§ Il fulcro della nostra civiltą

Mediterraneo




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Gianna Artese
Coll.: Lelio Conversano, Franco Radice, Carla Di Maio



Quando si lascia il Bosforo per entrare nel Mar Nero, improvvise folate di vento freddo si ingolfano tra le due sponde del canale che divide l'Europa dall'Asia. E sul mare rimangono soltanto i gabbiani. L'orizzonte si apre e diventa di nuovo circolare. Ma la sensazione di estraneità al nuovo mare è moltiplicata dalla percezione di una lontananza storica, geografica, (e d'immaginazione o visione artistica), che accresce la solitudine. Adesso che ne siamo usciti, si può pensare al Mediterraneo, che è rimasto alle spalle, laggiù in fondo, dietro Bosforo, Marmara e Dardanelli, al di là della Propontide e dell'Ellesponto dei Greci. Sopra ci sono la Crimea, Yalta, Sebastopoli, Odessa, Taganrog e Kerk; a sinistra, la Romania e la Bulgaria, e cioè la Dacia, la Misia e la Tracia dei Romani; a destra, sotto il Caucaso, la Georgia, l'antica Colchide di Medea e degli Argonauti... Da qui si può misurare meglio la distanza storica del Mar Nero, che sta al Mediterraneo come un cono d'ombra sta alla lampada che l'ha prodotto. E qui è giusto riflettere, ma con il necessario distacco, sul bacino luminoso che ha irradiato la civiltà, su quella immensa discarica di storia, di imperi, di religioni, di città e di culture, nella quale pare stia marcendo l'Italia. Chi vuole può anche chiedersi dove stia andando questo Paese ricco e insensato, che fino a ieri era il nostro e che oggi non si sa neppure di chi sia, chi sia, e se sia: un Paese che rifiuta persino la sua collocazione geografica; che dimentica la sua storia; che parla lingua e dialetti neolatini ma si pretende longobardo, celtico, cartaginese e persino normanno: tutto, fuorché greco, etrusco, latino e italico, come è; un Paese che concepisce l'Europa come una fuga da se stesso, dal proprio mare e dalla propria storia; che inventa mille stratagemmi per crogiolarsi nelle sue miserie morali, e tanto più si rivela cialtrone quanto più esibisce il proprio disprezzo per la "cialtroneria mediterranea"; un Paese che ha perso la faccia proprio mentre si riempiva lo stomaco.
C'è un'essenza dei luoghi e delle nazioni" E per quale ragione dovrebbe esserci un'identità dell'Europa, se non esiste più quella dei popoli che l'hanno prodotta? Mari e oceani sono confini naturali; ma che cosa racchiudono nella loro custodia liquida e mobile? Quali affinità elettive legano l'Europa al Mediterraneo piuttosto che al Baltico, al Mar Nero, all'Atlantico? L'Europa è la somma dei suoi confini, e dunque è la somma dei suoi mari. Ma il Mar Nero, che è l'abat-jour del Mediterraneo, circoscrive un'area dove la lampada greca è arrivata assai presto ed è però rimasta fino ad oggi attenuata e come velata da una tristezza, o meglio da un affievolimento vitale che si avverte già dopo l'Istria e giunge fino alla Colchide. A loro volta il Mare del Nord e il Mar Baltico sono i pendenti nordici, ritardatari ma iperattivi del Mediterraneo e del Mar Nero e delimitano le spiagge sulle quali è emersa, in perfetta sincronia con il naufragio del mondo classico, la civiltà europea degli ultimi secoli.
L'Atlantico è diverso. E' una lastra di ambra verde e di luce; uno smisurato fondo di bottiglia, l'iperbolico specchio ustorio delle rifrazioni celesti; la grande riserva alchemica del mondo. L'Atlantico è il padre dei mari. E' l'Oceano. Laggiù l'acqua fa sul serio. E il suo morso gelato, la sua insospettata energia, non lasciano dubbi sulla fondamentale inimicizia della natura. Laggiù i flutti si formano in lontani centri geometrici, dai quali irradiano i vertiginosi algoritmi delle onde. E tutto è in rapporto con tutto. Nella lente convessa dell'Oceano non ci sono Nettuno né Tetide. Ci sono i cloruri, i sali iodati, l'ossigeno, l'idrogeno, e le leggi chimiche: l'essere, o se si preferisce, la materia. C'è un posto dove lo si può capire. In Irlanda, vicino a Hags Head, si alzano i Cliffs of Moher, un gigantesco balcone di rocce colorate a strapiombo sul mare, alte più di duecento metri, dove le onde assalgono incessantemente i nidi di infinite varietà di cieli e di nuvole. Di lì si può vedere la curvatura dell'Oceano, e inseguire, sulla lastra compatta ed elastica dell'acqua, la fuga matematica delle onde che si disperdono ai quattro venti verso tutti i punti cardinali, spingendosi infinitamente a nord e infinitamente a sud, per congelarsi ai poli e ricominciare la loro corsa dall'altra parte. Di lì è possibile tastare il polso alla scienza moderna e presagire l'America.
