§ A DUE SECOLI DALLA MORTE

IL RITORNO DI ADAM SMITH




Paul A. Samuelson



Sono trascorsi ben duecento anni, e le sue teorie sulla libertà di mercato non solo non hanno perso di smalto, ma sono addirittura rinate a nuova vita. Il "capitalismo alla Adam Smith" sta godendo di una nuova stagione di popolarità non solo nei Paesi dell'ex Europa dell'Est, ma anche nelle cosiddette economie miste, quali la Scandinavia, l'Australia e la Nuova Zelanda, e persino nei Paesi latino-americani, come il Messico.
Ma per comprendere in profondità le speciali relazioni che legano l'Italia ad Adam Smith, dobbiamo abbandonare per un momento i titoli dei giornali che hanno celebrato l'anniversario, e riandare al 1776, quando fecero la loro apparizione sulla scena mondiale due nuovi protagonisti: la rivoluzione industriale e il libro di Adam Smith La ricchezza delle Nazioni.
Di solito, la cultura popolare sintetizza gli avvenimenti in immagini simboliche, a tinte molto nette, e senza sfumature. Ora, per descrivere la nuova popolarità di Smith si dice che Karl Marx e Adam Smith abbiano ingaggiato negli ultimi settant'anni un vero e proprio duello wagneriano; e Adam Smith ha battuto ai punti Karl Marx.
Ovviamente, nella realtà le cose non sono così semplici, ma non è questo il punto. D'altro canto, si può dire che è stata proprio l'economia mista dell'ex Germania Occidentale, e non certo il capitalismo puro di Friedrich Hayek, a suscitare l'invidia dei liberi cittadini dell'ex Germania dell'Est. Ma perché perdere tempo a cavillare su aspetti che, agli occhi di molte centinaia di milioni di abitanti dell'Europa Orientale, apparirebbero soltanto dei dettagli?
Smith fu battezzato con il nome di Adamo, e mai nome fu più azzeccato: egli è stato veramente, a pieno titolo, il padre fondatore della scienza economica. Come dimostrerò in seguito, oltre ad essere nel campo vincente dell'ideologia, il seme che ha piantato come originale teorico dell'economia si è rigogliosamente sviluppato durante la mia vita accademica.
Nel firmamento dell'economia ci sono molti astri luminosi. Ma le stelle più fulgide, a mio avviso, sono tre: uno scozzese, Adam Smith (1723-1790); un francese, Léon Walras (1834-1910); e infine un inglese, John Maynard Keynes (1883-1946).
Se Smith è l'Aristotele dell'economia, Walras ne è il Newton e Keynes l'Einstein.
La ricchezza delle Nazioni è stato un libro che è apparso con grande tempismo: venne stampato nel 1776, esattamente nello stesso momento in cui il capitalismo democratico americano proclamava la sua indipendenza. In Gran Bretagna, ovvero nella culla originaria della rivoluzione industriale, la fama di Smith fu immediata.
Anche nei giovanissimi Stati Uniti d'America l'invito al liberismo fu accolto subito con entusiasmo. Se si eccettua la passione, tutta americana, per le tariffe protezioniste per le neonate industrie, le sue teorie si adattavano molto bene alla nostra nuova società di frontiera, costruita da "self-made men".
In Germania, invece, le cose assunsero un'altra piega. In quella società, ancora in via di sviluppo, il vangelo del libero commercio fu considerato come apologetico, ad esclusivo beneficio del capitalismo britannico, che aveva iniziato con una marcia in anticipo rispetto al resto del mondo.
E qui arriva il paradosso: sotto tutti i punti di vista, era proprio l'arretrata economia tedesca ad aver maggiormente bisogno dell'ideologia della "deregulation" economica. Eppure, la reazione tedesca fu di segno opposto e si trincerò dietro un fumoso romanticismo, che glorificava la sua stessa mancanza di logica. Il fumo, evidentemente, è una merce durevole: dal protezionista Friedrich List fino ad Adolf Hitler, il nazionalismo è stato sempre celebrato e venerato, a spese del cosmopolitismo, e la ricerca della gloria è stata valutata più importante di una lunga e confortevole vita dei cittadini. Anche Mussolini, nel suo programma che incitava gli italiani a "vivere pericolosamente". venne contagiato dall'esempio tedesco.
Non si riesce a capire invece - è uno dei misteri insoluti della storia - perché le idee di Smith di un mercato libero e non regolato non abbiano preso piede più profondamente in Italia nel diciannovesimo secolo. Certamente, gli accademici italiani dell'economia hanno criticato, in generale, le interferenze del protezionismo.
