§ NARRATORI DI FRONTIERA

L'AGO NEL CERVELLO




Cicerone Cernègura



L'ago è vero che ce l'aveva, ma l'uomo che lo accusava di detenzione abusiva di tale minuscolo e utilissimo arnese non l'avrebbe potuto sapere se qualcuno non gliel'avesse detto.
Il giovane lo custodiva religiosamente, gelosamente.
Un ago, in carcere, vale una fortuna, è un immenso tesoro; serve a mille e una cosa, alle più impensabili cose.
L'aveva caro come la pupilla dell'occhio e, di conseguenza, lo teneva nascosto bene. Aveva trovato per lui un nascondiglio sicuro, rendendolo irreperibile.
Non era una sua scoperta, per dirla in breve: il metodo l'aveva imparato anche lui dagli altri. Un metodo vecchio da che mondo è mondo e, di conseguenza, conosciutissimo, diventato ormai tradizionale, ma rimasto, comunque, infallibile a tutt'oggi: quello, per l'appunto, di conservare un ago sotto la propria epidermide. Infallibile lo stesso anche se ormai noto notissimo, perché pur guardando con la massima attenzione, il posto prescelto per nasconderlo sotto la pelle non lo si può mai individuare.
Beh, vivere con un ago addosso non è una cosa molto comoda, si capisce. Lo si deve togliere di tanto in tanto e, più esattamente, lo si deve rimuovere a seconda delle circostanze.
Lui lo spostava sempre, togliendolo dalla giacca e infilandolo sotto la pelle e, poi, tirandolo fuori dalla pelle e ficcandolo nella giacca.
Quello che l'aveva tradito era stato "Dente di Cavallo", capo detronizzato dei ladri, che aveva deriso una volta, strada facendo, in treno, davanti a tutti.
Era venuto, quindi, il momento idoneo alla sua vendetta.
Non sapeva che il giovane teneva nascosto un ago sotto la pelle perché questo gli spostamenti li faceva con una cura del tutto particolare, invece Dente di Cavallo la denuncia l'aveva fatta lo stesso, proprio perché la verità o la falsità di una denuncia del genere non la si poteva accertare.
Così, dopo un controllo senza esito positivo ma che, tuttavia, neanche poteva allontanare del tutto i sospetti nei suoi riguardi, venne sistemato in cella di segregazione, per ordine del comandante, non appena scaricati dal cellulare.
Vi era arrivato, insieme ad altri quattrocento detenuti destinati ad espiare le loro pene fra i muri della spaventosa prigione transilvana. Avevano attraversato il cortile, le catene ai piedi, trascinandole sul selciato. Un rumore indescrivibile, che probabilmente si sentiva in tutta la città e crebbe fino a diventare assordante sotto l'incalzare delle guardie: "Dài, dài, detenuto, dài!"... Quella danza da incubo, che fa impazzire; le orecchie che stavano per scoppiare; l'aria circostante che tremava; la sensazione che il cervello fosse un piatto di gelatina; i denti che battevano forte diffondendo le vibrazioni in tutto il corpo; e la luce accecante dell'immensa sala dei "ricevimenti", con al centro la statua del comandante; e i suoi auguri di benvenuto, il solito disco: "Sono fiero di avervi conosciuto e spero di poter ospitarvi come si deve".
E, ai secondini: "Prendete gli asini e portateli nelle stanze che abbiamo appositamente preparato. (Gli "asini" erano i recidivi del passaggio clandestino della frontiera). Prendete i bufali neri e portateli nelle loro stanze. E trattateli come si meritano; voglio che stiano bene, mi raccomando (I "bufali neri erano i preti). Prendete, per favore, i lord, e fategli ugualmente gli onori di casa. (I "lord" erano gli odiatissimi intellettuali)... Avrebbe qualcuno di voi - disse, rivolgendoci nuovamente la parola - qualcosa da dichiarare prima di accomiatarci per stasera?... Nessuno ha niente di proibito addosso? Una lametta, un chiodo, un ago, uno spago, un pezzo di carta, una penna? Va bene, ogni ago ed ogni penna indurisce la pena! Non lo dimenticate, mi raccomando! Ve lo dice come un padre il gestore della vostra nuova dimora".