Il Mediterraneo ha tastato il polso più alla letteratura che alla scienza. Ha presentito solo la burocrazia bizantina e, attraverso il Mar Nero, l'Oriente. Dunque, in un certo senso, ha presagito il collettivismo e ha tenuto a battesimo i piani quinquennali e l'impero sovietico. Non ha presagito l'estremo Occidente, non ha tenuto a battesimo l'America (anche se l'ha scoperta con Colombo e descritta con Vespucci); non ha predetto il mercato, la concorrenza, la furia produttiva del capitalismo moderno. Queste cose sono nate dallo slancio oceanico della Spagna e dal rigorismo morale dei quaccheri.
Ecco l'importanza dell'Atlantico, l'Oceano che fa naufragare tutti i miti, tranne uno: quello dell'indefinito inseguimento alla balena del progresso. Le antiche nazioni europee sono nate sul Mediterraneo, ma sono soltanto due: Grecia e Italia. Le nuove, invece, Spagna, Francia e Inghilterra, sono nate sulle sponde dell'Atlantico, voltando le spalle al mare interno. Anzi la nazione, quale la intendiamo oggi, la nazione "ideologica" è nata in Francia, con la Rivoluzione, ed è dunque estranea al mare di Giona e di Ulisse. La nazione moderna è un composto di istituzioni e di storia, di identità culturali o linguistiche, e di identità giuridiche, in equilibrio tra il legame cieco del sangue e quello razionale delle leggi e dei princìpi democratici che si sono affermati nella carta costituzionale.
"On est français comme on réspire", scriveva all'inizio del Novecento Paul Valery, prima di lanciarsi in un'aerea definizione della Francia come sintesi del visibile e dell'invisibile: dall'orografia alpina e pirenaica alla sintassi di Bossuet, dal Mistral che prosciuga la Provenza al sistema dei venti atlantici che spazzano Place de la Concorde e la fanno affacciare sulla Statua della Libertà di New York. E anche a Madrid, per non parlare di Londra, ci sono dei viali che cominciano in Europa e finiscono in America. L'essenza francese non era per Valery un principio spirituale, ma una compote di sostanze eterogenee, alcune pesantemente materiali, altre impalpabili come i venti, tutte finemente triturate da una percezione eccitata dallo iodio oceanico; una quintessenza di spezie sensoriali, di minerali preziosi, di concetti rigorosi, di grandi distanze e di fortunali lontani, amalgamati da quel raffinato laboratorio fisico-chimico che è stato, almeno fino a ieri, l'intelletto francese. Può sembrare un'essenza da laboratorio farmaceutico, ma è preferibile alle esalazioni del Geist tedesco, che è un laboratorio di astrazioni tossiche, a lungo respirate dalla cultura italiana.
La ripugnanza padana per il Mediterraneo (che pure è il mare di Genova, di Venezia e di Ravenna) non è il frutto di un'attrazione oceanica, non è una marea atlantica che spinge verso i grandi spazi. E' piuttosto claustromania alpina, nostalgia di Baviera, una strana smania di sudditanza alla Germania che il disastro del nostro sistema politico e la miseria delle sue astuzie giustificano e alimentano.
Ma perché prendersela con il Mediterraneo? Da qualche tempo si è diffusa nei giornali (e ha avuto echi anche in commenti americani) un'insofferenza per la nostra posizione geografica che esprime pruriti indefinibili e anche la speranza di poter essere altri da ciò che siamo. Ammetto che essere noi possa risultare spiacevole; ma voler essere altri è sciocco e talvolta miserabile; ed è oltretutto uno dei modi, forse il peggiore, per continuare a rimanere noi. Solo un Paese che mezzo secolo fa farneticava ancora di Mare nostrum può degradare a sinonimo d'infamia il nome del mare che lo bagna. Nel linguaggio corrente, e anche in quello politico, Mediterraneo significa ormai soltanto due cose: o marciume o turismo. Ma la vergogna di non essere svedesi non basterà a farei arrampicare al di là delle Alpi. Continueremo a scivolare nel Mediterraneo anche se non ci stancheremo di sconciare la nostra penisola e le nostre città con châlets svizzeri, dacie finlandesi e cottages britannici. Perché la storia può essere opinabile, ma la geografia no. E, in ogni caso, né l'una né l'altra sono opzionali.
I mari che circondano l'Europa non ci dicono ancora se ciò che sta dentro la loro custodia sia un'unità. E' possibile che Atlantico, Mediterraneo, Mar Nero, Baltico e Mare del Nord, stringendo nel loro assedio il Vecchio continente, lo costringeranno a unirsi? Sulle ragioni dell'unificazione tutti gli europei a parole sono d'accordo. Ma l'accordo della mente non basta. Tocqueville ha parlato delle divaricazioni tra l'intelligenza e il cuore, e le ha giudicate positive. Se tutto dipendesse da questa forbice, non potremmo però essere ottimisti. Infatti, dovunque, tranne che in Inghilterra e in Danimarca e in Norvegia, la coscienza è per l'Europa; ma dovunque, tranne che in Italia e in (nell'ex) Yugoslavia, il cuore è per il proprio Paese. Questo scarto tra il cuore e la coscienza non può essere, a dispetto di Tocqueville, lo spazio dell'Europa.
