§ Migrazione e pregiudizi

Razza lazzarona




Ada Provenzano, Flavio Albini, Gianni Ricciotti
Coll.: F. Rovai, M. Borsi, D. Dell'Aquila



Ma quanti sono stati gli italiani che hanno percorso la lunga strada nera dell'emigrazione dall'Unità ad oggi? Non si sa con precisione. Le stime più attendibili oscillano da un minimo di 26 milioni (più della popolazione dell'intero Paese nel 1861) a un massimo di 30 milioni. Per oltre la metà non sono mai rimpatriati. L'emigrazione massiccia ebbe inizio con l'unificazione, che stravolse la già fragile economia di molte regioni, in modo particolare del Sud. Fu una fuga dalla miseria e dallo sfruttamento. Una fuga tragica e a volte disperata. C'è - ormai quasi del tutto dimenticata - una vasta letteratura che ci racconta la vita degli emigranti italiani, lo sradicamento, l'emarginazione, la solitudine, il lavoro durissimo, le condizioni subumane di vita per risparmiare e mandare i soldi a casa, e l'ostilità dei "nuovi mondi" nei confronti dei nostri connazionali.
Il primo censimento dell'Italia unita (1861) fornì anche i primi dati sull'emigrazione. Erano sparsi per l'Europa 110 mila italiani: 77 mila in Francia, 14 mila in Germania e altrettanti in Svizzera. Circa 100 mila erano emigrati nelle Americhe, di cui 47 mila negli Stati Uniti, 18 mila in Argentina e 18 mila in Brasile. Alcune decine di migliaia avevano raggiunto l'Africa mediterranea, soprattutto l'Egitto (12 mila) e la Tunisia (6 mila). Qualche migliaio aveva dato l'addio per sempre, raggiungendo, nell'altro emisfero, l'Australia.
I quarant'anni che vanno dal 1876 allo scoppio del primo conflitto mondiale registrarono l'espatrio di oltre 14 milioni di italiani: una media di 350.677 all'anno. Alla fine del 1915 era espatriato il 55 per cento dell'intero flusso di espatri registrato dal 1876 al 1976.
L'emigrazione aveva preso un ritmo sempre più vertiginoso: da una media di 110 mila espatriati all'anno, dal 1875 al 1880, a 188 mila tra il 1881 e il 1990; 603 mila tra il 1901 e il 1910; fino a una punta di 873 mila nel solo 1913 (cifra mai più raggiunta): da un milione 314 mila 670 persone emigrate nel decennio 1876-1885, a due milioni 391 mila e 30 nel periodo 1906-1915.
Verso l'Europa si emigra soprattutto dal Veneto (13 per cento) con circa due milioni di espatri; dal Piemonte (11 per cento) con più di un milione e mezzo; quasi altrettanti dalla Campania (10,5 per cento); dal Friuli (10 per cento). Seguono la Sicilia e la Lombardia (9,5 per cento ciascuna). Negli anni successivi, però, il numero degli emigranti meridionali sale in modo massiccio: dal 13 per cento nel quinquennio 1876-1880, passano a rappresentare il 47 per cento degli espatriati nel periodo 1901-1910. Diretti soprattutto verso le Americhe, mentre i settentrionali continuano a preferire l'Europa. Particolarmente la Francia - che ricevette dal 1876 al 1910 circa un milione e 400 mila nostri emigrati -, la Svizzera (intorno a un milione) e la Germania (circa 950 mila). Oltre l'Atlantico, mete preferite furono gli Stati Uniti (tre milioni 100 mila), l'Argentina (oltre un milione e mezzo), e il Brasile (oltre un milione 100 mila).
La prima guerra mondiale ridusse l'emigrazione, che però riprese nel 1919 e continuò fino al 1927, prima di ridursi dopo il 1928 a causa delle limitazioni imposte da alcuni Paesi alla politica italiana del tempo. La seconda guerra mondiale arrestò quasi del tutto il movimento migratorio. In trent'anni, dal 1915 al 1945, espatriarono circa quattro milioni e mezzo di persone, delle quali più di metà rimpatriò. In questo periodo presero le vie dell'estero molti settentrionali, con movimento verso l'Europa, soprattutto nel primo quinquennio 1916-1920. Negli anni successivi, anche per le leggi restrittive varate negli Stati Uniti, l'Europa divenne sempre di più la destinazione dell'emigrazione italiana, fino a superare definitivamente i Paesi oltre-oceano. Il Nordamerica, soprattutto gli Stati Uniti, era stato la meta nell'immediato dopoguerra per circa mezzo milione di emigrati, poco meno della metà dell'intero contingente di espatri in quei tre anni.
Tra il 1922 e il 1930 riacquista importanza il Sudamerica. Emigrano in Argentina più di mezzo milione di italiani. Con il 1930 erano giunti in quel Paese l'80 per cento degli emigrati qui diretti in cento anni; in Brasile e negli Stati Uniti il 90 per cento; in Canada il 30 per cento. In Europa, la prima destinazione resta la Francia: più di un milione e mezzo di espatri tra il 1916 e il 1942, il 36 per cento del flusso globale dell'intero periodo, il 70 per cento del flusso verso l'Europa. Al secondo posto, la Svizzera, con una cifra di poco superiore alle 300 mila unità. La regione che alla vigilia della seconda guerra mondiale ha la percentuale più bassa di espatri rispetto alla sua cifra globale di 100 anni è la Puglia (39 per cento), quella con la percentuale più elevata il Piemonte (94 per cento).
Dopo l'ultima guerra mondiale, l'emigrazione riprese con forte intensità. In soli sei anni espatriarono un milione 420 mila connazionali, di cui oltre 500 mila donne (35 per cento). Ne sono rientrati 470 mila, di cui 94 mila donne (20 per cento). Il ritmo annuo è stato in media di 240 mila espatri (quasi tutti lavoratori disoccupati, famiglie che non avevano potuto ricongiungersi nel periodo bellico, e giovani in cerca di prima occupazione). 80 mila i rimpatri.
Rimarranno all'estero in 950 mila di cui 408 mila donne (43 per cento).
Nella prima fase del dopoguerra si emigra soprattutto in Europa (55 per cento), e l'emigrazione europea ha carattere transitorio, mentre quella d'oltremare è più permanente: solo il 19 per cento degli espatriati nei Paesi extraeuropei ritorna in Italia.