Era stata proprio questa l'occasione migliore perché il capo detronizzato dei ladri si prendesse la rivincita e non se la lasciò sfuggire di mano. Non è che con questo abbia recuperato qualcosa del suo prestigio perduto negli scontri avvenuti sul cellulare tra i "politici" e i detenuti comuni, no. Anzi, tale vile vendetta lo fece crollare ancora di più. Ma con la mente posseduta in quel momento dal desiderio di vendicarsi ad ogni costo, egli non voleva altro che colpire chi l'aveva ridicolizzato.
"Puoi vestirti", disse il comandante, finita senza alcun risultato la rigorosa perquisizione. "Ma, ecco, se tu mi dici dove hai nascosto lo spillo, nulla ti faccio di male. Te lo prometto. Parola d'onore di comandante".
"Non m'interessa la sua parola di comandante", rispose il giovane. "Se mi potesse dare la sua parola di uomo, sarebbe un'altra cosa, ma siccome lei non è un uomo ma solo un comandante, questo - certamente - non è possibile".
"Portatelo via! E subito", gridò quell'altro sbuffando dalla rabbia per essere stato affrontato così.
La cella di segregazione era fredda e buia come una grotta. Vi rimase per ottanta giorni, le catene ai piedi, ogni movimento reso impossibile dalla grossa palla del forzato. Ottanta giorni in cui gli avevano portato da mangiare una ventina di volte, non di più.
Ingannava la fame con la malta dell'intonacatura, che staccava a pezzettini dalla parete servendosi del suo bravo arnese, che dopo faceva nuovamente sparire nel suo nascondiglio sotto la pelle.
"Eh, me lo dai?"
Il comandante veniva ogni sei giorni a chiederglielo.
"Se ce l'avessi..."
"Eh, va bene, se non ce l'hai, che si può fare? Aspettiamo. Pazientemente".
"Ma non ce l'ho, signor comandante, ma non ce l'ho. Se non ce l'ho, come glielo potrei dare?"
"Certo che non me lo puoi dare se non ce l'hai. Sta' tranquillo, ragazzo mio! Se non ce l'hai, non te lo chiede nessuno, per carità. Noi aspettiamo. Quando ce l'avrai, me lo dirai, io te lo chiederò e tu me lo darai; va bene? Certo che va bene. lo non ho fretta. Aspetto. Pazientemente. Forse la prossima volta ce l'avrai. E, se ce l'avrai, faremo così come ti stavo dicendo: tu me lo dirai, io te lo chiederò e me lo darai... va bene?"
Dio, che caldo sentiva! Un caldo d'inferno che gli nasceva dentro, nelle viscere. "Va bene?", ripeteva il satrapo.
"Va bene, ma se io non ce l'ho, che devo fare? Lo devo inventare? Come lo potrei inventare?"
"No, no, intendiamoci bene, per carità: solo se un giorno... ce l'avrai! Perché se non ce l'avrai, nessuno te lo potrà chiedere. Sarebbe illogico. Invece, se ce l'avrai, tutto diventerà molto semplice: e, cioè, tu me lo dirai, io te lo chiederò ... "
"Ma siete pazzi? Non lo si può inventare, un ago!", gridava, con quel calore salito ormai alle tempie. "Non lo si può inventare!"
"Inventare, no! Chi te l'ha detto, ragazzo mio? Non esageriamo! Oh, Dio mio, ma chi ti dice che lo dovresti inventare? Non fraintendermi, per carità! Nooo ... ! Solo se ce l'avrai, amico mio, solo se ce l'avrai. Altrimenti, pazienza, c'è poco da fare. Aspetteremo. lo, comunque, non ho fretta. Aspetteremo fino a che ce l'avrai. E, quando ce l'avrai ... "
"No, io non lo posso inventare! Nooo... io non lo posso inventare!! Nooo, io non lo posso inventare!!!"
Sentiva gli occhi schizzare dalle orbite e, a questo punto, gridava con gli occhi e non vedeva più nulla.
"Non si può inventare, nooo!"
Gridava con gli occhi usciti dalle orbite, incendiati, e non vedeva più il comandante del carcere. Questi non c'era più nella cella, ma anche se ci fosse stato ancora, non l'avrebbe più visto. Quel maledetto calore gli si era spostato dalle tempie agli occhi, che aveva invaso di rosso, e davanti gli era calato di colpo un sipario nero impenetrabile. Sentiva solamente le proprie grida ed il cervello, che funzionava ancora e avvertiva il malore che stava per sopraffarlo, dirigeva la sua mano verso il nascondiglio dell'ago amico. Lo tirava fuori, discretamente, e si pungeva con quello il polpaccio destro, attraverso la tela ruvida dei pantaloni.