Le lingue hanno un'importanza decisiva nella suddivisione delle culture e delle istituzioni. Ma, a giudicare dalla storia antica, neppure l'unità linguistica garantisce l'unificazione di una civiltà nei momenti di pericolo, che pure la renderebbero indispensabile. L'ostilità alla transizione verso nuove e ignote identità collettive non è nuova. L'hanno vissuta le città greche del IV-III secolo a. C. di fronte alla Macedonia, e nel II secolo di fronte a Roma. L'hanno vissuta Signorie italiane del XIV e XV secolo fronte a Carlo VIII di Valois e a Carlo d'Absburgo. Questa ostilità produce un rovello che non si risolve sempre a favore della ragione. Anzi, stando alla storia reale, in Grecia e in Italia ha vinto sempre il contrario della ragione.
Rischiamo di trovarci a fissare, per negazione, un assoluto. L'opposizione chiede contiguità e rispetto, almeno oggi, quando non è più ammessa la scomunica ai "diversi" sotto l'etichetta di "barbari". E ciò è tanto più vero per l'Europa che è priva di una lingua comune e deve cercare, al di là dei motivi economici e utilitari (importanti ma non sufficienti), motivi culturali in grado di civettare con i simboli. Di queste opposizioni per contiguità l'Europa può utilizzarne due, che però, per ragioni diverse, si portano via ciascuna una buona metà del continente.
La prima di queste opposizioni riguarda il passato prossimo, ed è la identificazione della Comunità economica europea come potenza di mezzo tra i due Imperi dell'Est e dell'Ovest. Ma basta sbarcare a Odessa o a Riga per capire che, dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica, non ha più senso. Fino a ieri riproduceva la difficile posizione delle repubbliche greche, divise tra di loro ma complessivamente strette tra l'Impero Romano (che ne era l'amplificazione, e che finì per divorarsele) e l'Impero Persiano (che ne è stata la negazione, ma che non riuscì a impadronirsene). Tuttavia, adesso che la negazione è scomparsa (perché è sparita l'Urss), anche la propaggine orientale dell'Europa appartiene a noi, entra nel laboratorio della nostra identità. Basta sbarcare a Yalta, a Odessa, a Varna oppure (saltando a nord) a Yurmala, a Tallinn, o a Pietroburgo sul Baltico, per accorgersi che questa è Europa. Solo più povera, screditata, umiliata, stordita, devitalizzata e ridotta all'accattonaggio. I bambini mendicanti che vengono incontro sulle spiagge della Crimea dei turisti e che i russi presentano ironicamente come "apprendisti imprenditori" sono l'immagine delle nostre vicissitudini trascorse, del nostro dopoguerra, non del nostro contrario.
Tra noi e loro c'è la Germania. E la Germania ha sempre rivendicato una posizione centrale e diritti di pedaggio tra l'Oriente e l'Occidente. E' una vecchia inclinazione tedesca, che ha una sua storia. All'inizio del Novecento, nelle Confessioni di un impolitico, Thomas Mann presentava il Reich guglielmino come il Paese di mezzo tra la civiltà democratica e materialista dell'Europa occidentale (Inghilterra e Francia soprattutto) e la cultura spirituale dell'Impero zarista. In questa visione di Mann (che è durata a lungo) la Germania è stata sentita: prima come arbitro tra autocrazia e democrazia, spiritualismo e materialismo; e poi, dopo la Rivoluzione d'ottobre, ancora in posizione centrale, sempre come arbitro, ma questa volta tra comunismo e liberismo, con inclinazioni oscillanti ora verso l'America ora verso l'Unione Sovietica. Sparita l'Urss, la Germania è ancora e sempre il Paese di mezzo. Ma in un senso ben diverso dal passato. E continua a dividere l'Oriente dall'Occidente perché sta unificando il centro in un Impero economico che non appartiene già più alla Cee e che attrae parti della Yugoslavia, della Russia, della (ex) Cecoslovacchia, smembrando i Paesi d'origine. Sopra Odessa volano già gli aquiloni delle banconote tedesche, che per ora sono ancora sospese a mezz'aria, come promessa di Mitteleuropa.
La seconda opposizione non riguarda il passato prossimo, ma il passato remoto, anche se non risparmia il presente. E' tra il sud e il nord del Continente, e lo taglia in due secondo i paralleli anziché secondo i meridiani, lasciando in parte fuori la Francia e la Spagna, che si affacciano sull'Atlantico e dunque non sono totalmente chiuse nel nostro mare.
E' davvero singolare: l'Europa è nata nel Mediterraneo, ma adesso il Mediterraneo (anche la sua sponda settentrionale) è Europa marginale, meno Europa di quella del Mare del Nord. L'Europa è sorta a cavallo tra Egeo, Jonio, Adriatico e Tirreno, e il suo stesso nome non viene da una delle sue lingue. Viene dalla radice semita "ereb", che significa occidente, tramonto, sera, in contrapposizione alla radice "asu", che significa oriente, mattino, alba, da cui il nome Asia.
