§ SVENDITE DI FINE STAGIONE

VENDETTA KRUPP




Mabel



E' stata una vendetta lunga un secolo. E' stato scritto che la storia, spesso, si diverte a incrociare i destini non soltanto degli uomini, ma anche delle cose. Ebbene: la Krupp, agli inizi del Novecento, si decise ad entrare in un cartello internazionale dell'acciaio (il termine specifico in quel tempo era "delle corazze"), allarmata dalla presenza della Terni. Oggi, alle soglie del terzo millennio, la stessa Krupp ha conquistato la maggioranza della società umbra, acquistando da due industriali privati, Riva e Falck, la quota che le mancava per avere il controllo totale.
Una vendetta crudele. Il colosso dell'acciaio, la leggenda tedesca sinonimo di armamenti, di ricchezza, di solidità ("produce dall'ago alla città artificiale, passando per le pentole e le artiglierie", si diceva e si dice), toglie all'Italia e al Centro-Sud una delle industrie-simbolo che negli anni delle grandi crisi siderurgiche era riuscita a sopravvivere ritagliandosi uno spazio vitale nel settore degli acciai speciali. Dopo il Nuovo Pignone, la società dell'Eni passata qualche anno fa agli americani, un altro pezzo dell'industria italiana prende il volo. Per sempre.
Afferma Franco Bonelli, storico dell'industria e della finanza italiana e autore di un libro dedicato proprio alla Terni: "Purtroppo, questo è l'epilogo di una vicenda in atto da molto tempo, la cartina di tornasole del fatto che il nostro Paese non si è dotato di una vera politica industriale nell'epoca della globalizzazione dei mercati".
Ma per la fabbrica creata nel lontano 1884 da Vincenzo Stefano Breda, un garibaldino cugino di quell'Ernesto Breda costruttore di locomotive e di carrozze che ancora oggi portano il suo nome, c'è qualche cosa di più dell'ennesima colonizzazione. Le acciaierie sono per Terni quello che la Fiat è per Torino o l'Ilva per Taranto: identificazione completa con la città, dipendenza esistenziale, cordone ombelicale impossibile da tagliare. "Con l'arrivo dell'acciaieria - dice Bonelli - nel giro di pochi anni Terni si trasformò da cittadina agricola a quella che tutti cominciarono a chiamare la Manchester italiana. Era l'unica industria del Paese capace di produrre materiale bellico. E agli inizi del secolo la non dipendenza dall'estero su questo fronte era considerata di importanza vitale".
La Terni diventa il simbolo dell'Italia industriale, indipendente, autarchica. Il Paese, in quegli anni, ha circa 27 milioni di abitanti e solamente mezzo milione di persone lavorano nell'industria, specialmente in quella tessile, e spesso si tratta di donne e di ragazzi. Il reddito pro capite nazionale non arriva nemmeno ad un quarto di quello inglese ed è pari a circa un terzo di quello francese. Nel resto d'Europa la rivoluzione industriale è iniziata molto prima: con un secolo di anticipo in Inghilterra, cinquant'anni prima in Francia, ventitrent'anni prima in Germania. E lì esiste già un'industria siderurgica, chimica e meccanica forte dominata dai Krupp e dai Thyssen. Incontrastati re della siderurgia sono i Krupp, una leggendaria dinastia storica immortalata da Luchino Visconti nel film "La caduta degli Dei", in parte girato (ecco che i destini si incrociano ancora) proprio negli stabilimenti della Terni. E' facile immaginare la sensazione di fastidio che deve avere accompagnato la decisione del gigante siderurgico tedesco di dividere il mercato con la piccola fabbrica italiana per evitare una pericolosa concorrenza. Fino ad allora la Krupp esportava in condizioni di dumping, stabiliva i prezzi. Da allora dovette cominciare a scendere a patti.