Il dolore che si procurava con queste punture lo svegliava e l'orizzonte grigio della cella si rischiarava di nuovo davanti ai suoi occhi.
Aperti gli occhi, vide il lungo ago che gli attraversava la pelle. "E' stato lui a svegliarmi", pensò. E preferì aspettarne l'effetto, per cui riabbassò subito le palpebre.
Ma la puntura sembrava non finire mai più.
Strano: egli non aveva l'abitudine di tenere l'ago così a lungo ficcato nel polpaccio.
Infatti. Stavolta, non era neanche ficcato nel polpaccio! Qualcosa gli teneva il braccio destro immobile e l'ago era ficcato nella vena. E non era lui a praticare la puntura. Aperti nuovamente gli occhi, fu colpito innanzitutto dal bianco che inondava la cella. No, non la cella. Non si trovava nella cella grigia. Questa in cui si era svegliato adesso era una stanza più grande, quasi la corsia d'un ospedale. Non proprio d'un ospedale, ma comunque... le pareti bianche, qualche letto, lenzuola bianche, più luce attraverso i finestrini. Più grandicelli anche i finestrini, ma con le solite inferriate: si trovava, quindi, nell'infermeria del carcere, e capì che per lui, a un certo punto, le cose erano andate male e che avevano dovuto, per forza, portarlo qui. Non era il suo ago quello che ora gli penetrava il braccio. Questo era un ago lungo, attaccato a un tubo trasparente di gomma, che gli stillava continuamente nelle vene un siero incolore da un recipiente sospeso in alto, sopra il letto.
"Ma, il mio ago? Dov'è il mio ... ?", si domandò.
Questo, purtroppo, non si poteva sapere, non si poteva domandare, non si poteva verificare.
Probabilmente, per scongiurare il pericolo che con un gesto inconscio avesse potuto togliere il cordone dell'impianto, gli infermieri gli avevano immobilizzato la mano sinistra, e così, questa non poteva più partire in cerca sul proprio corpo per "vedere" se l'ago si trovasse ancora al suo posto o no. E tale impossibilità lo tormentava.
Quando, più tardi, lo slegarono ed ebbe l'opportunità di compiere le tante desiderate indagini, non lo trovò. L'ago non c'era più nel suo nascondiglio.
Sospettò soprattutto il medico, che l'aveva curato e che, non appena riaperto gli occhi, si era avvicinato con i suoi consigli di essere più cauto al cospetto dei carcerieri.
Infatti, proprio perché aveva avuto il coraggio di dargli tali consigli lo sospettò. "Sto male, dottore?"
"Non più", gli aveva risposto. "Il male è passato. Ma affrontare questi qua un po' meno forse sarebbe meglio. Cosa ti posso dire di più?"
Chissà come l'avrà guardato in quel momento, perché egli disse: "Non ti affrettare a sputarmi in faccia!"
Gli si era chinato sopra e gli parlava a voce bassa, appena appena percettibile.
"Non ti ho detto di ubbidire e di leccar loro i piedi. No, questo no. Guardami bene: sono un detenuto anch'io; con il vantaggio, nei confronti di voi altri, che essendo un medico, mi fanno lavorare qui, in infermeria, senza dovermi pagare anche uno stipendio. Ma, altrimenti, fra me e te non c'è differenza alcuna. Sono un detenuto politico e basta. Li odio anch'io, puoi immaginartelo. E se non ho paura di parlarti apertamente, è perché ho visto quanto hai preferito soffrire per non piegarti".
Il giovane sorrise.
"Sorridi e capisco che cosa pensi e, per l'appunto, come si possono conciliare l'odio con il fare cauto e moderato. E' vero?... E' vero!", rispose lo stesso medico al posto del suo interlocutore. "Eh, va bene, è molto difficile, lo so, ma non del tutto impossibile. A te sembra impossibile perché sei ancora troppo giovane. Ma se continuerai così, finiranno per ammazzarti".
"Non ho paura di morire, dottore!" Il medico sorrise benevolmente.