L'opposizione che passa attraverso il Mediterraneo è storicamente oscillante. Alla fine dell'Impero Romano, che ha gettato le premesse geografiche e storiche della civiltà occidentale, l'Europa centrale è stata una semplice appendice (quella orientale e settentrionale addirittura una buia e sconosciuta propaggine) del Mediterraneo. Il cuore della civiltà occidentale, di quella che sarebbe stata la civiltà europea, era nel bacino marittimo tra Roma, Atene, Antiochia e Alessandria, e cioè a cavallo tra Europa, Asia e Africa.
Questo è l'inizio. Ma gli sviluppi sono stati molto diversi, perché dopo le invasioni germaniche e soprattutto con Carlo Magno il baricentro si è spostato verso il Mare del Nord, sicché il Mediterraneo, che nel frattempo si era spezzato in due per l'opposizione religiosa tra Cristianesimo e Islamismo, è diventato un'appendice, sia pure importante, dell'Europa centrale.
Con le Crociate, con la nascita dell'Impero Ottomano, con il Rinascimento e con l'espansione delle repubbliche marinare di Genova e di Venezia, il Mediterraneo ha riacquistato una sua centralità e persino una sua unità commerciale e in qualche misura culturale, che però è scomparsa definitivamente dopo la scoperta dell'America e la sconfitta dei turchi a Lepanto. Da quel momento la nascita del Protestantesimo, l'ascesa delle grandi monarchie nazionali dell'Europa centro-occidentale e soprattutto la rivoluzione industriale hanno spostato a settentrione e a occidente, vale a dire sul Mare del Nord e sull'Atlantico, il cuore della civiltà europea, che però non può dimenticare di avere le sue radici nel Mediterraneo.
La prima divisione (fino a che è durata) tra est e ovest tagliava fuori metà dell'Europa effettiva, cioè la metà orientale, facendo addirittura della Russia, che è stata a lungo un cardine dell'Europa, una sua negazione. Adesso che è scomparso il muro divisorio tra Oriente e Occidente, il confine dei meridiani tende a confondersi con quello dei paralleli, perché attorno al cuore del carciofo europeo c'è una zona grigia, foglie secche di un Occidente affievolito dalla guerra fredda e dai sistemi politici che ci hanno prosperato sopra. Quest'Europa sbiadita, mortificata, rallentata, disegna un semicerchio intorno all'altra, un semicerchio che comincia a est e piega a sud, unendo idealmente un'area di Paesi sgangherati, divisi, in subbuglio, incerti persino nella loro sopravvivenza, città come Odessa, Atene, Spalato e persino Roma. Mentre una nuova e inaudita frattura si delinea nell'Atlantico, facendo a poco a poco dell'America, che è stata fin qui alumna eadem et parens (figlia e nutrice) del Vecchio continente, una nuova negazione dell'Europa.
Si verifica in questo modo un fenomeno strano. La Russia, che è stata a lungo l'antitesi dell'Europa, sta per entrarci, sia pure dalla porta di servizio; mentre l'America, che declina verso il Pacifico, ne esce, sia pure trionfalmente, dopo essere stata per tanto tempo un suo protettivo prolungamento.
Ma c'è una terza opposizione, clandestina, eppure importantissima, che non è ufficialmente utilizzabile per la definizione di un'identità europea, e però la sta ufficiosamente creando nel senso comune dei popoli: l'opposizione tra ricchezza e miseria. Stando a ricerche recenti, la forbice tra la parte sviluppata e la parte sottosviluppata del mondo cresce incessantemente. Non dà respiro. Oggi il divario è dieci volte maggiore che ai tempi di Luigi XIV.
L'orizzonte nel quale si collocano le riflessioni sulla storia degli Stati europei e sul loro rapporto con i mari che li delimitano è dunque oscurato da questa preoccupante realtà, alla quale va aggiunta la sfida tecnologica ed economica del Pacifico. E così, il contrasto tra ricchezza e miseria propone quest'ultima contrapposizione, che tuttavia non isola l'Europa dal resto delle aree industrializzate (Usa-Canada-Giappone-Pacifico), pur fissando un confine preciso anche nella nostra area, per esempio con il mondo arabo.
Questa opposizione è l'unica che abbia colpito l'immaginazione e il sentimento della gente comune (Tocqueville direbbe: il cuore e la ragione), mentre mette in imbarazzo l'intelligenza degli economisti e dei politici. Sembra anche destinata ad assumere un'importanza crescente nello stabilire caratteri, vocazioni e natura dell'auto identificazione europea. E' la più certa, nella sensibilità media, ma anche la più pericolosa. Perché può rapidamente sconfinare nel razzismo, un razzismo sociologico che guarda più al prodotto lordo che ai gruppi sanguigni. E' basata su un complesso di superiorità statistico che si traduce in un indefinibile disprezzo per chi non ha un apprezzabile conto in banca. Sotto questo aspetto, il Mediterraneo è tragicamente diviso, mentre l'Europa orientale (e parti di quella meridionale) rischiano di scivolare in Africa.