La scommessa del governo Depretis (che dovette vincere l'ostilità dei liberisti) si rivelò vincente e quando scoppiò la prima guerra mondiale i cannoni che tuonarono contro l'esercito austro-ungarico avevano il marchio di fabbrica della Terni. E così anche molte corazzate (da qui il termine "corazze") che incrociavano i mari in quell'epoca di guerra. Quasi cinquant'anni dopo dagli stessi impianti usciranno anche prodotti di altro tipo, come, ad esempio, il celeberrimo batiscafo con il quale Jacques Picard ha esplorato gli abissi degli oceani.
Dopo il fondatore, Vincenzo Stefano Breda, arrivarono i cantieri Orlando di Livorno, gli Odero di Genova, la Comit, e quindi, nel 1934, l'Iri, vale a dire la Finsider. "La Terni - ricorda Bonelli - era ormai un gruppo polisettoriale che produceva anche energia elettrica, che poi rivendeva sia al Nord sia al Sud. Ma nel 1962, con la nazionalizzazione dell'Enel, sopraggiunge la svolta. La società perde il settore elettrico che reggeva tutta la baracca e faceva funzionare la siderurgia. La nazionalizzazione, in altre parole, condanna l'impianto a vivere con le proprie forze".
Sono anni difficili, e anche anni di lotte sindacali dure. Terni è una delle roccaforti operaie dei tanti autunni caldi della più recente storia del nostro Paese.
Ma l'economia mondiale, fortunatamente, tira ancora, e l'acciaio rimane un prodotto di largo consumo. La Terni incomincia a specializzarsi in produzioni più raffinate, di "nicchia", come si usa dire, e tra una ristrutturazione e l'altra regge l'impatto dei nuovi tempi. Gli anni Ottanta, però, non perdonano: la siderurgia mondiale inizia a conoscere le sue prime grandi stagioni di crisi. Partono le chiusure, i ridimensionamenti degli impianti, i tagli all'occupazione. La Finsider, che poi riprenderà l'antico nome di Ilva, viene travolta, e brucia migliaia di miliardi dello Stato prima di essere messa definitivamente in liquidazione. "E' proprio sulla Terni - sostiene Bonelli - che la Finsider-Ilva fallisce. Fino a che si trattava di fare siderurgia di massa, l'industria pubblica ha funzionato. Poi, con la crisi mondiale, non ha avuto la flessibilità necessaria per riconvertire le produzioni".
La Terni viene messa in vendita: la cordata italo-tedesca viene preferita ad una italo-francese. Siamo nel 1994 e Romano Prodi, presidente dell'Iri, per seicento miliardi di lire cede la Terni a Krupp, Riva, Falck e Agarini. Gli italiani, messi insieme, hanno il cinquanta per cento. In questo modo - si dirà - c'è la garanzia che la Terni non passa allo straniero. Magra consolazione. E consolazione per di più retorica. La realtà è che a dettar legge è proprio quell'unico socio, la Krupp, che da solo possiede l'altra metà della Terni. I tedeschi arrivano buoni ultimi sul nostro mercato, visto che c'è una lunga lista di aziende italiane "passate allo straniero". La Nuovo Pignone (turbine), gioiello dell'Eni, è stata ceduta agli americani della General Electric. Ma clamorosi furono anche i casi della Zanussi ceduta agli svedesi della Electrolux, e della Buitoni, passata al colosso Nestlé insieme con Perugina, e poi con Motta-Alemagna. La liquidazione dell'Efim ha portato alla vendita della Siv (vetro per automobili) agli inglesi della Pilkington, e della Alumix agli americani della Alcoa.
Ma è in campo alimentare che si registra il maggior numero di defezioni: l'Unilever, multinazionale anglo-olandese, ha messo le mani su Bertolli, San Giorgio, Dante, Eldorado, Algida e Sorbetteria Ranieri. I francesi della Danone si sono impossessati della Ferrarelle-Boario e della Birra Peroni, nonché dei marchi Galbani e Agnesi. La Kraft, infine, ha acquistato Vismara, Simmenthal, Negroni, Invernizzi e il Caffè Splendid.


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