Le nuove terre di emigrazione diventano poi soprattutto l'Argentina, e in misura minore il Venezuela, il Brasile, gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia.
Concluso il periodo della "ricostruzione", l'Italia affrontò i problemi dello sviluppo della propria economia. La situazione generale era migliorata, ma non erano stati eliminati gli squilibri territoriali. Di conseguenza, aumentarono le emigrazioni: dal 1952 al 1957 espatriarono circa un milione 750 mila persone, di cui 543 mila donne (45 per cento), e ne rimpatriarono 750 mila, di cui 144 mila donne (19 per cento). Rimasero all'estero un milione di italiani, di cui circa 400 mila donne (pari al 40 per cento). La media annuale fu di 290 mila espatri e di 125 mila rimpatri.
Si continuò ad emigrare soprattutto dal Sud e dal Triveneto, in direzione della Svizzera e della Francia, e sempre meno del Belgio. Cominciarono flussi migratori di una certa rilevanza verso la Germania. Tra i Paesi d'oltremare, diminuirono le partenze per l'Argentina e aumentarono verso il Venezuela, il Brasile, gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia.
Negli anni del cosiddetto "boom economico" l'emigrazione sia interna che verso l'estero crebbe a vista. Il movimento migratorio raggiunse i valori massimi proprio negli anni Sessanta: nel 1961 per gli espatri (387 mila) e nel 1962 per i rimpatri (229 mila). Da quel periodo, cominciò a decrescere, salvo episodiche riprese. In questa fase gli espatriati sono stati circa un milione 950 mila, di cui 450 mila donne (23 per cento) e i rimpatriati un milione e mezzo, di cui 200 mila donne (18 per cento). Dunque, 800 mila persone sono rimaste all'estero, comprese 250 mila donne (31 per cento): 200 mila in meno rispetto al periodo precedente. La media annuale fu di 300 mila emigrati e di 190 mila rimpatriati: le cifre più alte del dopoguerra. Il numero degli espatriati verso i Paesi europei aumentò fino al 1961 (anno nel quale raggiunse il massimo storico del dopoguerra). Poi cominciò a diminuire. Il numero dei rimpatriati aumentò: in media, in questo periodo, a 100 espatri in Europa corrispondevano 65 rimpatri.
Al primo posto tra le mete europee c'era la Svizzera, ma al secondo posto adesso c'era la Germania Federale, che aveva superato la Francia. Nel 1958 erano 10 mila 500 gli emigrati nella Repubblica Federale Tedesca; salirono a 117 mila 500 nel 1962. L'emigrazione oltremare si ridusse. Il totale degli espatriati nel 1958-1963 (397 mila) fu pari a circa la metà di quello del precedente periodo (779 mila). Aumentò l'importanza del Canada e degli Stati Uniti, che in media assorbirono più dell'Australia, mentre diminuì drasticamente quella dell'America Latina. Ad emigrare erano soprattutto le persone provenienti dal Sud e dalle Isole, mentre si ridusse il numero di quelle provenienti dal Triveneto.
1964-1969: è tempo di recessione. I movimenti migratori si adattano alle fasi alterne dell'economia. In questo periodo espatriarono poco più di un milione 460 mila italiani, di cui 410 mila donne (28 per cento), e cioè circa mezzo milione in meno di quelli del precedente periodo. Anche i rimpatriati diminuirono. In media, ogni anno, 240 mila espatriano e 174 mila rimpatriano, con una differenza di 65 mila unità. In Europa, anche se nel 1968 venne stabilita la libera circolazione dei lavoratori cittadini dei Paesi comunitari, l'emigrazione subì la riduzione numerica più forte rispetto al periodo precedente. In media, ogni anno ci furono 188 mila espatriati e 166 mila rimpatriati (una differenza di 22 mila unità), mentre nel periodo precedente si erano avuti 257 mila espatri e 166 mila rimpatri, con un saldo di 91 mila unità. Il movimento migratorio accentuò il suo carattere di temporaneità, e aumentarono i rimpatri: 88 ogni 100 espatri, in media. Nel 1969 si giunse a 94 su cento. Al primo posto, come meta di emigrazione, la Svizzera; in calo la Germania Federale, sempre però saldamente al secondo posto; poi la Francia. Espatriarono oltremare 330 mila italiani, 65 mila dei quali rimpatriarono. Destinazioni, nell'ordine, Stati Uniti, Canada, Australia. Per America Latina, Asia e Africa, i rimpatri superarono gli espatri. Si continuò ad emigrare soprattutto dal Sud e dalle Isole (68 per cento del totale).
Anni Settanta. L'emigrazione risentì delle diminuite possibilità di occupazione all'estero. I rimpatri cominciarono a superare gli espatri, in Europa e nei Paesi d'oltremare. Nel 1973 rientrò in Italia più gente di quanta ne emigrò: i rimpatri furono 125 mila e superarono il numero degli espatriati. Nel 1975 il divario divenne notevole con 116 mila rimpatriati, 30 mila in più rispetto agli espatriati. E il saldo demografico positivo continuò, ma con ritmo discendente: circa 19 mila unità nel 1976 e oltre 14 mila nel 1977; oltre 4 mila nel 1978 e meno di 3 mila l'anno successivo.
Ci fu una ripresa di emigrazione nel 1980, ma quello fu l'anno del terremoto irpino-lucano, quindi i dati di molte regioni non sono del tutto attendibili. Dopo quell'anno, gli espatri superarono nuovamente i rimpatri e si andò verso un saldo-zero, con oscillazioni di scarsa entità in più o in meno.
Nel complesso, in questo periodo espatriarono 790 mila italiani e ne rimpatriarono 774 mila. Rimasero all'estero soltanto 16 mila emigrati. La media annuale fu di 132 mila espatriati e 129 mila rimpatriati. Si emigrò soprattutto in Europa (il 78 per cento del totale), in Svizzera e in Germania Federale. I Paesi extraeuropei assorbirono circa un quinto del movimento totale. Le regioni interessate all'espulsione demografica restarono ancora quelle del Sud, insieme con le Isole.