Stalin, Breznev, Gheddafi e Khomeini hanno fatto quel poco d'Europa che c'è. La paura della sfida militare sovietica e l'indignazione per il folle martirio sciita hanno rinsaldato Fino a ieri, per compressione, gli spiriti sparsi dell'Occidente europeo. Forse, nei fatti, ha contato di più la paura di Mosca "Terza Roma". Ma per gli animi è stata più eccitante la sfida islamica, che ha saldato l'antica avversione alla mezzaluna con il più recente colonialismo e soprattutto con la nuova ossessione demografica, producendo una miscela singolare, uno stato d'animo nuovo e pronto ad evocare i fantasmi di Goffredo di Buglione e di Don Giovanni d'Austria, e a rialzare gli antichi stendardi per crociate moderne, laiche e liberali.
Che cosa succederà adesso che la Terza Roma è tramontata, che Khomeini è stato sconfitto, che Gheddafi è ridotto a mendicare la sopravvivenza con il silenzio e Saddam Hussein è ridotto alla vita in una tana? Si ricomincerà dall'Algeria? Difficile prevederlo. Ma la sconfitta dell'Urss e dell'Islam non attenuerà l'ossessione demografica. Tutt'al più, sottrarrà una giustificazione ideologica allo spirito di crociata, per il momento solo letterario, degli europei. Prevedere quel che succederà in un mondo non più bipolare, attraversato da brividi di paura e di speranza per la fertilità non solo demografica ma economica della Cina, dell'India, dell'Africa e delle Americhe, non è solo impossibile a chi non si intende di profezie: gli stessi professionisti della previsione oggi preferiscono tacere e scrivere sull'acqua i loro vaticinii, per non doverne rispondere nel giro di un'ora.
Si tratta, però, di scegliere l'acqua giusta. Il Mar nero potrebbe offrire la pergamena più adatta, per il colore indefinibile delle sue onde che cancellano rapidamente anche la scia delle navi. Il Mediterraneo è troppo violaceo (Omero lo definiva "vinoso"; e Sciascia, di rimando, "color del vino"), comunque troppo abituato a restituire favole a chi gli affida la storia. Oggi poi è inquieto per la polveriera che si addensa sulle sue sponde meridionali. Non direbbe la verità. O meglio, non smentirebbe le bugie. Anche il Baltico e il Mare del Nord sono popolati da folletti e fantasmi, magari non classici, magari romantici, ma non per questo attendibili. L'acqua giusta su cui scrivere le profezie sull'Europa e sulla sua difficile unificazione è ancora l'Atlantico, l'Oceano, il mare della verità, dello spazio e del tempo, delle forze crudeli della natura. E' l'unico che possa risputare il giudizio affidato ai suoi flutti al momento giusto. Anche perché, questa volta, è prevedibile che attraverso le sue profondità si formi proprio qui uno dei confini futuri.


L'ALBA DI EREB
Il più alto e aristocratico studioso, l'unico il grande vecchio" dell'antichistica italiana, Giovanni Pugliese Carratelli, in Da Cadmo a Orfeo svolge una parabola geografica che sembra seguire il corso del sole. La profondità dell'indagine, che riesce ad abbracciare con un solo sguardo un panorama sterminato quanto frammentario, è impressionante. E ad ogni pagina si è affascinati da una scoperta: Minosse, paradossalmente, non era un re "minoico" ma miceneo e la storia della sua morte a Camico in Sicilia è dovuta alle tradizioni portate dai naviganti cretesi che commerciavano con i Sicani. Gli eccezionali monumenti funerari a tholos di Sant'Angelo Muxaro sono forse dovuti a questa influenza micenea sugli autoctoni e qui doveva sorgere la mitica Camico, regno di Kòkalos.
I testi in "lineare B" di Creta già parlano del favoloso Labirinto come di un santuario ipogeico di una divinità ctonia da identificare forse con Afrodite. E Arianna si deve identificare con una dea affine. Scendere nel Labirinto è come scendere tra i morti, ma nessun uomo può farlo senza la mediazione di una donna: Arianna che conduce Teseo, Circe che conduce Ulisse alle foci dell'Acheronte, la Sibilla cumana che conduce Enea, la Pizia delfica che sta seduta sul chasma ghes, la fenditura che comunica con gli inferi.
E ancora: i troiani non erano asiatici ma essi stessi achei o quanto meno asiatici acheizzati. Apollo proteggeva i troiani perché era un dio asiatico che solo in età più tarda salì sull'Olimpo.
Come mai Omero non conosce gli ittiti che crearono il più possente impero d'Asia? Li conosce e li nomina anche, nell'Odissea, tra i compagni di Euripilo, figlio di Telefo: li chiama Ketei e nel nome di Telefo riconosciamo il "Telepinu" dei documenti ittiti.
