§ DENTRO LA MEMORIA

RICORDI E RIFLESSIONI DI UN MEDICO OTTUAGENARIO




Italo Vittorio Tondi



Ricordi, tanti. Risalgono alla mia adolescenza. Figlio di medico-condotto, unico ed a tempo pieno, diurno e notturno, in un paesino di 1.500 abitanti, dove l'Amministrazione comunale mai volle deliberare un "elenco dei poveri", fui subito attratto dalla sua poliedrica preparazione tecnica e da una cultura medica sempre aggiornata con la lettura di prestigiose riviste specializzate e di articoli di insigni luminari, universitari ed ospedalieri, dalla abnegazione, ignara di soste, lamenti e pentimenti, dal sorriso per una vita salvata e dalla depressione per una perduta, in un'epoca in cui inesistenti o fatiscenti erano le scarsissime strutture ospedaliere, in vecchi conventi quasi tutte ubicate.
Fui mentalmente "ingabbiato" da decidere, sin d'allora, che altra professione non avrei mai esercitata. Ulteriormente affascinato dalle reiterate laudative sue citazioni di eminenti Clinici, dotati di eccezionale acume diagnostico, di cultura umanistico-filosofica, alto senso di solidarietà umana ed onestà morale, nel 1934, mi iscrissi a Medicina.
Intrapresi con grande entusiasmo lo studio di alcune materie (istologia, anatomia umana e fisiologia), con minore di altre (chimica e fisica). Anche se la frequenza nell'Ateneo barese fu prodiga di soddisfazioni scolastiche e di tante belle amicizie, protrattesi nel tempo, di stima ed affetto per alcuni docenti, cominciò a farsi strada, nel mio inconscio, il desiderio di emigrare verso più prestigiose sedi universitarie e l'opzione cadde su quella patavina. E Padova mi accolse in una rigida brumosa giornata dell'autunno 1936.
La severità e la serietà degli studi e dei tirocini pratici in quell'Ateneo, oltre che in Italia anche all'estero riconosciute, mi infusero una forza fisico-mentale tale da non voler deludere la mia scelta, le mie prospettive, i miei sogni e le attese dei miei genitori. Con alfierana volontà e certosina fatica affrontai il secondo biennio, con l'insperato ed invidiatissimo inserimento tra i sei allievi-interni dell'Istituto di Patologia Medica. Quale e quanta fonte di apprendimento teorico-pratico fu per la mia formazione professionale quel periodo, anche sul piano etico-morale, non posso precisare perché incalcolabile.
Non cito i nomi dei miei Superiori (del Direttore, dell'Aiuto e degli assistenti) perché tutti incondizionatamente generosi, aperti e lieti di infondere in noi allievi-interni l'amore per lo studio, per l'osservazione ed il rispetto del malato, per l'onestà della ricerca scientifico-sperimentale.
Unico rappresentante "meridionale" in quel sinedrio sanitario e parasanitario ero io; mai fui oggetto di pregiudizi e discriminazione.
Insperatamente, anzi, nel periodo di transizione tra il quinto e sesto anno accademico, sotto la personale responsabilità del Direttore, ebbi l'incarico di sostituire per tre giorni, per la contingente penuria di medici interini, il condotto di un paesino veneto (Curtarolo). Graditissima ma anche traumatizzante fu la proposta che orgoglioso accettai, ma con la grande paura di imprevedibili eventi (elettivamente di carattere ostetrico ed infettivo logico). Per fortuna, senza sorprese ed incidenti di sorta, rientrai a Padova con i ringraziamenti del podestà, la soddisfazione dei Superiori e con un compenso di trecento lire che, arrotondando il mensile paterno, mi permisero "alcune evasioni goliardiche".
Evasioni e distrazioni che talvolta mi procuravano paterni e fraterni richiami, quando un calo della mia attenzione allo studio e alla osservazione del malato non sfuggiva ai vigili occhi dei Superiori. Con angoscia infinita, velata da profondi rimpianti, dopo avere conseguito nel giugno 1940, a conflitto bellico esploso, il diploma di laurea, nella tormentosa incertezza se un giorno, vicino o lontano a seconda degli eventi bellici, sarei ritornato a Padova e nello stesso Istituto, lasciai, per soddisfare gli obblighi militari, la città.
Cinque anni, da ufficiale-medico nella exJugoslavia ed in patria prima e da assistente ospedaliero - incaricato a Lecce dopo, trascorsero perché l'agognata notizia di poter riprendere il mio posto nell'Istituto di patologia medica mi pervenisse.
