§ IL PAESE DEL DIO MERCATO

DE AMERICA




Franco Ferrarotti



Gli Stati Uniti sono il Paese in cui si lavora di più, con maggiore intensità, con un impegno che spesso spezza le persone mediamente preparate a sostenere l'urto d'un impegno continuo. Le vacanze (le "ferie") nordamericane sono, com'è noto, le più brevi del mondo industrializzato. Rispetto al Giappone, manca nel Nordamerica quello spirito di comunanza quasi familiare - anzi, più che familiare - che caratterizza l'atmosfera della Zabaitsu, della grande impresa nipponica. Non si ha, in Giappone, lo stress supplementare della concorrenza inter-personale. Non si viene licenziati. Chi trova lavoro in una grande azienda, lo trova per tutta la vita. Da questo punto di vista, Usa e Giappone sono agli antipodi. Che poi il giapponese, nonostante questa incredibile job security, lavori anche a ritmi forsennati, è un mistero che resta da chiarire e bisogna forse chiamare in causa il centripetismo nazionale, il fatto, storicamente specifico, che la comunità giapponese, stante le magre risorse naturali e la sovrappopolazione, si è presto trovata davanti al dilemma: organizzarsi o perire. E' poi un dato per gli occidentali difficile da intendere l'adesione degli individui al gruppo con una forza tale che l'individuo non conta più nulla o addirittura viene il sospetto che non sia ancora nato. Ho visto un giorno, in una fabbrica che si diceva in sciopero, un operaio che lavorava con grande alacrità con un distintivo sulla tuta che annunciava: "Sono in sciopero". Il diritto e la pratica dello sciopero restavano qualcosa di esterno, si fermavano alla tuta, appunto. Negli Stati Uniti di oggi l'intensità dell'impegno nel lavoro si lega alla possibilità - immediata, su due piedi - del licenziamento, alla concorrenza inter-individuale, alla caduta del potere contrattuale del sindacato - quella che una volta i politologi troppo ottimisticamente chiamavano il "counter-valling power" - allo strapotere delle direzioni aziendali. L'eredità del New Deal è stata liquidata con Ronald Reagan. I lavoratori subalterni ora possono contare solo sulla relativa equità dell'Industrial Relations Board che, come ombrello protettivo, è piuttosto sforacchiato.
Quella nordamericana è una società panlavorista. Subalterni a parte, non c'è manager o junior executive che non si porti a casa le sue scartoffie per lavorarci durante il week end. Il lavoro "regolare" assorbe tutto. Verticalismo "corporate". Non ci sono possibilità di "lavoretti in proprio", laterali. Il mercato e la sua logica sono penetrati in profondità in tutte le sfere della vita nordamericana. I rapporti, anche quelli intimi in una certa misura, appaiono mercificati. La famosa "scuola di Chicago" arriva a proporre il mercato libero dei bambini per semplificare le procedure di adozione. Si salvano i gruppi sociali con forti tradizioni alle spalle, con lingua, religione e filosofia, cucina, festività, riti speciali. Questi diventano salvagenti, dighe. Costruiscono argini al dilagare, impersonale e crudele, del mercato. Danno alla vita uno spessore che non si può conteggiare in dollari e centesimi.
Bisognerebbe vivere in America da Europei e, tornati in Europa, tenersi a disposizione un appartamentino con terrazza a Manhattan, magari con vista sull'East River. Programma costoso. In alternativa, muoversi verso l'interno.
Ricordo l'autunno del 1951, piogge torrenziali, la mia traversata da New York verso Chicago via Pennsylvania e Indiana, in auto... Credevo d'averla fatta franca. Un affare. Per non essere mercificati bisogna uscire dal giro regolare, darsi alla strada, entrare nel regno anarchico dei picari. Kerouac non è un profeta: è solo uno che vuole uscire dal sistema prevalente, ma il suo complesso di colpa è così forte che lo può reggere solo in uno stato permanente di ubriachezza. Al mondo organizzato degli uffici e delle fabbriche non c'è alternativa reale che non sia la strada. Per chi non se la sente di saltare su un vagone merci quando il treno rallenta, c'è il famoso metodo dell'auto da condurre da uno Stato all'altro. Non si paga il biglietto, si mangia quel che si rimedia per strada, si dorme sui sedili posteriori. A me era toccata una vecchia Packard, di quelle che avevano le ruote di dietro coperte fin quasi a terra da robusti parafanghi neri. Incontri straordinari e belle serate alla belle étoile fra i poveri dell'Appalacchia, fuochi in campagna per scaldarsi il thé, le mani, i piedi. E poi, due giorni ospite nella farm di un certo Frank Raff; campi sterminati dell'Indiana; agricoltura meccanizzata; quattro uomini per seimila acri. Brutta esperienza all'arrivo. Non mi vogliono rimborsare la benzina. Al minimo accenno di resistenza, sono atterrato. Quando torno in me, vedo il lago, le ciminiere delle acciaierie di Gary, Indiana; in lontananza, il profilo irregolare, bellissimo del Lake front di Chicago. In Usa la violenza è personale, da uomo a uomo. Il pugno è sempre stato più importante dell'ideologia, manca la violenza dei grandi movimenti sociali, ad eccezione dei race riots, che sono però, appunto, moti razziali, esplosioni improvvise ma passeggere, uragani estivi.