Dal 1975 si tende a parlare di "inversione di tendenza", e in ogni caso di "ridimensionamento" del fenomeno, anche per la recessione economica che colpì, oltre all'Italia, i Paesi di emigrazione. I rientri "patologici" incominciarono a prendere il posto di quelli "fisiologici", dovuti soprattutto ai licenziamenti delle imprese estere come conseguenza della crisi economica e delle ristrutturazioni. La differenza tra numero di rimpatri e numero di espatri diminuì da 30 mila unità nel 1975 a 19 mila nel 1976, a 14 mila nel 1977, a 4 mila nel 1978, a meno di 2 mila nel 1979: il saldo tornò negativo, sia pure di poco, nel 1980 e nel 1982, quando tornarono ad emigrare più italiani di quanti ne rientravano. Nel 1983 il saldo si ripresentò positivo.
In questi nove anni, i nostri connazionali espatriati furono circa 800 mila (90 mila all'anno) e i rimpatriati 840 mila (95 mila all'anno), con un saldo di 40 mila unità. Principale meta restò l'Europa, con la Germania Federale passata al primo posto, seguita dalla Svizzera. Il movimento oltremare fu modesto e in netta diminuzione, e riguardò in particolare il Nordamerica e l'Australia.
Dal 1985 al 1987, la grande svolta. Le cifre appaiono ridotte di circa il 40 per cento sia per gli espatri (54 mila 600) sia per i rimpatri (53 mila 300). In totale, dal 1975 al 1987, cioè in 12 anni, gli espatri si sono ridotti del 59 per cento e i rimpatri del 43 per cento. Nel 1987 si giunse a poco più di 54 mila espatri, che superano i rimpatri di circa il 3 per cento. Come nel passato, l'emigrazione riguarda soprattutto l'Europa. Da questo momento fino ai nostri anni Novanta, il flusso si ferma su cifre modeste, statisticamente insignificanti.
Il fatto è che, nel frattempo, si sono radicalmente trasformate le qualifiche professionali degli emigranti: sono diminuite, e quasi scomparse, le categorie agricole, mentre è aumentata in modo sensibile una "emigrazione tecnologica" di cui non si conoscono ancora le esatte dimensioni. Si parla di 300-350 mila lavoratori e tecnici specializzati e di 100-1-30 mila familiari, dipendenti di imprese che operano prevalentemente all'estero. E` un'emigrazione con aspetti e problemi del tutto particolari: tra questi, la sicurezza e la durata del lavoro, compresa in media tra i 6 e i 10 anni.
Al di là di questo particolare fenomeno, si può dire che allo stato attuale il filone migratorio dalle regioni con tradizionale espulsione demografica si è quasi del tutto esaurito. Sono memoria storica i tempi degli "addii per sempre" dell'emigrazione transoceanica e degli "arrivederci" di quella dell'Europa comunitaria. Oggi si reclama il diritto fondamentale sancito dalla Carta Costituzionale di una "Repubblica fondata sul lavoro". Risultato: non si vuole più emigrare, e i problemi della disoccupazione e della sottoccupazione, ancora per tanta parte coperta dal lavoro nero, sono stati rimessi nella loro interezza allo Stato.


LA MILONGA DEL "PAPOLITANO"
Primo febbraio 1931: due anni dopo l'esecuzione di Sacco e Vanzetti, due altri anarchici italiani vennero fucilati a Buenos Aires dai gendarmi del dittatore generale Uriburu. Si chiamavano Severino Di Giovanni e Paolino Scarfo. Era l'anno di punta del razzismo contro gli immigrati. E gli italiani erano considerati ancora intrusi analfabeti in una società orgogliosa della sua stirpe spagnola, della sua eleganza inglese e della sua cultura quasi francese.
Quegli italiani, insieme con le loro donne, incarnavano i ruoli più temuti: a metà degli anni Trenta, nella città di Rosario, dominavano due mafie, l'una e l'altra siciliane: quella di "Chico Grande" e quella di "Chico Chico": chico, in spagnolo, volendo dire sia ragazzo sia piccolo. Le due cosche si accaparravano gli affari del gioco d'azzardo, del contrabbando e della prostituzione. Inoltre, il primo inviato da Mosca (personalmente da Lenin) per organizzare il partito comunista argentino fu un italiano ostinato, Vittorio Codovila, che resterà poi fedele allo stalinismo per oltre mezzo secolo. L'esercito riuscì a schiacciare la mafia in due battaglie ferocissime e sterminatrici e ad incarcerare e deportare Codovila, che in seguito inutilmente tornerà in Argentina, nel vano tentativo di riprendere il vecchio progetto. Alla fine sarà il colonnello Péron - un "creolo" che aveva vissuto nell'Italia di Mussolini - ad ottenere il favore delle masse.
Col passare dei decenni, gli italiani si trasformeranno nei genitori della metà degli argentini, e allora il soprannome di "gringos" sarà cambiato con quello più affettuoso di "tanos", con cui li si designa con un misto di ammirazione e persino di rispetto filiale.
La prima grande ondata di immigrati italiani, in particolare genovesi, calabresi e siciliani, giunse al Rio de la Plata nel decennio del 1880, mentre l'Argentina cresceva fino a trasformarsi appena trent'anni più tardi nella sesta potenza economica del mondo.
In un secolo (tra il 1821 e il 1932), l'Europa espulse 51 milioni di persone. Tra queste, c'erano 10 milioni di italiani. Si trattava di manodopera indisciplinata, ma economica. Considerati più stranieri dei galiziani e degli andalusi per via della lingua e delle abitudini, gli italiani conobbero il disprezzo, l'emarginazione e la repressione. I genovesi andarono ammucchiandosi nel quartiere del porto - costruito con latte e bidoni di petrolio e con pezzi di legno di vecchie barche - che forse ricordava loro la lontana terra natale. La metà di essi non poté sopportare la nostalgia e la xenofobia, e fece ritorno in Italia, o dirottò verso gli Stati Uniti.
"Era un gringo così idiota / che non lo si capiva, / chissà di dov'era, / magari non era cristiano / perché l'unica cosa che diceva / è che era pa-po-litano": deformazione palese di "napoletano".
Sono versi del Martín Fierro, di José Hernández, il poema per eccellenza della letteratura "gaucha" argentina. Non si tratta dell'unico dispregiativo sull'emigrato italiano, che intorno al 1870 era visto come pigro, codardo, sporco e non ben disposto alla convivenza. I creoli (così si chiamavano gli argentini di origine spagnola che rivendicavano il "gaucho" come "modello nazionale") arrivarono ad accusare gli italiani di tutti i mali, e in special modo dell'epidemia di febbre gialla che decimò Buenos Aires in una sola estate.