"Ma, scusami, la morte a che ti serve? Per non dare loro soddisfazione, vero? E' vero, non dirmi che non è così. Però... la vita ti può essere più utile della morte: proprio per poter continuare a combattere. Capito? Dobbiamo anche uscire da qui. E' per questo che ti consiglio di essere più cauto, più saggio. Con un po' di diplomazia, sai, si possono fare tante cose. Beh, la diplomazia non è mai troppa. E, così, utilizzata bene, la vita ti può essere più proficua della morte. Questo non lo devi dimenticare! D'accordo?"
Non rispose.
Non disse nulla: né sì né no. Erano molto belle le parole che il medico gli aveva detto. E non prive di saggezza, senz'altro. Ma chi si può fidare, in carcere, di uno che ti parla per la prima volta e con tanta, troppa disinvoltura? Sarebbe un'imperdonabile imprudenza. Ciascuno deve essere cauto a modo suo.
Perciò, lasciò il silenzio a risolvere il problema. Non disse nulla: né sì né no. Non gli rispose, puro e semplice.
Poi, venne il momento di essere slegato. Gli tolsero l'impianto, che probabilmente aveva compiuto ormai la sua missione. Le mani corsero frettolosamente sotto la coperta, in cerca dell'ago. Ma non lo trovarono. Il nascondiglio nella pelle era vuoto.
"Come l'avrò perduto?", si domandò. "Chi l'avrà trovato? Chi me l'avrà portato via? Chi?"
Tutte domande destinate a rimanere senza risposta, perché non avrebbe potuto farle a nessuno.
A chi avrebbe potuto chiederlo? Al medico?
L'avrà preso lui?
Se l'avrà preso lui, può anche darsi che l'abbia fatto con le migliori intenzioni. Ma... se lui, nonostante le belle parole, fosse stato una spia del comandante, rivolgendogli tale domanda, sarebbe caduto tutto ciò che fino a quel momento aveva negato, e cioè la stessa esistenza dell'ago.
Venne un secondino a prenderlo in consegna e a portarlo in cella.
Si alzò lentamente dal letto, cambiò il camicione di tela ruvida ma, comunque, bianca, con i pantaloni e la giacca di tela rigata, guardò con un pizzico di nostalgia le lenzuola, ruvide anch'esse ma, comunque, bianche, e si avviò verso l'uscita con il secondino alle calcagna.
Arrivato alla porta, si fermò un attimo cercando il medico con lo sguardo, e disse a voce alta: "Grazie, dottore!"
Questi non gli rispose subito. Poi, domandò: "Grazie di che?"
Tale domanda lo colse di sorpresa. Non se la sarebbe aspettata. Non seppe che cosa rispondere e uscì.
"Grazie di che?" gli aveva detto.
Non poté staccare il pensiero da questa domanda mentre, con il soldato alle calcagna, attraversava il cortile del carcere e, dopo, i lunghi corridoi del pianoterra, le scalette di ferro che portavano al primo piano, quelle che portavano al secondo e, finalmente, il risonante ponte di ferro che, come una cintura interna, passava davanti alle celle, permettendone l'accesso.
Le suole di legno dei suoi zoccoli e i pesanti stivali del guardiano facevano sì che l'eco impazzisse in tutto il fabbricato. E con la loro eco si mescolavano, nelle sue orecchie, le botte e le risposte di un presumibile dialogo con il medico: Grazie di che? Grazie per le cure! Per che altro si può ringraziare un medico se non innanzitutto per le buone cure? Allora, perché la domanda?... Alcuni, soprattutto fra i medici, i ringraziamenti non li vogliono, essendo questo di curare la gente un loro dovere e basta.
"Grazie di che? Per averti fatto guarire? Ma che altro avrei dovuto fare? Lasciarti morire? Non è questo il mio mestiere, scusa. Non devi ringraziarmi, per carità".
Così avrà ragionato, probabilmente, il medico-detenuto che l'aveva curato. Può darsi. Ma può anche darsi che lui abbia pensato diversamente: "Grazie per quale cosa? Non ringraziarmi per le cure che ti ho prestato!"
Allora, per ... altre cose, sì? Voleva intendere forse che per altre cose i ringraziamenti li avrebbe accettati? Beh, lui gli aveva dato anche buoni consigli, niente da dire...
O, forse, voleva che lo ringraziasse per... l'ago? Sarà stato veramente lui a trovarlo e a farlo sparire per scongiurare ogni possibilità che questo capitasse in mano a chi non l'avrebbe dovuto trovare? e, sapendo che gli aveva fatto questo gran bene...