Rientrato a Padova molte furono le notizie che mi vennero incontro: le torture inflitte al mio Direttore e al Magnifico Rettore nel famigerato "Palazzo Giusti" per la loro non iscrizione al P.N.F., le ferite riportate dall'Aiuto durante un bombardamento aereo, il silenzio su altri colleghi, il ruolo assunto in Istituto, al posto degli assenti, da altri esenti da obblighi militari. L'ambiente cittadino ed universitario mutato, per le vicende belliche, per il rientro dei docenti a suo tempo per le leggi razziali espatriati, per il clima separatista pre-bossiano, incandescente per i "meridionali" in posti di comando o in centri di potere insediati, per le scritte murarie ed i manifesti velenosi contro "i repubblichini ed i soldati di Salò". L'avere vissuto da "sudista" quel grigio, avvilente e mortificante periodo storico, con la contemporanea e sofferta riduzione del mensile paterno, è doloroso ricordare.
Accompagnato dall'Aiuto che mai, riconoscente ed affezionato, avevo dimenticato e dal quale mai ero stato dimenticato, ebbi un paterno e chiarificatore colloquio col Direttore, al quale espressi il desiderio di continuare a far parte dei suoi collaboratori, ove non vi fossero state delle specifiche difficoltà. Senza alcun impegno da parte sua sul mio futuro, mi garantì ed ottenni l'incarico di assistente-ospedaliero.
Nel "mio" Istituto non vi furono discriminazioni o differenziati comportamenti e trattamenti, tutto il personale sanitario essendo comprensivo e solidale con chi per dovere e con abnegazione, rinunce e sacrifici, aveva assolto, volente o nolente, rischiando la vita, gli obblighi militari.
E del mio triennale periodo bellico nella exJugoslavia e nelle file del 55° Reggimento Fanteria "Marche", drammaticamente vissuto, delle inerenti vicissitudini e quotidiane sofferenze fisiche e morali, dei sacrifici, dei pericoli sempre immanenti e dell'opera professionale, estesa (per ordine del Comando divisionale) anche alla popolazione civile, con alto senso di umanità espletato, preferisco tacere.
Di due soli episodi, perché entrambi a lieto fine, in recenti articoli ho fatto menzione, ma tanti altri rimangono incancellabili. Titolai il primo "Quella notte sul ponte col Commissario del Popolo" ed il secondo "Uno strano scherzo del destino", editi rispettivamente su Espresso-Sud (aprile 1994) e su Apulia (II-1994).
I doveri per una perfetta funzionalità del reparto e l'impegno gratificante di lavorare in un Istituto altamente qualificato e stimato mi infusero una forza reattiva, quasi a voler neutralizzare quanto su di noi "sudisti" all'esterno veniva propalato e propagandato.
Trascorsero due anni di intensa attività e di affinamento teorico-pratico e scientifico che sfociarono nel conseguimento di due specializzazioni e nella pubblicazione (in collaborazione con A. Barasciutti) dei miei primi due lavori, uno sperimentale e l'altro clinico-statistico.
Furono poi motivi economico-famigliari, l'addensarsi di nubi sul nostro incerto futuro e l'accentuarsi della tensione antimeridionalistica ad indurre me e molti altri colleghi del Sud a rientrare nei paesi di origine, con una irrimarginabile ferita nel cuore.
L'addio, dolorosissimo, fu per me attenuato dai personali rapporti affettivi che ai miei Maestri continuarono a legarmi.
Ebbe così inizio la mia nuova attività professionale con l'incarico di aiuto-medico nell'Ospedale Civile di Lecce.
La Divisione di Medicina era diretta da un valoroso quanto schivo e socratico patologo-medico (prof. A. Montanari), scopritore del cateterismo cardiaco, eseguito sul cadavere, nel 1928, a Firenze.
La mia poliedrica attività nell'assistenza ai malati, ai servizi di laboratorio, alla didattica per gli assistenti volontari e agli studenti in Medicina (durante le vacanze estive) ed una incipiente attività libero-professionale mi tenevano diuturnamente impegnato. Ma i semi di tanta fatica, germogliando, mi portarono, nel gennaio 1955, a Primario medico dell'Ospedale Civile di Gallipoli. E in quell'Ospedale profusi per undici anni le mie migliori energie, lasciando agli eredi (agosto 1965) un reparto di medicina generale all'avanguardia, come da lusinghieri giudizi delle Autorità sanitarie, civili e religiose e, soprattutto, dei Clinici che ebbero occasione di visitarlo. In quel lasso di tempo altre due specializzazioni e la libera docenza in "Malattie Infettive" arricchirono il mio bagaglio tecnico e corredo scientifico.