Non molto tempo dopo gli italiani, insieme con gli ebrei e con i russi, furono ritenuti i "sovversivi" del sollevamento popolare represso nel 1919, quando decine di operai, nostri immigrati, vennero fucilati contro i muri del cimitero della Chacarita.
Agli albori dell'indipendenza, nel 1810, Manuel Belgrano e Juan José Castelli, figli di genovesi, furono i più violenti giacobini della rivoluzione. I due presero parte all'esecuzione del piano di terrore che riuscì a piegare la resistenza armata dei conservatori filospagnoli. Questi sono i primi "gringos rinnegati" in queste terre e alcuni storici nazionalisti credono ancora che il loro disprezzo per la Chiesa e per le istituzioni della corona spagnola provenisse dal sangue italiano. Più tardi, tra il 1835 e il 1852, il napoletano Pedro de Angelis fu il consigliere per eccellenza del dittatore Juan Manuel de Rosas, un cattolico conservatore combattuto dall'Uruguay e dall'esercito di Garibaldi.
In un Paese giovane come l'Argentina di allora, l'immigrazione italiana ha aiutato a porre fine al regime coloniale e ha informato di sé per sempre le usanze, l'arte, il linguaggio e persino i cibi. Il "teatro del grottesco" nasce dal dolore dello sradicamento e dalla difficoltà di integrarsi in una nazione orgogliosa della sua fulminante prosperità. Coloro i quali promossero l'immigrazione si aspettavano tedeschi, svedesi e inglesi, ma quelli che giunsero ammucchiati nelle stive delle navi furono soprattutto genovesi, siciliani e piemontesi, lucani e pugliesi, campani e sardi, veneti e abruzzesi, che fuggivano dalle guerre e dalla miseria. Per costoro era faticoso imparare lo spagnolo e gli argentini (che nel 1914 erano appena il 57 per cento della popolazione del Paese) parodiavano nelle strade e nel teatro le loro strane abitudini e la loro lingua distorta. Salvo poi a scoprire che oggi l'argot argentino deve quasi tutto al napoletano e al genovese.
Lo sterminio degli indigeni della pampa, con la "campagna del deserto", aprì vasti territori che in teoria dovevano essere destinati agli immigrati. Ma quelle enormi pianure, nelle quali potrebbe entrare tutta l'Italia cinque volte, rimasero in pugno all'oligarchia vincitrice. Non ci fu mai posto per l'immigrato, che finì nei sobborghi di Buenos Aires, di Rosario, di Còrdoba, in attesa della ricchezza o del ritorno.
Vivevano con donne e bambini, promiscuamente, nei conventillos (enormi e sudici alberghi collettivi, dislocati in quartieri miserabili) dove si appassionarono al tango e appresero i poveri mestieri che nessun nativo voleva fare. I loro figli, segnati dalla povertà e dall'ibridazione culturale, furono tra i creatori del tango moderno: Greco, Contursi, Discepolo, Filiberto, Corsini, Magaldi...
I ribelli vennero deportati grazie a una legge del 1904 che serviva ad espellere rivoltosi e indesiderabili. Il milione e mezzo di italiani che si trovavano nel Paese intorno al 1920 si integrò a questa nuova società cosmopolita per mezzo dei suoi figli, che nascevano con la nazionalità argentina, frequentavano la scuola pubblica e compivano il servizio militare obbligatorio dal 1901.
L'incrocio del "creolismo" spagnolo e del "sudismo" italiano avrebbe creato un Paese singolare, malinconico, nutrito a pasta e carne, cullato dalla milonga e dalla canzonetta. Nel resto del continente si dice, con una punta di disprezzo, che gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e si prendono per inglesi.
Il primo presidente della Repubblica discendente da italiani è stato Arturo Frondizi, poi rovesciato da un golpe militare nel 1962; l'ultimo, Leopoldo Galtieri, il generale che decise di scontrarsi con gli inglesi, occupando le isole Malvinas o, in versione britannica, Falkland. Un ufficiale inglese, prima dello sbarco della flotta di Sua' Maestà, incorse in un celebre infortunio, dovuto alla sua boria. Disse: "Se negli argentini prevale il sangue italiano, sarà subito sbandamento; se prevale il sangue spagnolo, combatteranno fino all'ultimo uomo". Non si verificò nessuna delle due circostanze. I combattimenti costarono un migliaio di morti argentini e poco più di cinquecento inglesi. E questi, in grandissima parte, perirono per l'affondamento di un incrociatore da battaglia, colpito da un aereo di fabbricazione italiana; guidato da un pilota di origine italiana.
Qualche tempo fa, nel mezzo della più profonda crisi economica e morale, molti giovani argentini scrutarono i loro nonni italiani e spagnoli per recuperare la nazionalità d'origine. Sognavano di lavorare a Milano o a Torino o a Bari, a Madrid o a Barcellona o a Siviglia: e non immaginavano le durissime pene dello sradicamento. L'antico quartiere genovese della Boca, a Buenos Aires, ora è occupato dagli immigrati uruguaiani e boliviani, sui quali ricade il razzismo di coloro che rievocano con nostalgia gli anni fiorenti in cui quelle strade erano tutte italiane. Tuttavia, qualche sopravvissuto in età avanzatissima ricorda i tempi in cui fingeva di essere un pianista, perché la sua famiglia del Sud d'Italia gli perdonasse il suo povero esilio: "Non siamo mai vissuti felicemente, perché ci siamo sentiti intrusi finché non abbiamo avuto figli argentini. Poi eravamo estranei in casa nostra, perché i bambini si consideravano più creoli dei creoli e si prendevano gioco di noi. A volte componevamo canzoni nostalgiche che ci aiutavano a vivere". Dice una di quelle canzoni: "Sognai Taranto / con cento ritorni / ma continuo a stare qui nella Boca / dove piango la mia angoscia / quando ascolto 'O sole mio'/ senza mamma e senza amore / sento freddo qui nel cuore / che mi riempie di ansietà ... ".


RAZZA RITAL
Rital, l'italiano in argot, un dispregiativo ormai uscito dal linguaggio comune. Sebbene il 34 per cento degli intervistati in un sondaggio di alcuni anni fa abbia sostenuto che gli immigrati dai Paesi europei mediterranei siano "troppo numerosi", in Francia l'assimilazione degli immigrati italiani è un dato di fatto. Per lungo tempo, però, ha resistito lo stereotipo dell'italiano "tipico", con pregiudizi che ben poco avevano a che vedere con la realtà di un'immigrazione in gran parte proveniente dall'Italia del Nord, almeno nella prima fase, e dunque composta soprattutto da operai. E il paradosso è proprio questo: che gli stereotipi più caratteristici sono legati essenzialmente alla prima ondata di immigrazione, sotto il Secondo Impero.