Grazie di che? Grazie di che? Grazie di che? Grazie di che?
La sparizione dell'ago gli si era ficcata nel cervello come un ago, che sentiva sprofondare sempre di più, ad ogni passo che i suoi zoccoli battevano sul risonante ponte di ferro che fiancheggiava le celle del secondo piano, verso l'interno della fortezza.
"Fermo!", gli ordinò il guardiano.
Erano arrivati davanti al N. 240. La porta si aprì e si chiuse alle sue spalle. Qui, conosceva tutti. Erano venuti insieme a lui ottantatré giorni prima.
"Sei vivo?", domandarono tutti, con evidente stupore.
Non avevano saputo più nulla di lui.
Erano passati quasi tre mesi dal loro arrivo ad Aiud e, in tutto questo tempo, egli nemmeno per un giorno era rimasto con i compagni di viaggio.
Ricordavano l'incidente con il comandante, avvenuto proprio la sera dell'arrivo, a causa della vile denuncia del "Dente di Cavallo", la perquisizione corporale fatta di fronte a tutti, anche alle donne-agenti e alle donne delle pulizie, che pur essendosi conclusa senza esito positivo aveva dato ugualmente al direttore del carcere la possibilità di prendere un severo provvedimento nei suoi confronti.
Ma di che provvedimento appunto si trattava, com'erano andate concretamente le cose e come si era conclusa la faccenda, non si era saputo, poi, nulla.
"Portatelo via. E subito"...
Queste le parole del direttore, che tutti ricordavano bene. Ricordavano bene anche la cosa che aveva fatto scattare quell'eccesso di rabbia, e cioè le parole con cui il giovane aveva affrontato il comandante del lager, contestandogli la "qualità di uomo".
Ma che cosa in concreto aveva ordinato il satrapo con quel suo "Portatelo via!" era rimasto, per loro, un mistero. Avevano pensato, più di ogni altra cosa, a un ordine di punizione barbara, con calci e pugni e mazzate, in una stanza destinata apposta a macelli di questo genere, con impianto d'acqua e canale di scarico per il lavaggio del sangue sul pavimento e sulle pareti, dove si può riprendere tutto da capo con lo stesso o con un altro soggetto, come se nulla fosse accaduto, e dove, ovviamente, si può morire e tornare in vita venti volte di seguito, o anche morire per non tornare mai più.
E, siccome dopo due giorni, che sono anche troppi, egli non si era fatto più vivo, non avevano escluso neanche la possibilità che le rabbiose grida del comandante lo avessero portato all'arresto di rigore. Cioè, in una cella di segregazione. Ma i giorni erano passati l'uno dopo l'altro, un mese, due mesi... e, siccome due mesi non sono mica pochi per la resistenza di un individuo sottoposto a condizioni di segregazione che loro conoscevano fin troppo bene... cosa potevano pensare?
Invece era stato proprio così.
Lo videro ora, con meraviglia, tornare vivo fra di loro dopo quasi tre mesi di cella di segregazione. Per esattezza, ottantatré giorni, dei quali ottanta in cella e gli ultimi in infermeria.
"Sei vivo?", ripeterono.
"Non so esattamente, amici, ma a me sembra di sì". Uno di loro sorrise.
"Vedo, ragazzo mio, che nonostante tutto, non ti sei mica lasciato perdere d'animo, e questo mi piace. Sei forte, sei bravo".
Poi, dopo un po' di indecisione (glielo domando o no?): "Ma, dimmi un po', quell'ago ... "
Il giovane ebbe un involontario, sussulto. "L'ago, voglio dire, ce l'avevi davvero?"
Le sue labbra si aprirono in un sorriso, cominciarono a muoversi. Stava per dire che ce l'aveva davvero e che... Mah!... Guardò tutti a lungo uno per uno, tornando con lo sguardo dall'uno all'altro, e disse: "No, magari ce l'avessi avuto!"
Un altro compagno di cella gli cercò gli occhi con i suoi, aspettando un po' in silenzio e, poi, disse: "Allora hai patito tutto quello che hai patito solo così, gratuitamente, povero te, ho capito".
Gli prese la mano fra le sue, mentre un altro, un sacerdote, un "bufalo nero", inginocchiandosi accanto al muro, cominciò a pregare per lui.