Ma l'epilogo del grande itinerario sta in Occidente, nelle fulgide città dell'Italia meridionale e della Sicilia dove si elaborò una cultura unica, ancora greca eppure diversa. Nuova, indipendente. Qui si sviluppò l'avventura spirituale dei pitagorici e degli orfici, la consapevolezza che l'uomo, pur irrimediabilmente separato dalla felicità remota e indifferente degli dei olimpici, conserva in sé una scintilla del fuoco cosmico da cui un giorno promanò e a cui un giorno potrà tornare, spiccando un balzo oltre la barriera del sensibile e del corporeo. Come il meraviglioso tuffatore della tomba di Paestum, sospeso in un cielo luminoso, librato su acque increspate e alberi fioriti dall'antico cuore di Ereb, dell'Europa.


EUROPA A SUD
Non c'è nessuno dalla parte del lato est di Minorca. A questo deserto, le masse dei turisti preferiscono Maiorca e Ibiza. Qui, invece, è la terra della solitudine, della musica del silenzio che avvolge i resti preistorici che emergono abbandonati a poca distanza dal mare. Intorno, sterpi, fiori, sassi. E una gran pietra verticale, piantata nel terreno e rivolta verso il cielo. Una stele che va osservata con la luce di taglio. Perché soltanto così è possibile individuare i graffiti. Semplicemente eccezionali. Perché non si tratta dei graffiti che conosciamo bene, come quelli di Porto Badisco o della Val Camonica o della fascia mediterranea africana. Niente figure umane, niente animali, niente pesci. Non si tratta dei consueti simboli che sono miracolosamente rimasti intatti e sono giunti fino a noi per raccontarci dei nostri progenitori e della loro vita quotidiana. Su quella grande pietra ci sono segni ben più preziosi, perché ci fanno capire che da otto a diecimila anni fa i nostri antenati mediterranei sapevano già tutto sul movimento degli astri.
Le linee tracciate sulla pietra, infatti, hanno un andamento curvilineo che solo la mano dell'uomo può aver tracciato. La convinzione è questa: quelle incisioni, quelle traiettorie sono una precisa proiezione nel cielo di costellazioni. Chi si interessa di studiare questa pietra sostiene di avere già identificato due percorsi su tre, trascorrendo costantemente le notti senza luna nelle date che precedono e che seguono i solstizi. Riferisce Folco Quilici: "E' un orologio stellare, questa pietra, un eccezionale computer astronomico, che ci dimostra che la "sapienza stellare" non solo era acquisita molto prima dell'età del Bronzo, ma per di più era già utilizzata nella vita quotidiana. Quei segni erano esposti a tutti, non costituivano quindi il segreto di una casta sacerdotale. Quella stele era, per i contadini e per i marinai che abitavano l'isola, come un bollettino meteorologico; se avessero usato i termini dell'uomo d'oggi, avrebbero chiamato un simile strumento di conoscenza l'avviso ai naviganti"; infatti, quando le costellazioni si disegnavano in cielo con lo stesso arco segnato nella pietra, loro capivano che era il tempo giusto per andar per mare o - viceversa -per trarre a secco la propria barca; così come per seminare o per raccogliere".
In altri termini, indicavano le stagioni, quei segni; e le indicavano ricordando quelle favorevoli e quelle inaffidabili per le attività umane. Ma che cosa prova tutto questo? Come interpretare l'utilità di quei solchi tracciati sulla pietra? Grazie ad essi, disponiamo di una testimonianza in più per ipotizzare che nel Mediterraneo si navigasse - sapendo navigare - da tempi remotissimi. E' forse l'inizio della storia della dominazione del mare.
Il mare degli antichi: le prove della loro abilità di navigatori sono proprio nei segni lasciati in isole mediterranee ben lontane dalle coste continentali dalle quali essi muovevano. Dunque, avevano compiuto traversate impegnative per trasferirsi dai luoghi d'origine verso le isole. E tutto questo quando il Mediterraneo doveva ancora apparire un oceano vastissimo e anche ostile, e non poche delle isole venivano raggiunte da esploratori del mare, da Ulissidi della protostoria. Quei segni - in parte decifrati, ma per un'altra parte ancora enigmatici - sono incisi o scolpiti nei monumenti megalitici. Alla base della stele a forma umana nel sud della Corsica. E nelle mura dei templi e degli ipogei di Malta, dove diventano già raffigurazioni complesse, e infine anche figurative.
I reperti maltesi sono antichi di sei millenni, a Mgàrr. E sono più vicine a noi di pochi millenni le mura del Tempio di Hagar Quim. Emozionanti gli uni, imponenti gli altri. Gli uni e gli altri antichissimi e unici per conoscere la storia dei primi abitatori del mare che bagna le coste di tre continenti. In alcune sue parti, il Tempio di Hagar Quim si presenta ancora come fosse integro, appena innalzato: fermarsi tra le sue grandi pietre scolpite nel suo recinto sacro, mentre il sole scompare all'orizzonte e il cielo si fa color dell'ottanio, è come sentirsi riportato da una speciale macchina del tempo in un momento del nostro passato remoto. L'architettura si modella nell'ultima luce che si stempera, ondulare anch'essa, sopra il mare. Le onde si rifrangono piano su scogliere non lontane, nella baia di Ghain Tuffiena, eco attutita di una voce ben più possente (e fragorosa, se il Mediterraneo è in burrasca), ingrediente indispensabile per cedere all'ipnosi di un'atmosfera carica di suggestioni. E per porsi ancora una domanda: ma come seppe, il marinaio, vincerle, quelle onde del Mediterraneo antico? Che cosa lo spinse all'avventura?