A quell'epoca, gli italiani avevano un vero e proprio monopolio in attività nomadi o semi-marginali: lustrascarpe, spazzacamini, attori ambulanti, suonatori, impagliatori di sedie, vetrai, venditori di statuette di alabastro e di vetro. Molte donne erano modelle per i pittori, e straordinariamente venivano quasi tutte da alcuni paesi del Lazio: ma col passaggio dalla donna alla Renoir a quella di Modigliani, caddero in disgrazia.
Come si difendevano gli italiani? Con l'intra-razzismo. Vale a dire, facendo propri quegli stereotipi, ma con scarsi risultati, stando a quanto racconta lo scrittore François Cavanna, di padre italiano, che nel libro Les Ritals ha raccontato la sua adolescenza a Nogent-sur-Seine, uno dei centri dell'immigrazione italiana nella regione parigina: "I Ritals sputano di disprezzo, gettando un occhio dietro le spalle, se delle volte ci fosse un napoletano, proprio lì dietro, con il coltello in mano. 'Se fossi napoletano, avrei talmente vergogna, che non uscirei mai in strada, mai'. Se sapessero, quei testoni, che per i francesi Nord e Sud fa lo stesso, tutti i ritals sono delle scimmie, nerastri dai capelli crespi, suonatori di mandolino. Dei furbi, dei sornioni, dei fannulloni, dei buontemponi poco seri, degli esaltati, che parlano con le mani! Gli verrebbe un colpo, certo, a questi grandi ritals! Loro hanno poco da essere là, davanti a te, massicci, placidi, taciturni, rossastri, più grandi della maggior parte dei francesi, con gli occhi blu o verdi, la capigliatura castano-chiara o bionda o sovente rossa, la loro mascella pesante, il naso potente, hanno poco da essere là, niente da fare. Tu hai poco da guardarli dal basso in alto, tu non hai in testa che un'idea di rital, che rital è piccolo, nero, ricciuto, e tu li vedi piccoli, neri, ricciuti. Un rital che non sia così, ammesso che esista, non sarebbe che un'eccezione. Se tutti i ritals sono alti un metro e ottanta e hanno gli occhi blu, allora tutti i ritals sono delle eccezioni".
La maggioranza degli emigrati della prima ora proveniva da alcune zone ben precise del Piemonte (Torino, Ivrea, Cuneo, Val d'Aosta, Valdisusa, Valpellice) e dall'Appennino emiliano (province di Parma e di Piacenza). Lavoravano quasi tutti nell'edilizia. In seguito giunsero gli altri, dal Veneto e dal Sud.
Quella degli italiani rimase a lungo una società chiusa, localizzata in poli geografici ben delimitati. Contro di loro, negli anni Venti, c'era stato un vero e proprio pogrom, a Aigues Mortes, nella Camargue. Ma, senza arrivare a questi estremi, le accuse della gente del posto erano quelle solite: sfaticati, gente che viene a rubare il pane; loro la colpa della crisi, della disoccupazione e della criminalità degli anni Trenta. Loro il servilismo nei confronti del Fascismo, loro la codardia nei confronti dei tedeschi, loro la consuetudine dei baciapile papalini. E i francesi? Tutti innocenti: laici, repubblicani, jules ferry che di più non si può.
Nel secondo dopoguerra le cose cambiarono. Nel senso che i francesi cominciarono ad allinearsi sul razzismo fra italiani, a distinguere fra gente del Nord e gente del Sud della penisola. Ma l'immagine dell'Italia cambiò: intanto, attraverso il cinema, anche se non col neorealismo che metteva in primo piano la miseria, ma piuttosto con la generazione degli Antonioni e dei Fellini;
poi, grazie al design italiano, che stupì la Francia per la sua creazione di modernità; infine col made in Italy e con gli stilisti, che hanno conquistato mercati mondiali, invelenendo molti fegati transalpini.
Infine, ad occupare le case una volta abitate dagli italiani, come i quartieri dell'angiporto di Marsiglia, sono arrivati i nordafricani. L'obiettivo razzismo, che è una catena infinita di cui sono vittime prima degli altri gli stessi francesi, si è spostato. Scrive con ironia Cavanna: "Per gli yankies, per gli inglesi, per i crucchi, i francesi sono esattamente ciò che i ritals sono per i francesi e i napoletani per i ritals: una sottorazza, delle scimmie, della merda. Tutti hanno bisogno di merda al di sotto di sé. Quando un francese pensa ai ritals, si sente grande, forte, robusto, pieno di denti d'oro: come uno yanky".


AUSLÄNDER RAUS
Era la parola d'ordine che si leggeva sulle pareti di quasi tutte le città tedesche. E anche sul Muro, dalla parte attingibile, quella occidentale. Dove, però, c'era anche un'altra frase: "Ausländer, laat uns mit Deutschen nich allein". A "Stranieri fuori!" era speculare "Stranieri, non lasciateci soli fra noi tedeschi". Insieme a una intramontabile e radicata xenofobia, la volontà di dichiararsi una "società multirazziale" grazie a un'immigrazione che dura ormai quasi ininterrottamente da circa novant'anni, durante i quali è accaduto tutto e il contrario di tutto.
La trasformazione della Germania da Paese di emigrazione in Paese di immigrazione si verificò nei primi anni di questo secolo. Il censimento del 1910 registrò già 700 mila operai stranieri stabili, senza contare i flussi di lavoratori stagionali (tra i quali gli italiani erano molto forti) e le migrazioni interne di polacchi provenienti dalla Prussia orientale e diretti all'industria del carbone e dell'acciaio nella Ruhr. Gli immigrati della Russia (il 42 per cento del totale) venivano invece collocati in agricoltura, mentre i lavoratori provenienti da aree arretrate (essenzialmente dall'Impero austro-ungarico, ma anche da altre zone europee) trovavano un posto nell'industria (anche qui secondo gerarchie riconoscibili e concentrazioni in settori specifici: gli italiani, ad esempio, nella costruzione delle ferrovie e delle strade).