Nell'agosto 1965, il desiderato ritorno a Lecce nella qualità di Direttore Sanitario. Nella allocuzione al Corpo Sanitario, all'atto dell'insediamento, promisi che ogni mio sforzo, in collaborazione con il Collegio dei Primari e dell'Amministrazione, sarebbe stato teso a promuovere un potenziamento, un miglioramento ed una ulteriore classificazione del nosocomio.
Il programma tracciato fu nei punti salienti e nei problemi basilari e prioritari in massima parte realizzato, nei quattro anni che quel ruolo ebbi a ricoprire.
Del periodo direttivo, non per vanagloria ma per una storica e non distorta verità, voglio rivelare e rilevare che la intuizione e la proposta della realizzazione del nuovo Ospedale "Vito Fazzi" è da attribuirsi all'azione decisa e concorde del Collegio dei Primari, che condivise la mia motivata e dettagliata relazione, secondo la quale la ristrutturazione del vecchio non avrebbe mai potuto, razionalmente, funzionalmente e logisticamente soddisfare le esigenze presenti e future del capoluogo e della provincia e che pertanto era indispensabile ed inderogabile la costruzione del nuovo, in un'ampia e più idonea area topografica.
In perfetta sintonia col saggio e conforme parere dell'avv. Maurizio Fumarola Mauro, presidente dell'Ente, e con la fattiva indefessa collaborazione del prefetto dott. Marchegiani, il progetto prese avvio (vedi intervista al Direttore Sanitario su Il Tempo dell'11 dicembre 1965, pag. 13).
E fu per me gioia immensa assistere, tre anni dopo, alla posa della prima pietra, su cui èinciso anche il mio nome.
La nostalgia della Clinica ebbe poi sul tecnico-burocrate (direttore sanitario) di nuovo il sopravvento, inducendomi a concorrere al successo di Primario della istituenda (come da legge) Divisione Malattie Infettive.
Rientrato nei ranghi della Medicina applicativa, per altri undici anni profusi le mie residue energie nella creazione e conduzione del reparto. Con la collaborazione di un ideale team di collaboratori (personale medico, paramedico ed esecutivo) importanti traguardi e riconoscimenti lusinghieri, da più parti provenienti, furono conseguiti.
Due di quei collaboratori sono oggi Primari, rispettivamente dello stesso Ospedale e di quello di Galatina.
L'accorato saluto di ringraziamento e di addio, nel dicembre 1978, a tutto il personale rivolto, mi consentì di dire: "lascio, dopo 42 anni, le corsie ospedaliere che da allievo-interno cominciai a frequentare nel 1937, a Padova, con lo stesso spirito di allora ma col rammarico delle inquietudini di oggi e col timore di un oscurantismo della Medicina applicativa di domani".
Pessimistico vaticinio, tragicamente verificatosi coprendoci di vergogna!
Ripresi, nel 1979, l'attività libero-professionale che tuttora saltuariamente mi occupa, inframmezzata da quella pubblicistica sempre su temi e problemi del nostro mestiere.
Le riflessioni coprono un arco di tempo che va dai primordi della mia attività professionale, quando l'assistenza sanitaria comunale era quasi esclusivamente svolta dai medici-condotti (eufemisticamente definiti, per il ruolo anche di amici confidenti e consiglieri dei pazienti, "medici di famiglia", ai giorni nostri.
Leggi e disposizioni sensate, specie dopo l'istituzione degli "elenchi dei poveri", garantivano un efficiente e soddisfacente servizio sanitario. Non so se per spinte sindacali, per insipienza delle autorità alla Sanità Pubblica preposte o nella loro leale convinzione dei vantaggi di una medicina specializzata, fu legiferata nel secondo dopoguerra la prima Riforma con la istituzione dell'INAM e l'assegnazione a ciascun medico di un elasticissimo numero di assistiti, in alcuni casi, oltre ogni logico criterio tecnico e valutazione temporale, fino a 5.000/6.000 pro capite.
Le proteste e lo scontento non tardarono a farsi sentire ed i disservizi, del resto previsti, ad essere denunciati.