Prima di mettersi in ginocchio, aveva fatto un cenno con la mano avvertendo gli altri della sua intenzione, e loro si erano spostati in modo di impedire al guardiano di vederlo attraverso la spia.
Eppure questi lo vide.
"Smettila, bufalo, con il tuo dio!", gridò. "Tanto è inutile spendere la preghiera: il tuo dio non c'è, non è mai esistito".
"Ma, per favore", disse qualcuno, "lasciatelo fare, perché, in fondo, non fa niente di male".
"Su bufalo, su", gridò invece il guardiano. "Alzati subito se non vuoi che venga da te e ti prenda a calci".
Il giovane si avvicinò, prendendo il prete per il braccio. "Si alzi, padre!", gli disse.
Ma questi non volle ubbidire. Non disse nulla, contraendo solamente i muscoli in un rifiuto testardo.
"Si alzi, padre", ripeté il giovane a voce bassa. "Io la ringrazio lo stesso della preghiera che voleva pronunciare per me, ma adesso basta, è meglio che si alzi. Con questa gentaglia non si scherza. Se lei continua così, finiranno per ammazzarla".
Il sacerdote rispose molto tardi, dopo un lungo silenzio che si era interposto fra loro dopo il passare dell'incidente e l'allontanarsi del carceriere.
"Non ho paura di morire, figliolo".
Il giovane fu colpito nel sentirlo parlargli con le sue stesse parole e si sentì, con altrettanta meraviglia, pronunciare, con inspiegabile naturalezza, parole che non erano sue:
"Ma a che le serve la morte? Come protesta estrema, lo so. Per dare loro soddisfazione, è vero? E' vero, non mi dica che non è così. Però, la vita le può essere più utile della morte".
Sentì lo sguardo degli altri posarsi su di lui come un enorme punto interrogativo. Solo adesso, rievocando l'episodio, si rese conto cosa voleva dire l'espressione: "Gli avranno lavato il cervello?"... Questo voleva dire. Ma al momento non se n'era accorto. O forse si era reso conto inconsciamente (così, senza prendere atto di essersi reso conto), perché si fermò di colpo, imbarazzato. E solo adesso capì il perché. Imbarazzato non tanto per essersi sorpreso a dare consigli di cui, pur ritenendoli saggi, non era totalmente convinto.
Seguì un altro silenzio. Ancora più lungo. Di incertezza. Di imbarazzo. Di tutte queste due cose messe insieme. E lui, senza dubbio, di tutti quelli che si trovavano nella cella, era il più triste. Il più triste di tutti. Cosa di cui qualcuno si accorse e disse: "Padre, come potremmo far divertire un po' questa povera creatura? Come potremmo distoglierlo un po' dalle sue?"
"Divertire? Eh, lui è triste e avrà le sue buone ragioni, ma prima di essere triste è molto debole. Ci vorrebbe qualcosa da mangiare prima di ogni altra cosa, per poter metterlo di buon umore. Un po' di rinforzi, intendo dire".
"Io un tozzo di pane ce l'avrei", disse un giovane alto e magro, in carcere per lo stesso reato: tentato varco clandestino della frontiera. "Ma soltanto un povero tozzo di pane ... ". "Ricco o povero che sia, è comunque un tozzo di pane", disse il sacerdote.
"Se lui lo vuole, io glielo do volentieri".
"E che, ti vergogni di darglielo? Non essere ingenuo! Lui non si aspetta da te un fagiano o una scatola di caviale, non ti preoccupare. Un tozzo di pane gli darò pure io. Che altro avrei potuto conservare? Ma sono sicuro che lui se lo mangerà volentieri. Perché quando uno ha fame, un pezzo di pane, anche indurito, vale più del miglior cibo. E' vero?"
"Sì", confermò il giovane e cominciò a masticare i pezzi neri di pane che gli piovevano da tutte le parti.
"Grazie!"
"Contento, figliolo?"
"Sono buonissimi, padre. Saporiti!", rispose ridendo e rischiando di soffocarsi a causa di una briciola che gli era andata di traverso.
Tossì e aggiunse:
"Mai assaggiato un panettone squisito come questo!" Il prete sorrise: "Ecco anche il buon umore, amici! E' già arrivato".