Negli anni Sessanta, l'attualità della lettura di questi dati fu determinante. Di nuovo un apparato industriale di dimensioni enormi e in rapida espansione attraeva un numero crescente di lavoratori stranieri (ma questa volta dal Sud, dal bacino mediterraneo, anziché dall'Est). E di nuovo si assisteva a una forte gerarchizzazione secondo la provenienza nazionale dell'immigrazione. Quando l'immigrazione si concentra simultaneamente sia nel cuore della produzione industriale sia in settori periferici, le parole d'ordine xenofobe hanno un'eco limitata e strumentale. Ne è prova la campagna del giornale Bild agli inizi degli anni Sessanta, che finiva con la dichiarazione dell'allora Cancelliere Ehrard: "Basterebbe che ciascun tedesco lavorasse 10 minuti al giorno in più per fare a meno degli immigrati". Non si rendeva conto, il Cancelliere, che un tasso troppo alto di xenofobia avrebbe messo in pericolo lo stesso sviluppo. Ma questo non è sufficiente a spiegare la relativa innocuità di "Stranieri fuori!" in una società che appena qualche decennio prima aveva vissuto il razzismo più distruttivo dell'era moderna.
Sono note le vicende dell'antisemitismo e dello sterminio degli zingari. Meno conosciuto è il destino dei lavoratori deportati durante la guerra. Fra il 1939 e il 1944 il numero dei lavoratori tedeschi era diminuito da 39 a 28 milioni, mentre quello dei lavoratori stranieri, volontari o forzati, era salito da 300 mila a 7 milioni e mezzo. Per aumentare la produzione bellica, le fabbriche, i campi di prigionia e quelli di concentramento crearono delle simbiosi mostruose, con metodi che "razionalizzavano", coniugandole, l'organizzazione del lavoro con la disciplina di guerra. E' opinione comune che le capacità produttive create allora costituirono uno dei presupposti del "miracolo economico" degli anni Cinquanta (e gli italiani giunti allora alla Wolkswagen abiteranno ancora per anni nelle baracche degli antichi deportati). Il fenomeno durò fin quasi alla fine degli anni Sessanta. Non esisteva più l'antico orrore, ma si proiettava la stessa ferrea organizzazione nelle fabbriche. Il razzismo diffuso in Germania tra gli anni Cinquanta e Sessanta era dunque caratterizzato da una forte dose di dominio tecnocratico, e quindi impersonale, con governi, opinione pubblica e sindacati d'accordo nel ritenere gli immigrati solo temporanei "gastarbeiter", ossia "ospiti lavoratori".
Il modello entrò in crisi dopo circa dieci anni. La recessione economica del 1966-67 dimostrava la necessità della presenza di stranieri, anche se in regime di licenziabilità e di mobilità di ritorno. Dopo il 1968, e non a caso, le autorità, soprattutto quelle locali e regionali, presero coscienza dei problemi dell'integrazione sociale. All'inizio degli anni Ottanta si affermò l'idea che la società tedesca presentava alcuni aspetti multirazziali non più reversibili.
E tuttavia, basta leggere il bellissimo libro di Wallraff, Faccia di turco, per accorgersi quanto il razzismo si sia arricchito di nuovi aspetti. L'escalation ha visto vittime prima i bambini, poi le donne, poi gli immigrati italiani, poi quelli turchi, poi quelli asiatici, e sempre i "deboli". La crisi dell'occupazione industriale che impediva l'assorbimento delle nuove ondate di immigrazione, soprattutto degli asilanti e dei profughi-Umsiedler dell'Est, rese più difficile il perbenismo di chi "non ha nulla contro lo straniero che lavora". Soprattutto fra gli strati meno protetti della società tedesco-federale e fra i giovani si diffuse l'odio contro "chi ci toglie il lavoro, o peggio, viene qui da parassita per sfruttare il nostro sistema di sicurezza sociale".
E proprio in questi anni questo tipo di ragionamento si è rivolto dapprima contro i tedeschi dell'Est, poi da parte dei tedeschi dell'ex Est contro i lavoratori stranieri, turchi e asiatici in particolare.


RAZZA BIANCA RAZZA NERA RAZZA ITALIANA
Il manuale di storia sul quale si prepara l'esame di letteratura americana aveva una precisa descrizione degli immigrati che scendevano dalla passerella a Ellis Island: "Ebrei orientali avvolti nei loro scialli... Italiani olivastri ... ". Le alterità erano definite in base a uno scialle, o al presunto colore della pelle. Per gli italiani, l'idea che appartenessero alla razza bianca non era universalmente condivisa. La pelle restava "olivastra". Fino al giorno in cui (eravamo nel 1928) comparve una "sottorazza": sul certificato di sbarco comparve la frase: "Razza: Italiana-meridionale". E subito dopo venne specificato "Razza: meridionale-contadina".
Alla divisione razziale tra Nord e Sud si aggiunse la sovrapposizione tra italiani urbani e italiani rurali. Con una distinzione in più. Per essere di razza bianca, oltre che italiani, settentrionali e non contadini, bisognava avere soldi. "Ci sono molti italiani ricchi che fino a poco tempo fa non avevano niente - si legge nell'autobiografia di Rocco Corresca, un lustrascarpe napoletano immigrato a New York, scritta intorno al 1906 - quelli che hanno più soldi si allontanano dagli altri italiani e vivono con gli americani". Nasceva l'intra-razzismo.
Gli italiani, comunque, erano una specie di entità fluida, intermedia, a cavallo fra bianchi e neri. Diversi, comunque, dagli altri etnici ("wops", "guineas", ecc.). Un esempio: nei libri contabili dei piantatori, sempre negli anni Venti, non era raro trovare la forza-lavoro elencata in tre gruppi distinti: bianchi, neri e italiani ("ai-talian"). Joseph Logsdon, che ha studiato gli italiani di New Orleans (quasi interamente di origine siciliana, con forti componenti meridionali), nota che questa minoranza era bollata come "affine alle razze color marrone" e considerata "altrettanto pericolosa" dei neri. Non a caso, facevano notare i sostenitori della supremazia razziale bianca, gli ai-talian si adattavano a fare gli stessi lavori dei neri, considerati inferiori alla dignità dell'uomo bianco: avevano la stessa "propensione criminale" e vivevano in "analoghe condizioni per scelta".
