§ PORTO FRANCO

MONETA UNICA?




Luca De Santis



La sintesi l'ha fatta Saverio Vertone, qualche tempo fa. In dicembre - ha scritto - in Parlamento si dedicò una seduta plenaria per discutere dei problemi europei. Il governo presentò il suo programma per il cosiddetto Semestre italiano, tutti i gruppi recitarono compuntamente la loro litania sulla moneta unica, dando prova di uno straordinario attaccamento al progetto di Unione economica, politica, culturale, morale, spirituale e (perché no?) mistica del Vecchio continente. Come al solito, la retorica seppellì sotto una trapunta ricamata di parole colorate la natura del compito che ci attende; e il Paese venne lasciato rigorosamente al buio sulle alternative che, alla resa dei conti, direttamente lo riguardavano. In quella, e in altre successive circostanze, partiti e rappresentanti delle Istituzioni ci dissero tutto ciò che intendevano fare per risolvere il problema dei loro rapporti con le forme della politica e della democrazia, senza sprecare una parola per farei capire come intendevano - e intendono - usare quelle soluzioni per i contenuti dell'una e dell'altra, e cioè per sciogliere i nodi dell'economia e della società.
Allora, cerchiamo di ragionare sull'Europa. Pare strano che nessuno abbia sentito il bisogno di chiarire al Paese la natura e le conseguenze delle opzioni che dovremo compiere nei prossimi mesi. Per esempio: posto che ci convenga accettare le regole di Maastricht, a quali risorse finanziarie, politiche e anche morali dovremo attingere per aderire all'Unione monetaria e per metterci al passo con gli onerosi criteri di convergenza (deficit sul Prodotto interno lordo al tre per cento, debito al sessanta per cento, tasso di sconto e inflazione compatibili con quelli degli altri Paesi europei(? E se, invece, fatti ben bene i conti, risultasse più vantaggioso per noi rimanere fuori (o semplicemente non riuscissimo ad adeguarci), che cosa ci succederebbe, quali emergenze dovremmo affrontare?
Impostando in questi termini il dibattito su Maastricht, il Parlamento, prima, e le altre Istituzioni in seguito, avrebbero dimostrato di avere a cuore gli interessi generali dell'Italia e dell'Europa, e avrebbero fatto il loro dovere. Invece, hanno fatto il loro piacere, vantandosi di buoni sentimenti perfettamente inutili e nascondendo accuratamente al Paese il dilemma al quale l'Europa (tutta l'Europa) sta andando incontro: accettare i pesanti condizionamenti di Maastricht per entrare in un sistema protetto dal mercato globale? O prepararsi ad una concorrenza spietata con l'Asia e con l'America? Il dilemma può suonare (paradossalmente) anche così: perdere le garanzie assistenziali per conservare lo Stato sociale? O essere estromessi dalle grandi correnti del traffico internazionale per entrare nella cosiddetta globalizzazione?

Per fortuna nostra, un barlume di discussione si è acceso sui giornali, tanto deprecati ma, a quanto pare, in qualche modo indispensabili. Ha cominciato Ralph Dahrendorf, mettendo in dubbio l'utilità della moneta unica, salvo che per la Germania. E, a stretto giro di posta, gli ha risposto Mario Pirani, il quale ha denunciato i "calcoli nazionali" con i quali Dahrendorf e altri commentatori cercano di screditare agli occhi dei francesi e degli italiani l'Unione economica e monetaria, presentandola come un ricettacolo di interessi tedeschi. Dahrendorf sostiene che "molto più utili di un cambio stabile sono, per la Francia, alti livelli di spesa statale, e, per l'Italia, opportune svalutazioni della lira".
Pirani gli obietta che queste "ricette di rilancio nazionale aumentano l'inflazione, gli squilibri valutari e i deficit pubblici".
Chi ha ragione? Forse Dahrendorf dimentica che anche senza moneta unica Italia e Francia dovrebbero risanare i loro conti. Ma forse Pirani sorvola sugli interessi tedeschi. Per la Germania, l'Unione deve essere un'area economica fortemente protetta, all'esterno, da dazi e da contingentamenti, e, all'interno, proprio da una moneta unica ancorata al marco, che costringerebbe tutti i concorrenti europei a produrre ai costi tedeschi, che sono i più alti. Si può sacrificare la competitività per conservare lo Stato sociale. Ma che cosa succede se i criteri di Maastricht ci costringono a rinunciare anche allo Stato sociale? Non è il caso di discuterne a fondo?


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