George Camps, in uno studio di quindici anni fa, pubblicato in Francia, elaborò i dati sui primi tempi della navigazione nel Mediterraneo. Già settemila anni prima della nostra era, affermò, si effettuavano traversate di circa cinquanta miglia All'inizio del neolitico, le traversate erano già di centocinquanta miglia, e nel quarto e terzo millennio arrivavano a coprire distanze marine dell'ordine di duecento miglia. Nell'età del Rame, c'erano marinai mediterranei così esperti da superare anche di parecchio le trecento miglia. E quando parliamo dell'età del Bronzo abbiamo dati certi su una navigazione generalizzata che aveva esteso la sua ragnatela in tutto il Mar Mediterraneo.
Soltanto quando prendiamo in esame periodi storici più vicini a noi possiamo essere sicuri che gli scafi dell'uomo mediterraneo erano già "manufatti", cioè di complessa costruzione. Non dobbiamo dunque meravigliarci se leggiamo che nell'età del Bronzo erano attivi costruttori di navi grandi e capienti: lo rivelano sulla costa siriana gli scavi di Ugarit, città già importante nel 2000 avanti Cristo. Nel suo porto, il ritrovamento di un'ancora in pietra pesante mezza tonnellata ha permesso agli esperti di calcolare la stazza della nave che se ne serviva: si sarebbe trattato di uno scafo lungo intorno a venti metri, di circa duecento tonnellate!
D'altra parte, sostiene l'archeologo britannico MuckeIroy, se nel 4000 avanti Cristo gli egiziani non avessero potuto disporre già di navi capienti e manovrabili, in grado di trasportare le enormi pietre che essi usavano per innalzare i loro monumenti, le piramidi e i templi faraonici sarebbero rimasti sogni inattuabili che il vento del deserto avrebbe cancellato immediatamente. Quel vento, invece, diede forza alle vele della loro flotta da carico. E consentì a quel sogno di diventare una realtà, quale è giunta fino ai nostri giorni.


EUROPA A NORD
Nel primo secolo avanti Cristo un poeta dell'Antologia Palatina, Antipatro, scrisse una breve poesia che è la prima documentazione scritta che abbiamo sulle cosiddette "sette meraviglie": "Di Babilonia le mura su cui correr possono i cocchi e l'effigie di Giove contemplai sull'Alfeo e i giardini eretti nell'etra, e il colosso del Sole, e il travaglio grande delle eccelse piramidi, e il monumento ingente di Mausolo. Ma quando scorsi d'Artemide levarsi fino ai nuvoli il tempio, ogni altra meraviglia fu buio al confronto: lo stesso Sole, nulla di simile, tranne l'Olimpo, vide".
Circa un secolo più tardi, Strabone avrebbe fatto esplicitamente riferimento alle sette meraviglie: " ... E i giardini pensili sono chiamati una delle sette cose da vedere (ton eptà téamaton) nel mondo". Perché meraviglie, e perché sette, sarebbero argomenti di interessanti analisi. Il termine stesso "meraviglia" sembra proprio corruzione di una parola originale "téamata" (cose da vedere) in "taumatà (cose meravigliose). Il numero sette, poi, ha un ruolo significativo nel pensiero magico e religioso. Non è multiplo; né sottomultiplo di alcuno dei dieci primi numeri, e per lo stesso Pitagora esso, come la dea Atena, era una divinità vergine. Ed è numero che compare molto spesso: sette i peccati capitali, i giorni della settimana, i saggi, le Pleiadi, i nani, le leghe... Forse, il fatto che non sia un numero troppo piccolo e che, a sua volta, non sia suddivisibile, sono stati gli elementi che hanno favorito la sua scelta come limite alle costruzioni da classificare come meraviglie. In un mondo che ancora non era conosciuto, altre c'erano, infatti, degne di apparire tali: la grande muraglia cinese, ad esempio; o la città inca di Machu Picchu. O, nel nord d'Europa, Stonehenge.
Fu Gerald Stanley Hawkins, docente di astronomia a Boston, ad affrontare e a decifrare l'enigma di Stonehenge. "What the devil is it?", si era chiesto Byron, e Hawkins voleva non solo risolvere il mistero, ma mostrare anche che la lista delle meraviglie era incompleta.