La tendenza dei siciliani ad organizzarsi in forme chiuse, segrete, con tracce non trascurabili di omertà, non facilitava sicuramente il superamento dello stereotipo. La tensione esplose quando, nel 1890, la gang dei portuali siciliani venne accusata di avere ucciso un capo della polizia molto popolare, com'è detto in altra parte di questa inchiesta. Il linciaggio che seguì la diceva lunga sugli obiettivi dei bianchi. L'ultimo decennio del secolo, infatti, fu caratterizzato dall'abolizione dei diritti civili dei blacks, dei neri e da un'ondata particolarmente selvaggia di uccisioni e di linciaggi. In forme meno estese, limitate soprattutto ad alcune parti del Paese, le stesse cose accaddero agli italiani: gli immigrati persero il diritto di voto in Louisiana, vennero emarginati economicamente e furono vittime di linciaggi di massa (sei assassinati ad Hahnville nel 1896; tre a Tallulah nel 1899; due a Erwin, Mississippi, e quattro a Marksville nel 1901).
Una conseguenza imprevista fu che, chiudendosi su se stessa per difendersi dalla violenza e dal pregiudizio, la comunità italiana tese in qualche modo a identificarsi per davvero, anche se brevemente, con i neri, e a condividerne alcune esperienze. E non a caso i jazzisti bianchi di New Orleans, alle origini e ancora per diverse generazioni, porteranno nomi come Nick La Rocca oppure Louis Prima.
In Italia si protestò violentemente e - caso curioso nella storia delle relazioni italostatunitensi - Roma minacciò persino di inviare due cannoniere per bloccare il porto di New Orleans. Dopo la prima guerra mondiale, le nuove leggi sull'immigrazione ridussero drasticamente l'afflusso di immigrati mediterranei e dell'Europa orientale. E quando il Ku Klux Klan riprese fiato in tutta l'America, negli anni Venti, anche gli italiani risultavano nella lista dei "nemici della purezza etnica e religiosa dell'America bianca". Gli italiani, a loro volta, si organizzarono in società, clubs, associazioni legali per la difesa della loro immagine e dei loro diritti; e in famiglie mafiose, con codici di rispetto che, non andando tanto per il sottile, prevedevano esecuzioni sommarie, lupare bianche e notti di San Valentino. Cosa Nostra Americana fu figlia anche del razzismo bianco e delle brutalità dell'apartheid anglosassone.


DAGOS DI LITTLE ITALY
I primi dagos (pronunciato "daigos", dalla storpiatura del nome "Diego" con cui tuttora vengono genericamente chiamati gli italoamericani) erano siciliani sfuggiti alla iattura dell'impresa dei Mille e la conseguente assimilazione della loro isola all'Unità d'Italia. Ma l'ondata grande è della fine del secolo e i primi insediamenti sono in Sudamerica, in qualche modo più vicina, per clima e costumi, alla madrepatria. Ma raggiunge anche la parte meridionale degli States. Ed è qui, in Louisiana, che si verificherà la vicenda che segnerà per un secolo intero il conflitto tra i nuovi immigrati e la "terra promessa". La sera del 15 ottobre 1890 Dave Hennessey, rissoso irlandese, che comanda la polizia di New Orleans, viene assalito mentre rincasa da un gruppo di uomini mascherati. Ferito a morte, sussurra all'orecchio di un amico: "Sono stati i dagos". Nel giro di pochi giorni finiscono in carcere una decina di italiani. Su di loro, oltre alle parole della vittima, pesa l'odio che divide gli irlandesi, divenuti penultimi nella scala sociale a causa dell'arrivo dei siciliani e alla loro passione per la divisa da poliziotto. Si dice che Hennessey aveva messo il naso nella faida tra due famiglie italiane che si contendevano il controllo del mercato della frutta al porto. Il processo di apre in un clima di palese intolleranza. Ma l'ira, furibonda, scatta alla fine, quando gli imputati saranno assolti. Il giorno dopo la sentenza, seimila persone si radunano a Canal Street e marciano sulla prigione. Nessuno li ferma, saranno anzi proprio le autorità a lasciare che le porte siano aperte e i "colpevoli" trascinati fuori. Le cronache raccontano che dopo il linciaggio molti corpi saranno ritrovati mutilati. Il settimanale dell'epoca Leslie's Weekly commenta: "Probabilmente nessuna persona onesta, ragionevole e intelligente negli Stati Uniti piange la morte degli undici siciliani. Che fossero oppure no membri della Mafia, certamente appartenevano alla più bassa classe criminale e meritavano di incontrare una fine violenta". Amen!
Dopo il massacro, l'Italia rompe i rapporti diplomatici con gli Usa, ma se la polemica tra Stati dura lo spazio di un mattino, gli italiani d'America restano bollati per sempre. E quando tra la fine del secolo e la prima guerra mondiale gli immigrati arrivano in massa nel Nuovo Mondo (dalle sole province di Trapani, Agrigento e Palermo sbarcano in 600 mila; due milioni dall'intera penisola) la xenofobia anglosassone sceglierà i nostri connazionali come simbolo e bersaglio. "I registri dei tribunali di New York, delle contee e della corte suprema dello Stato, così come quelli degli istituti carcerari del Massachusetts - scrive il rapporto della Commissione immigrazione nel 1910 - dimostrano che gli italiani detengono il primato percentuale di violenza privata. A Chicago sono superati soltanto dai lituani e dagli slavi, ma alcuni specifici reati, come i rapimenti, sono comunque monopolio della criminalità italiana".
Italiano è sinonimo per tutti di siciliano e di mafioso, o di quella che allora si chiamava la "Mano nera", prima forma di organizzazione tra il criminale e il mutuo soccorso dei nostri emigrati in terra straniera. Ma leggendo tra le cronache del primo Novecento si scopre che la nostra comunità era accusata di un reato se possibile ancora più grave, quello di rifiuto all'integrazione. Gli italiani, si scrive nel periodo più acuto dell'intolleranza, quando dopo la prima guerra mondiale gli anglosassoni chiedono e nel 1924 ottengono il numero chiuso per gli immigrati, "sono gente che non vuole imparare l'inglese, che vive in comunità chiuse", le mille Little Italy d'America, "che vuole solo far soldi e tornarsene a casa". Singolarmente, sono gli stessi comportamenti che negli anni Ottanta sono stati rinfacciati ad un'altra grande ondata migratoria, quella degli ispanici che hanno invaso Los Angeles e New York, e che spesso, come gli altri "latini", cioè gli italiani del primo Novecento, sono "birds of passages", uccelli di passaggio, legati nelle abitudini e nella lingua alla terra d'origine dove contano di passare una vecchiaia meno misera.