Era una assistenza, ammantata di significato sociale, che privava il malato della sua individualità e del segreto dei suoi mali. Questi era considerato non più unità somato-psichica, ma una entità numerica ed economica, non in funzione delle sofferenze ma della sua incapacità - temporanea o permanente - a produrre, mentre il medico veniva giudicato ed apprezzato non in rapporto alla qualità ma alla quantità del lavoro espletato.
Nel tentativo di rimediarvi nacque la Controriforma con la istituzione del SSN, delle ancellari USL con i "medici di base"; la loro gestione anziché a manager o tecnici qualificati, con criterio lottizzatorio, fu ad inesperti ed improvvisati esponenti politici affidata.
Ma il degrado della Medicina è riportabile anche ad altre cause: vediamone alcune.
La pletora medica, che nel nostro ha superato ogni limite in confronto con gli indici dei Paesi continentali ed extracontinentali, fu ed è in preminente misura riportabile alla indiscriminata ed illimitata immatricolazione di tutti i neo-diplomati, solo in alcuni atenei dal "numero chiuso" contenuta.
La conseguente scarsa ed incontrollata frequenza alle lezioni e alle esercitazioni; il non aggiornamento dei programmi e delle materie di studio, la non eliminazione di quelle estranee ai fini professionali, e la non introduzione di altre più consone alla formazione psico-etico-deontologica del nuovo medico. L'alta percentuale degli studenti fuori-corso (40 per cento); l'abolizione del tirocinio pratico semestrale e dell'esame di Stato fuori dalla propria sede universitaria, i voti e le lauree politici, il previsto ma abbozzato aggiornamento pratico dei neo-laureati e dei "medici di base", in una con la inadeguatezza delle strutture universitarie ed ospedaliere, la povertà di apparecchi ed attrezzature e di laboratori sono altri fattori che per la crisi della Medicina hanno concorso.
Di altre cause mi sembra opportuno, sia pur brevemente, parlare, senza essere aprioristico apologeta per avere ricoperto, per oltre cinquant'anni, il ruolo di "internista".
La Medicina interna, secondo novelle Cassandre, starebbe andando incontro ad una lenta agonia e a morte certa, perché il progresso tecnologico da una parte e il pluralismo specialistico dall'altra, soffocandola, ne annullerebbero l'utilità e la vecchia dignità.
No! Il ruolo della medicina interna è e rimarrà prioritario.
Scrisse molti anni fa Alexis Carrel (1873-1944): "L'avvenire della Medicina è subordinato al concetto dell'uomo. La sua grandezza dipende dalla ricchezza di questo concetto. Anziché limitare l'uomo a certi suoi aspetti, deve abbracciarlo tutto quanto, cogliendo il corpo e lo spirito nella unità della loro realtà".
E Cesare Frugoni, nella allocuzione al 55° Congresso della Società Italiana di Medicina Interna, così espresse il suo pensiero: "... quando il paziente è passato da una ricerca all'altra e da un reparto specialistico all'altro che ne è della sua psiche?", ed aggiunse: "la ricerca anonima in genere poco considera ciò e lo specialista (più facilmente tratto a concentrarsi in un esame preminentemente parziale) è più esposto a perdere di vista il complesso psicofisico del malato. Ma quando ciò avvenga, non si fa certo della sana medicina, perché ogni medico deve considerare indissolubili nel suo malato spirito e materia".
Più recentemente G. Maragnon, insigne clinico spagnolo, ha scritto: "L'evoluzione della Medicina rivela ed accentua il lato paradossale per cui, a mano a mano che la necessità della specializzazione si fa più manifesta ed efficace, si rende contemporaneamente più sentita la necessità che ogni medico ed ogni specialista abbiano una base di orientamento eclettico, generale, che raggiunga tutti i rami della nostra arte".
Accennando poi ai progressi laboratoristico-tecnologici, sempre più sofisticati, lo stesso Frugoni, nella stessa circostanza, ebbe a puntualizzare: " ... sarebbe imperdonabile cecità il non riconoscere gli immensi benefici, le realizzazioni delle determinazioni analitiche delle varie ricerche, essendo innegabile che con ciò molti problemi diagnostici possono essere rapidamente risolti", ma completò il pensiero asserendo: " ... ma discutibile ed illogica è la metodica mentale che procede allo studio analitico, sistematicamente eseguito quale premessa all'esame clinico, come se il medico dovesse attendere la diagnosi dalle indagini anziché dallo studio del malato. Pericoloso errore concettuale questo, perché il risultato di una ricerca non sarà mai di per sé una diagnosi".
