogiorno d'Italia, e proviene dall'Associazione per lo sviluppo dell'industria nelle regioni meridionali, che nel suo Rapporto 1996 sui Mezzogiorni d'Europa traccia un confronto non lusinghiero fra il Sud d'Italia e le aree depresse dei partners europei.
Dal quadro delineato, emerge che il divario nello sviluppo economico nelle regioni dell'Obiettivo Uno, cioè le aree depresse, è stato ridotto fra il 1986 e il 1994 "grazie all'andamento positivo di Irlanda, Spagna e Portogallo; nel Mezzogiorno italiano, invece, il divario è rimasto sostanzialmente invariato, mentre in Grecia è aumentato".
Una delle principali cause del mancato sviluppo del nostro Sud si individua nella inadeguata capacità di spesa. Negli ultimi due anni, rileva la Svimez, il nostro Paese ha speso soltanto un terzo dei fondi comunitari ad esso destinati, mentre Spagna, Portogallo e Irlanda hanno modificato la propria struttura amministrativa in funzione degli aiuti provenienti dall'Unione europea, riuscendo a mettere in piedi progetti che impegnano quasi per intero la quota di fondi loro assegnati.
"In Grecia, in Portogallo e in Spagna - si specifica nel Rapporto - la capacità di assorbimento delle risorse entro i termini fissati dagli accordi comunitari è stata elevata. In Italia, a causa dell'incapacità decisionale ed operativa delle regioni alle quali sono stati affidati i compiti prima assolti dall'intervento straordinario, i ritardi sono stati molto forti".
Ma allora, che ci stanno a fare le regioni? I dati confermano senza ombra di dubbio la tesi degli esperti della Svimez: "Alla fine del 1993 la spesa effettiva aveva assorbito solo il 47 per cento delle risorse disponibili, contro quasi il 90 per cento in Portogallo e in Spagna e il 95 per cento (a fine 1994) in Grecia. Dopo la riprogrammazione del '94, la capacità di assorbimento è notevolmente aumentata, arrivando a circa il 70 per cento". Le regioni meridionali, insomma, nel momento in cui hanno compiuto il massimo sforzo per assorbire gli interventi comunitari, si sono perso un po' più del 30 per cento dei fondi loro destinati!
Tra i motivi dei buoni risultati conseguiti da Irlanda, Spagna e Portogallo, in contrasto con "gli evidenti insuccessi" del Mezzogiorno d'Italia e della Grecia, la Svimez segnala che "maggiore è stata la stabilità e più costante l'impegno di risanamento finanziario; più decise sono state la deregolamentazione del mercato del lavoro e la decelerazione della dinamica del costo del lavoro; appropriate politiche industriali hanno favorito forti aumenti della produttività". Inoltre, in questi Paesi c'è stato un cospicuo afflusso di investimenti esteri che è venuto ad aggiungersi al considerevole flusso di fondi comunitari, contribuendo fra l'altro alla stabilità del cambio.
Il concorso di queste circostanze, rileva la Svimez, ha portato "notevoli progressi" sulla via della conversione dell'economia verso settori ad alta produttività, orientati all'esportazione.
La strada per il rilancio del Sud, dunque, è segnata dalle positive esperienze di Paesi europei meno dotati del nostro dal punto di vista industriale. Ma che più del nostro hanno intenzione di risolvere concretamente il problema delle rispettive aree depresse, mentre da noi l'egoismo economico e la miopia politica propongono come panacea dei mali del Sud il trasferimento di unità lavorative verso le regioni più ricche: l'Italia denatalizzata non si scomoda a trasferire nuovi impianti nel Sud, malgrado i privilegi e le esenzioni previste, ma vuole importare materia grigia dalle regioni meridionali, concependo un bacino di lavoro potenziale come - invece - un eterno bacino di espulsione demografica. E ci si meraviglia persino se otto giovani su dieci si dichiarano per niente disposti a trasferirsi nelle regioni settentrionali.
Ciò non esenta da colpe le regioni meridionali. L'incapacità progettuale è palese: il più antico Sud d'Europa si trova impreparato ad affrontare le emergenze storiche che hanno condizionato il suo sviluppo, la sua economia, e ne hanno fatto un blocco sociale a bassa qualità di vita, di lavoro, di servizi. Ed eccoci nelle immediate vicinanze del fanalino di coda che è la Grecia, la cui frantumazione territoriale in centinaia di isole è in parte almeno attenuante nello stesso tempo generica e specifica. Che cosa accadrà del Mezzogiorno italiano nel momento in cui l'Italia dovesse aderire all'Unione monetaria? Siamo in grado di fare un confronto emblematico preventivo.
Quello tra il sostegno assicurato dagli ingenti trasferimenti dell'ex Repubblica federale tedesca nei confronti dei Länder orientali tedeschi ha superato del 65 per cento il reddito prodotto all'interno, mentre nelle regioni meridionali italiane la domanda ha superato il Pil soltanto del 15 per cento. Indovinate dove funzionano le istituzioni, lo Stato, le regioni, i comuni. Gli uomini!


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