Gli italoamericani dei giorni nostri non sono più dei disperati analfabeti. Il loro salario medio supera ben tremila dollari la media nazionale. E se, negli anni Venti, mentre Al Capone spadroneggiava a Chicago, Fiorello La Guardia, il sindaco più amato di New York era un'eccezione, oggi il Congresso è pieno di nomi e cognomi nostrani. Sono quelli che hanno scelto di essere americani. Come Viola Liuzzo, la giovane italiana che negli anni Sessanta combatté e perse la vita nella battaglia per i diritti civili (come Sacco e Vanzetti morirono per difendere il nome della democrazia americana). Ma, soprattutto, nell'ultimo ventennio si è originata una nuova forma di immigrazione: mentre il numero di persone che chiede il visto dichiarando l'intenzione di cambiare Paese è calato a ritmi vertiginosi (siamo da anni su una media di un paio di migliaia di persone, o poco più), sono comparsi sulla scena americana gli italiani che sbarcano in Usa "per ragioni d'affari". Una categoria un tempo sconosciuta, e che è aumentata negli ultimi due decenni del 700 per cento. Sono gli uomini e le donne del made in Italy, i ricercatori attirati dai laboratori migliori del mondo, i laureati in cerca di dottorati ad Harvard, al Mit, alla Columbia University, i manager d'azienda, i designers, gli stilisti, gli artisti, gli uomini d'affari, i titolari d'impresa, i semplici professionisti: il risvolto creativo del mondo distruttivo che faceva capo alle grandi famiglie mafiose dei Colombo, dei Genovese, dei Bonanno, dei Lucchese e di quei Gambino che esprimevano il capo dei capi, il "God-father", il Padrino, insomma, tramandatoci da Mario Puzo e dall'arte di Marlon Brando, l'ultimo dei quali, John Gotti, è stato di recente condannato all'ergastolo, mettendo fine a un mito ormai logorato dai tempi. Non a caso, Cosa Nostra americana non riesce più a reclutare picciotti, ed è in caduta a vite.
Così, i nuovi italiani non abitano più a Bensonhurst, e nemmeno a Brooklyn. Se non amano Manhattan è perché la ritengono troppo sporca e pericolosa, allora preferiscono i ricchi suburbs del Connecticut. Nessuno di loro legge America oggi, il quotidiano in lingua italiana nato dalle ceneri del Progresso italoamericano, nessuno ci pensa a iscriversi al Niaf, la potente "National Italian American Foundation", nata alla fine degli anni Settanta per vendicare gli insulti di un tempo o protestare contro le rozze ironie del fondamentalismo anglosassone. Gli italoamericani che hanno rinnegato la mafia dei padri e dei nonni, gli italiani che giungono in America con idee chiare, con progetti intelligenti, con proposte d'affari bilaterali puliti, sono d'un'altra pasta, pronti ad espellere subito gli avventurieri, anche di grosso calibro, che "ci provano" ancora oggi. Sentono di avere di fronte un grande futuro.


LA DIFFERENZA
"Il sospetto nei confronti del diverso e del forestiero non è certo un fenomeno nuovo: per i greci erano "barbari", cioè balbuzienti, tutti quelli che non sapevano parlare greco": così dice Luca Cavalli Sforza, direttore dell'Human Diversity Project all'università californiana di Stanford, unico italiano nell'elenco dei cinquanta personaggi più influenti del mondo contemporaneo. Secondo Cavalli Sforza, bisogna dire che una strategia per la vita ha le sue giustificazioni: il diverso crea ansia ed è per questo che formiamo i nostri piccoli gruppi e tendiamo a dividere il mondo in noi e in loro. Il nostro Paese, la nostra razza, il nostro partito politico, la nostra squadra di calcio. E mentre tutti gli altri sono potenzialmente nemici, noi siamo automaticamente sempre i migliori. "La pensano in questo modo i bianchi, i cinesi e probabilmente anche i pigmei, forse convinti di vivere una vita più felice".
Certo, le differenze tra le varie popolazioni umane ci sono. Ma è questione di pigmentazione di pelle e di caratteristiche morfometriche, non di geni. L'occhio, per esempio, ci suggerisce che aborigeni dell'Australia e africani siano molto simili; il sangue però ci dice che sono le due popolazioni più lontane. Per quel che riguarda noi europei bianchi, siamo frutto di una convergenza di geni per un terzo africani e per due terzi asiatici. Le differenze tra popolo e popolo (tedeschi più disciplinati, giapponesi più intelligenti, italiani più ricchi di fantasia, ecc.), si tratta di differenze piccolissime che escludono l'esistenza di una spiegazione genetica. Sono differenze culturali (i russi giocano di più a scacchi, i cinesi a ping pong, gli italiani al calcio, e via di seguito).
Per quel che riguarda gli italiani, c'è "una interessante correlazione tra la nostra storia e il nostro patrimonio genetico": nell'Italia meridionale c'è una palese influenza greca. Diversità anche in Etruria, attribuibile al fatto che quest'area è rimasta a lungo economicamente isolata. O forse hanno ragione quegli storici secondo i quali gli etruschi provenivano dall'Asia Minore. Poi abbiamo i liguri e gli abitanti dell'Appennino, dove troviamo confermata una caratteristica notata altrove: e cioè che i conquistatori tendevano a dislocarsi e ad assimilarsi nelle città e nelle pianure, lasciando quindi nelle montagne e nei luoghi più impervi un patrimonio genetico un po' vecchio. Anche tra i sardi vediamo una popolazione molto antica, quasi quanto i baschi che sono in Europa da più tempo e sono molto vicini, geneticamente e anche linguisticamente, ai ceceni. Curioso che siano simili: e gli uni tormentano la Spagna, gli altri la Russia.
Per il futuro, conclude Cavalli Sforza, ci sarà certamente meno evoluzione, perché "la medicina moderna tende ad arrestare la selezione naturale". Poi ci sono le migrazioni e la mescolanza, con l'effetto che mentre ci sarà più eterogeneità, all'interno di un singolo gruppo le differenze tra i popoli diminuiranno, e dunque ci sarà più omogeneità. Risvolto positivo: tutto questo può aiutarci a superare la follia della supremazia etnica.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000