Accennando alla bioingegneria (campo minatissimo), farò mie anche alcune considerazioni da altri espresse.
Premesso che sorprendenti inimmaginabili sono da ritenersi i risultati da essa conseguiti e, soprattutto, conseguibili, non vorrei che si pensasse che tutto ciò che è frutto di sofisticatissime ricerche sia sempre e solo positivo; perché esse possono anche indurre a manipolazioni tali da forzare in negativo i misteri della natura.
Se Giovanni Paolo II, parlando all'Accademia delle Scienze, ha invitato gli scienziati ad "abbandonare i laboratori di morte per salvaguardare il rapporto armonioso tra l'uomo e la natura contro le alterazioni violente che lo degradano", mi sento di condividere appieno il pensiero di R. Garaudy: "... si pensa oggi allo sviluppo scientifico e tecnico in cui l'uomo è diventato il mezzo anziché il fine".
Se da una parte il premio Nobel Rita Levi Montalcini ammonisce che "non tutto ciò che si può fare si deve fare", dall'altra le fa eco, più drammaticamente, F. Introna con lo slogan: "si ha timore della bomba atomica ma non ci si rende conto della bomba biologica". Riferendosi, verosimilmente, alla ingegneria cellulare e cromosomica. In un precedente articolo ebbi a scrivere: "Anche in questo settore della bioetica la morale, la legge, la personalità e la dignità dell'uomo (compreso l'embrione ed il feto) devono prevalere sui lusinghieri e lungimiranti traguardi della ricerca biotecnica in generale e della ingegneria genetica in particolare, perché il rapporto costi/benefici e rischi/benefici non siano in negativo" (Quaderni de Il Leccio - 1990).
Non rientrando nel tema in discussione le problematiche degli esperimenti sull'uomo ed i trapianti d'organo, dell'accanimento terapeutico e della eutanasia, di cui in precedenti articoli mi sono ampiamente interessato, passo allo sconvolgente argomento di "Tangentopoli", che tanto ha scosso e traumatizzato l'opinione pubblica. E' il "punctum dolens" delle mie riflessioni.
Anche se amplificati e in taluni casi enfatizzati recenti e meno recenti episodi (ultimo dei quali il commercio del sangue ed emoderivati), una cosa appare certa: non vi sarebbe stato e non vi sarebbe settore della sanità pubblica che "Tangentopoli" non abbia inquinato. Inverosimile ed angosciante è la constatazione che il peccato originale e capitale è stato di chi non è alla base bensì ai vertici della piramide gerarchica (come alcuni suicidi, custodie cautelari ed arresti domiciliari avallano).
Legittima è una domanda: se i maestri, i clinici, i primari, i docenti, i dirigenti (cui è demandato il compito, col loro magistero ed il loro esempio, di educare psico-etico-deontologicamente, sulla guida del giuramento di Ippocrate e delle norme del Codice Deontologico, gli allievi ed i neofiti) hanno avuto ed hanno così poco rispetto della propria personalità e dignità, cosa non aspettarsi dai discepoli?
In un articolo su Voce del Sud (4 settembre 1993), a commento di quanto prima, ebbi a scrivere: "in quest'ora di legittima angoscia viene da chiedersi cosa penserebbero e come giudicherebbero i loro epigoni inquisiti quei clinici del recente o non lontano passato (i Murri, i Baccelli, i Cardarelli, i Frugoni, i Villa, i Condorelli, i Chini, ecc.), maestri di scienza medica, probi ed austeri, profondamente rispettosi della propria personalità e dignità, qualora il miracolo della resurrezione di Lazzaro dovesse per essi ripetersi?". Conclusi: "per fortuna e per legge biologica il loro sonno non sarà turbato".
La "auri sacra fames" di virgiliana memoria ha stimolato l'appetibilità pecuniaria di tanti di noi, sì da annullarci ogni freno inibitore, autocontrollo ed autocritica, spersonalizzandoci.
Agli operatori della Sanità Pubblica, collusi, corrotti o corruttori (qualora tali dovessero essere riconosciuti e condannati), il suggerimento che possano, almeno in carcere o agli arresti domiciliari o in latitanza, sulla essenza e significato della massima di Seneca meditare: "Non damnatio sed causa hominem turpem facit".
Come è triste, ad ottanta anni e dopo cinquantacinque di carriera, andarsene con le lacrime agli occhi ed una irrimarginabile ferita nel cuore!


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000