Stonehenge è una località inglese, a nord di Salisbury. Il monumento megalitico era formato da un cerchio di 30 monoliti, alti circa quattro metri, che racchiudevano cinque triliti disposti a ferro di cavallo. La prima versione di Stonehenge venne presumibilmente realizzata intorno al 2800 avanti Cristo, quasi nello stesso periodo nel quale il faraone Cheope avviava i lavori della piramide di Giza. Questa versione era un argine circolare, con un fossato e 56 buche disposte ad anello, oggi conosciute come le "Aubrey Holes", dal nome del loro scopritore, John Aubrey. Solo tre blocchi di pietra, tra cui il cosiddetto Heel Storie, facevano parte di questa prima versione. In un periodo databile intorno al 2200 avanti Cristo, ossia nello stesso periodo nel quale la mitica regina Semiramide costruiva un tunnel sotto l'Eufrate per congiungere il palazzo reale di Babilonia con il tempo di Belos, venivano disposte le grosse pietre, pesanti ciascuna Fino ad oltre 25 tonnellate. All'interno di un anello del diametro di circa trenta metri e formato da trenta pietre verticali, coperte a loro volta da altrettante pietre che facevano da architrave, c'era una costruzione a ferro di cavallo, costituita da cinque archi di pietre o triliti, il cui trasporto e messa in posa richiedevano capacità tecniche non indifferenti. Le architravi, ciascuna delle quali copre due pietre verticali, fanno uso di giunti ad incastro, per i quali devono aver lavorato artigiani dotati di grandi abilità costruttive.
E' stata proprio la disposizione delle pietre, che appaiono come sospese in aria, a suggerire ai Sassoni, quando questi nel V secolo si stabilirono nella parte meridionale dell'Inghilterra, il nome di Stonehenge, ossia "Pietre sospese". Non c'è dubbio che l'abilità degli artigiani e il grande impegno profuso per questa costruzione indichino un ruolo di fondamentale importanza del tempio nell'epoca in cui esso svolgeva la sua funzione. Ma quale funzione? La prima ipotesi la diede Hawkins nel 1956. Ed è un'ipotesi plausibile: il tempo in realtà era uno strumento a metà strada tra un osservatorio astronomico e un computer, che consentiva la previsione di fenomeni astronomici particolarmente rilevanti sia per la creazione di un calendario che per più complesse finalità religiose.
Hawkins era rimasto impressionato dal fatto che la visibilità dell'ambiente circostante all'interno del cerchio era ridotta al minimo. Il campo d'osservazione da una qualunque finestra del cerchio esterno, inquadrata attraverso un trilito interno, era molto ristretto, quasi come nell'oculare di uno strumento astronomico. Hawkins ebbe così l'idea che probabilmente gli oggetti osservati in tal modo dovevano essere corpi celesti, soprattutto il sole e la luna.
Un altro aspetto particolarmente significativo era che l'asse di simmetria di Stonehenge, che passa attraverso il trilito al centro del ferro di cavallo, è orientato verso il punto dell'orizzonte nel quale appare il sole quando sorge nel giorno più lungo dell'anno, che è quello che indica proprio l'inizio dell'estate. Sulla base di queste intuizioni, Hawkins ha proceduto a misurare con grande accuratezza le posizioni di ogni pietra, dei centri dei cerchi, delle arcate e dell'argine circolare esterno. Quindi, si è servito del computer per stabilire quali erano i punti dell'orizzonte nei quali si verificavano allineamenti particolarmente significativi. In tal modo, è stato in grado di verificare che in molti casi quegli allineamenti coincidono con eventi astronomici, quali l'inizio delle diverse stagioni.
E' persino banale osservare quanto valore avessero per quei popoli privi di scrittura e di un calendario tali conoscenze, soprattutto per le attività agricole e marinare. Ma la funzione di Stonehenge doveva essere ancora più ambiziosa. Nelle 56 Aubrey Holes, infatti, sono state rinvenute sepolture di defunti cremati, il che fa supporre che i riti funebri della comunità avvenivano proprio lì. Ma perché proprio 56 buche?
Ancora una volta Hawkins è partito da un'osservazione astronomica. La successione delle eclissi lunari avviene secondo un cielo di 56 anni, che si ripete costantemente. Il cerchio delle 56 Aubrey Holes poteva quindi essere un computer molto primitivo per prevedere quelle eclissi. Ma forse Stonehenge era anche qualcosa di più e di altro, e poiché non abbiamo testimonianze scritte, non sapremo mai di che si trattava. Sicuramente, era un punto centrale della società e della cultura del tempo. Era calendario per agricoltori e pescatori, santuario per i sacerdoti e i fedeli, strumento di calcolo per i governanti che, prevedendo fenomeni astronomici, potevano mantenere costante il loro prestigio.
E Stonehenge ci parla anche di una civiltà scomparsa, senza lasciare tracce scritte, ma evidentemente dotata di grandi capacità intellettuali. Fin dall'inizio quelle grandi pietre dovevano emanare un'aura magica. Il loro primo diarista, Samuel Pepys, che le visitò nel 1668, scrisse: "Vai, e scoprirai che quelle pietre sono prodigiose quanto le leggende che si narrano sul loro conto... Difficile è raccontarne la storia, ma non deve essere impossibile".
Oggi, possiamo forse immaginare i riti che vi si svolgevano, le preghiere che vi venivano dette. E, soprattutto, ascoltando Norma di Bellini, possiamo cogliere per un attimo tutto il fascino, e la magia, le suggestioni di quei momenti così lontani da noi: "Ite sul colle, o Druidi, / ite a spiar nei cieli / quando il suo disco argenteo / la nuova luna sveli ... / Casta Diva che inargenti / queste sacre antiche piante ... ".


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