Eppure, nonostante tutto, com'era bella l'America degli anni '50! Non c'era ancora il maccartismo, non era ancora scomparsa la gentilezza verso l'ospite, quell'accettazione di "colui che viene", tipica della "frontiera"; non c'era ancora la paura della contaminazione al contatto che più tardi avrebbe fatto parlare di una cultura diversa come dell'Impero del male. L'America degli anni '50 non aveva ancora perduto tutta la sua innocenza, il suo straordinario candore, quell'ingenuità, quella rude bontà che era la filosofia implicita dei vecchi film western, quelli che si chiamavano "oaters", dal mangime dei cavalli. Quell'America è finita, scomparsa per sempre: la guerra fredda, l'incognita ideologica l'hanno seppellita. Ho sempre saputo che l'America non era New York, che la "Grande Mela" è solo un'anticamera dell'America, una specie di concentrato di tutte le periferie del mondo, una vociante sala d'aspetto, un cocktail di lingue e di razze che sembrano scommettere su fino a quando ce la faranno a stare insieme, strette l'una accanto all'altra, l'una sull'altra in una piccola isola divisa da un modesto corso d'acqua da un territorio immenso.
La vera America è quella che guarda ad Ovest uno spazio sterminato che ti succhia, la vasta prateria in cui ci si perde. Ho deciso. Parto. Chiamo l'ascensore e dal trentesimo piano scivolo verso il marciapiede della First Avenue. Voglio sottrarmi al reticolo geometrico delle strade e delle avenues. Ne ho abbastanza di edifici con cui non si può stabilire un contatto umano, che ti danno solo il torcicollo. Stupidità di certi primati. L'Empire State Building: il più alto del mondo... Veramente? E che ce ne importa? Il culto dell'exploit quantitativo oscura tutto il resto. Ogni domanda comincia con un "quanto": quanto è lungo, quanto è largo, quanto costa, quanto guadagna, quante miglia all'ora, quanti dollari l'anno... Il mercato ha mercificato i rapporti, dissolto le famiglie, avvelenato le amicizie. Però: che bellezza quelle che resistono... Non devo esagerare. Ho già detto che si salvano gli individui e i gruppi con forti tradizioni alle spalle. Quel che resta di Little Italy. Chinatown. Le sinagoghe. La cucina è fondamentale. Gli ethnic restaurants fanno di New York una specie di riassunto planetario. Tutto il mondo in un'isola. E' una giungla d'asfalto, splende la sera di mille luci, quelle dei grattacieli, quelle tenui, quasi patetiche dei ponti sull'East River, come certe luminarie nelle feste di paese. E' adorabile. E' insopportabile.
Vado a Sud. Prendo il treno che mi porta a Washington via Baltimora. Tutto in velluto rosso. Poltrona con predellino poggia-piedi regolabile. Sembra di essere dal barbiere o dal dentista. In piena belle époque... Constitution Avenue, a Washington, non è una strada, è una quinta di teatro, classicheggiante, con tutte quelle colonne doriche e capitelli corinzi ricostruiti a orecchio che fanno pensare ad una scena dell'Aida alle Terme di Caracalla. Il Campidoglio, poi, è voglia d'Impero senza un vero Cesare. Fastidiosa impressione di cartapesta. Nessun dubbio sulla buona fede dei Padri Fondatori: Jefferson sapeva di greco e di latino (troppo? Del resto la cosa non gli impediva di unire l'ideale di Cincinnato alle gioie di una famiglia plurima); Franklin era insieme ascetico, avaro, pragmatico e prudentemente edonista...
L'Hotel Madison è centrale, quieto, quasi felpato, tutto francese, con bei tappeti morbidi, dal pelo alto, che danno l'impressione del prato. Non ho mai capito perché tutto quello che è squisito, raffinato, voluttuoso o semplicemente godereccio debba negli Stati Uniti essere chiamato "francese". Forse è l'antica influenza dell'esperienza di Franklin a Parigi come ambasciatore, ascoltato dai philosophes e coccolato dalle signore? Sta di fatto che si parla di "french kiss", di "french toast", eccetera. E d'altro canto, non è forse francese il solo quartiere esplicitamente licenzioso in una città americana, il "Vieux carré", a New Orleans?


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