Vilfredo Pareto fu un ardente sostenitore, in gioventù, del libero mercato, ma fu così amareggiato dalla resistenza politica alla "deregulation" economica che diventò un esule svizzero e passò dagli studi razionali dell'economia agli studi della irrazionale sociologia.
Le nozioni di uno Stato corporativo non furono mai chiaramente rese esplicite, né nell'Italia di Mussolini né nella Spagna di Franco. Adam Smith avrebbe predetto, correttamente, le inefficienze intrinseche a tale ordine economico. E Pareto sarebbe stato d'accordo.
In ogni caso, dopo la seconda guerra mondiale, i precetti di Smith hanno avuto la loro "chance" di attuazione e hanno giocato un ruolo-chiave nei miracoli economici tedeschi e italiani tra il 1950 e il 1975. Si potrebbe anche dire che la nascita di un mercato informale "grigio" è stata un modo darwiniano con il quale la libera competizione, secondo la concezione di Smith, ha trovato il modo di affermarsi. Gli individualismi personali del popolo italiano, francese e spagnolo - in contrasto con l'obbedienza protestante dei popoli nordici -hanno permesso di controbilanciare gli effetti costrittivi dell'eredità della Chiesa cattolica medievale.
Per mia grande fortuna, la sorte mi ha regalato grandi maestri. Joseph Schumpeter mi ha insegnato che è possibile essere brillanti, mentre Gottfried Haberler mi ha instillato un grande insegnamento: in economia è necessario essere eclettici. E dunque, se Keynes era un brillante virtuoso, Smith è stato il Grande Eclettico. Egli veniva dalla terra del cosiddetto Verdetto Scozzese: laddove è possibile, oltre che essere giudicati colpevoli o non-colpevoli, ritenere un fatto non-provato.
La libertà, ha teorizzato Adam Smith, è produttiva e giusta, ma fino a un certo punto. Ecco perché nel libro La ricchezza delle Nazioni sono chiaramente enunciati dei ruoli distinti per lo Stato.
Per quello che sappiamo del suo temperamento, possiamo dire con ragionevole certezza che duecento anni dopo la sua epoca egli saluterebbe come giuste e doverose alcune limitate misure di redistribuzione del reddito attraverso il sistema fiscale.
Gli ungheresi e i cecoslovacchi, che sono stati talmente disgustati dallo Stato centralizzato da avere sposato il capitalismo senza aggettivi - il capitalismo tout court, e non il capitalismo umano o il capitalismo a metà - arriveranno a comprendere, tra non molto, la grande saggezza del "giusto mezzo" di Adam Smith. Che restituirà al mercato la maggior parte del lavoro quotidiano, perché è proprio qui che il mercato competitivo dà il suo meglio, ma ridarà allo Stato democratico il compito di occuparsi della civiltà e dell'umanità, un affare che non può essere affidato ai singoli.
Adam Smith era un cavaliere solitario: "Sono un Bello solo per i miei libri", disse una volta. Dubito che Smith sarebbe stato un consigliere di qualche utilità per Solidarnosc o per le Accademie Sovietiche incaricate di portare avanti la perestrojka.
La maggior parte dei consiglieri di successo dei governi sono stati, in realtà, mediocri accademici dell'economia. Hjalmar Schact, per esempio, era un mago economico troppo sopravvalutato, e alla fine si rivelò un ostacolo per Hitler. Bernard Baruch, un prodotto di esportazione di Wall Street che ha aiutato gli Stati Uniti a pianificare il controllo dei prezzi nelle due guerre mondiali, non era che un pallone gonfiato, e non era nemmeno il brillante speculatore che riteneva di essere.
Forse gli attuali santoni - Jeffrey Sachs di Harvard o Janos Kornai di Budapest, per esempio - saranno in grado di svolgere un lavoro migliore di quanto si facesse, tradizionalmente, in passato. Ma se mi baso sulla mia esperienza personale - di scontri continui con la rigidità della politica - non posso che essere scettico e non mi aspetto molto.
Trasformare i socialismi dell'Europa Orientale in economie di mercato occidentali è stata e continua ad essere un'impresa formidabile, per completare la quale occorre e occorrerà ben più di una rilettura della Ricchezza delle Nazioni di Smith o de La via della schiavitù di Hayek.
Tuttavia, non si può costruire una nuova strada se non si sa quale via intraprendere. L'eredità, di valore incalcolabile, che ci ha lasciato Smith è proprio questa: una mappa stradale, che non ci conduce verso l'Utopia, ma verso il progresso economico attraverso strade di buon senso.


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