Lasciandosi travolgere dal gioco, il giovane guardò ammirato il pezzettino che gli era rimasto in mano e continuò a rilevarne le qualità: "Lo zucchero ce l'ha, le uova ce le ha, gli aromi ce li ha ... mano esperta, è chiaro! Ed è fatto, poi, con burro di quello buono. Si scioglie in bocca".
"E' per questo che ti è andato di traverso e ti ha fatto tossire, eh?", si divertì il ragazzo alto e magro. "Questo qua ci prende in giro, padre! Noi gli abbiamo dato questi sassi di pane che avevamo e lui ci prende in giro".
"No, per carità!", protestò il nuovo venuto; o per meglio dire, il nuovo ritornato.
"Lascialo fare, lascialo fare!", disse il sacerdote, che aveva capito come gli andava bene il gioco.
"No, ecco", continuò a giocare il giovane, incoraggiato. "C'è tutto qui dentro, non manca nulla. C'è pure l'uva passa ". E indicò con il dito un punto più scuro nel pezzo scuro di pane.
"Più passa che uva", disse divertito un altro sacerdote detenuto.
Risero tutti e altri tozzi di pane affluirono davanti al giovane. Duri da rompere i denti, ma buoni. Che buoni!
Porgendogli il suo, un avvocato gli disse: "Il panforte tu l'hai mai assaggiato?".
"No, mai!"
"Eheee ... ", fece l'avvocato, "è comprensibile: qui da noi non lo si fa: non è una specialità nostra. E' un dolce italiano. Dimmi se ti piace o no". E gli porse davanti il suo tozzo di pane. Nero. Durissimo. Acre. Insipido.
"Eheee!", fece il giovane alla fine.
"Eheee ... ?", chiese l'avvocato. "Che ne dici?" "Eheee ... ", ripeté il giovane.
"T'è piaciuto, vero?"
"Ma è una meraviglia!"
"Lo sapevo io, eheee! Tutto mandorle e cacao e canditi e miele. Non può non essere buono!"
E solo elencando gli ingredienti, l'avvocato deglutì più volte con appetito.
"M'è piaciuto un mondo", riconfermò il giovane. "Ma, scusi, lei come fa ad averlo?"
"Eh, cosa vuoi? Me lo procurano loro". E accompagnò la parola "loro" con un gesto che la rendesse più esplicita e lui non dovesse pronunciare la parola "carcerieri".
"Ah sì?"
"Sì", disse, "me lo danno loro". "E come mai?"
"Eh beh, sanno che mi piace e me lo danno tutti i giorni. Me lo portano direttamente dall'Italia, su ordinazione speciale, si capisce".
"Direttamente dall'Italia? Ma è una cosa fantastica. Non mi sembra possibile".
"Eh, per me, ragazzo mio, solo per me lo fanno. Solo per me. Me lo ordinano e me lo portano in aereo direttamente da Siena. Ma che, scherziamo?"
"Questo è un grande favore, avvocato!"
"Eh beh!", fece lui con terribile infatuazione. Si divertirono tutti di gusto.
"Ora ci vorrebbe un bicchiere di vino buono, figlio mio", disse il sacerdote, una volta spariti, l'uno dopo l'altro, nello stomaco del festeggiato, tutti i pezzi di pane che i compagni di cella avevano tirato fuori dalle loro sacche e gli avevano messo davanti. "Dopo un pranzo così... Ma siccome il vino non ce l'abbiamo, tu, figlio mio, ti dovrai accontentare solo di una ciotola di acqua. Non sarà molto fresca e la ciotola è, per dire la verità, un po' brutta ... "
"Ma come il vino non ce l'abbiamo?", si ribellò un altro. "Dagli un po' di vino, padre, non essere tirchio!"
Il prete, invece, era ormai propenso a tornare alla realtà.
"Se io avessi i poteri di Gesù", disse, "l'acqua di questa botte la trasformerei in vino, come alle nozze di Cana".
L'avvocato non era niente affatto disposto a interrompere il gioco.
Ai suoi tempi aveva fatto una vita felice, era abituato a mangiare bene, gli piaceva un bel bicchiere di vino, aveva girato molto per il mondo, era stato anche in Italia, gli piaceva raccontare, chiacchierare, scherzare.
