§ PORTO FRANCO

EUROMONETA




Gianni Ludovisi



Il progetto di Unione monetaria europea, nella sua recente variante compulsiva e impositiva, nasconde in realtà una strategia protezionistica per alzare urgentemente una diga contro l'ondata competitiva del mercato globale che si staglia all'orizzonte delle spiagge europee (la combinazione tra prezzi più bassi, più tecnologia ed efficienza che viene dall'America e da alcuni Paesi dell'Asia).
La Germania si sta preparando a questo scenario, cercando disperatamente di accelerare una prima fase di liberalizzazione. Ma il sistema tedesco non è culturalmente e politicamente flessibile. Inoltre, ha un ritardo tecnologico medio di circa quindici anni in relazione agli Stati Uniti e al Giappone. Per questo le imprese tedesche non possono usare il modello di riforma industriale veloce attuato negli Stati Uniti (dal 1988 al 1992) proprio grazie alla disponibilità di nuove tecnologie presenti nell'ambito di un mercato già liberalizzato. La Germania ha tutti i numeri per attuare una liberalizzazione competitiva, ma ha bisogno di non meno di dieci anni per attuarla. La Francia non riuscirebbe neanche a tentarne l'avvio, perché il suo modello è ormai talmente incancrenito dallo statalismo e dal centralismo che ha perduto ogni flessibilità. Queste posizioni chiariscono esaustivamente il reale interesse degli "euroentusiasti" che sono i governi francese e tedesco e tutti quei soggetti europei che vivono in settori protetti che sarebbero spazzati via dall'economia competitiva. Per capire meglio, basta ricordare l'alleanza tra produttori europei di automobili, diventato accordo intergovernativo, per contingentare le importazioni di auto più competitive dall'Asia. Ma la novità è che per resistere alla nuova ondata competitiva con il metodo "protezionista" praticamente tutti i settori produttivi e dei servizi dovrebbero essere difesi da barriere.
Ecco perché i protezionisti vogliono uno strumento più forte per costruire la diga. Esso sarebbe un tipo di mercato unico continentale organizzato per la circolazione privilegiata di merci europee ad alto costo e tecnologia medio-bassa. Un mercato, cioè, sufficientemente grande al suo interno per fornire domanda a tutta l'offerta produttiva europea, ma difeso (barriere tariffarie e no) contro i prodotti non-europei a più alta tecnologia e minori costi. Questo è il vero scopo degli "euroentusiasti". E' il progetto europeo, perché il potere politico in Europa è inversamente proporzionale alle capacità di liberalizzazione competitiva.
In questo contesto, la moneta unica entra come fattore centrale non perché sia assolutamente necessaria di per sé e subito, ma perché è "assolutamente necessaria" alla Germania per poter esistere dentro il mercato unico protetto. Il punto è che la Germania non può - perché non vuole -abbassare il marco. Se il mercato interno si apre sempre più e le monete europee possono giocare al ribasso (come l'Italia a partire dal 1992), l'economia tedesca verrebbe distrutta dalla competitività intra-europea. Quella francese si dissolverebbe ancor prima. La moneta unica serve semplicemente ad alzare tutte le monete europee e ancorarle al modello economico francese e tedesco, evitando svalutazioni e, soprattutto, defiscalizzazioni competitive a svantaggio di quel modello. Questa è l'inquietante verità sulla moneta unica euroentusiasticamente intesa come strumento del protezionismo europeo. Tutto lo scenario si regge su due punti precisi:
1) la difficoltà di attuare liberalizzazioni competitive da parte della Francia e della Germania;
2) l'ossessione tedesca di mantenere il marco sopravvalutato.
Questo è l'arrosto che brucia sotto l'enorme nuvola di fumo che è diventata la questione europea. Ma l'arrosto è in realtà già carbone. E ciò che lo rende tale è il fatto che l'ondata competitiva sta già spazzando l'Europa. Nessun produttore di rilievo può sopravvivere limitandosi al mercato europeo e deve comunque competere su quello globale planetario. Pensate, tanto per fare un esempio, alla Bmw, che deve esportare gli impianti per poter vendere in America, oppure alla Olivetti che esce dal settore dei computer perché, per restarci, bisogna essere al "top" del mondo, e non soltanto dell'Europa. La realtà è che non esiste più un "mercato europeo", ma solo e semplicemente quello globale. E' inutile "proteggere" qualcosa che non c'è più. E' ormai inevitabile dover competere per eccellenza tecnologica, tasse minime, monete basse, flessibilità, capacità globale. Quindi, nel futuro sarà necessario liberalizzare velocemente comunque, e i tedeschi dovranno per forza di cose abbassare il marco (se lo yen, il dollaro - e la lira - che hanno lo stesso problema, glielo lasciano fare). Ed è da queste basi realistiche che deve ripartire una visione europea.
E l'Italia? Noi siamo già liberalizzati e globalizzati a livello di struttura industriale portante (piccole e medie imprese globalizzate nei mercati di nicchia). Ma abbiamo un forte residuo protezionista sul piano dello Stato e di molte grandi imprese. Anche da noi il potere è inversamente proporzionale alla capacità competitiva. Questo crea il paradosso che l'interesse della maggioranza produttiva globalizzata sia definito dalla minoranza protezionista. Tutto questo porta all'altro paradosso: l'Italia, che è più avanti degli altri Paesi europei nella globalizzazione competitiva, chiede di "entrare" umilmente in un'Europa protezionista che a sua volta non riesce ad l'entrare" nel mercato globale. Questa situazione fa semplicemente ridere!
Amici lettori, intanto cerchiamo di digerire queste nuove verità. Forse molto presto sarà necessario usarle per decidere se ci conviene alzare bandiera corsara o restare in qualche modo nella prima o seconda o terza linea della flotta.
Comunque, ottimismo: la nostra forza è che gli oceani, da sempre, sappiamo navigarli. Alla grande.


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