Ora, di tutte queste cose gli era rimasto solo il ricordo ed il gusto, che aveva conservato così bene da saziarsi, solo descrivendoli i piatti coi fiocchi che aveva, una volta, mangiato e da ubriacarsi e da far ubriacare anche chi lo stava ascoltando solo parlando dei grandi vini che aveva assaggiato.
"Ma non c'è bisogno di miracoli. Il vino ce l'abbiamo. E' vero che per uno che deve recuperare le forze si sconsiglierebbe il vino rosso, e noi il rosso non ce l'abbiamo: ma c'è il bianco, ch'è abbastanza buono e gli andrà bene lo stesso, vedrete. Dagli un calice di vino, padre!" li prete guardò con clemenza la ciotola di latte, la prese in mano e la immerse nella botte. "Tieni, figliolo!"
"Ecco, bravo!", fece l'avvocato. "Altrimenti, il nostro amico avrebbe potuto pensare che siamo avari o chi sa che altra cosa del genere".
"Grazie!", disse il giovane. "Avevo proprio una grande sete". E si scolò la ciotola d'un sorso.
"Mah!", fece l'avvocato. "Questo sì che sa tracannare". "Ne vuoi un'altra?"
"Sì, padre!"
"T'è piaciuto, eh?", s'interessò l'avvocato. "Buono, ottimo!"
"Eh", fece lui, "ce ne intendiamo un po' anche noi altri. Ma, va' piano, questo è un vino che t'inganna, ragazzo mio! Non lo si beve così!"
Il giovane mandò giù un altro sorso.
"Lei ha ragione!", disse. "E' molto forte 'sto vino".
"Eh, sì! Ma non si direbbe. Quando lo vedi così incolore, che sembra acqua, completamente inoffensivo... è vero?"
"Sì, sembra essere acqua".
"E, invece, non lo è. Anzi! Ed è proprio per questo che t'inganna. Tu dici: questa è acqua!, e lo mandi giù come se fosse veramente acqua. Ma subito dopo, senti un calore di vino che t'invade ... no?"
"Sì, vero, è proprio così".
E, infatti, non lo diceva solo per gioco. Un calore gradevole si era impadronito del suo corpo. Prima, l'aveva sentito come una fiamma, giù, allo stomaco. Poi, lo sentì diffondersi in tutto il corpo, gli avvolse le tempie e le gambe diventarono pesanti come due pezzi di legno.
"Ma sai, l'effetto di questi vini incolori, a prima vista inoffensivi, è micidiale. Prendi un altro sorso, dai, ch'è buono, buonissimo".
Egli acconsentì.
"Eh, no! Guarda come si fa: si prende un sorso dal calice, ma non lo si manda subito giù, no. Sarebbe roba sprecata, un vero e proprio peccato. Il vino lo si tiene in bocca e lo si porta così... per qualche secondo e, solo dopo, lo mandi finalmente giù... Eh, che t'è rimasto in bocca?, dimmi! Tutta la forza del vino, è vero? O no?"
"Sì, ha ragione".
"La senti 'sta forza del vino nel palato?" "Sì".
"La senti sotto la lingua?"
"Sì".
"Eheee... che ti dicevo io?... Guarda che bel colore che ha! Guarda che sapore di vino!
Guarda che fragranza! La senti?"
"La senti? Rispondi!" "Mah ... ", fece il giovane. "La senti sì o no?" "Sì!" Gli girava la testa.
Il giorno successivo si svegliò con un lieve mal di testa e con una sete terribile, come dopo una grande sbornia. Spiccò lo slancio, per alzarsi, ma si fermò a metà strada, guardando qualcosa che luccicava giù, sul cemento, accanto al letto. Era il suo ago... Era il suo ago?... Si stropicciò gli occhi. Sì, era il suo ago ... o, comunque, laggiù c'era un ago. Uno della stessa dimensione, della stessa lunghezza.... uguale in tutto al suo, ma proprio uguale, uguale.
"Come stai?"
"Non c'è male, padre", rispose continuando a guardare il piccolo oggetto luccicante.
"Ieri sera hai bevuto l'acqua pensando al vino e ti sei ubriacato".
Il giovane allungò la mano nell'intento di pigliare l'ago. Ma non c'era nulla sul pavimento.
L'ago non c'era. Non c'era niente.
"No, padre", rispose, "è adesso che sono ubriaco!"
Guardò nuovamente il posto dove, qualche secondo prima, luccicava
No, non c'era nulla sul pavimento.
Non c'era nulla.


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