§ IL CORSIVO

MA COME E' COMINCIATO?




Aldo Bello



Gennaro Pistolese è, uno di quei giornalisti che, all'intelligenza professionale esercitata per una lunga stagione (e stato fra l'altro direttore de "Il Sole", prima della fusione con "24 Ore"), unisce due qualità particolarmente rare: è un instancabile provocatore di idee, e ha una superba memoria storica. Nell'una cosa e nell'altra sicuramente versato grazie all'antropologia culturale e umana nella quale si è formato, provenendo da quella terra di Melfi che è stata tino dei fulcri della storia del Sud.
Pistolese, che considero orgogliosamente tino dei miei più affettuosi e generosi maestri, oltre che un amico e un prezioso collaboratore di Apulia, letto il mio precedente corsivo ("Come finisce?", Il fascicolo, 1995), mi ha riproposto il problema, rovesciandolo: "D'accordo. Ma come è cominciato?". Domanda che atterrisce, non soltanto perché inette alla prova caratura e valore delle conoscenze stratificate e delle attitudini critiche, ma anche perché stana - come non modesta proposta per prevenire - un altro complesso quesito: "A che punto è la notte?", che non può non tener presente la chiarezza - illuministica prima ancora che climatica e latitudinale - del Sud: essendo tautologico il principio secondo il quale più intensa è la luce e più nere sono le ombre.
Rispondere ai due interrogativi significa ragionare sull'intera questione meridionale, il che richiederebbe la stesura di una sterminata enciclopedia. Allora, dobbiamo dare per scontate alcune cose: che Roma ebbe via libera in Magna Grecia e in Sicilia solo dopo avere spezzato le reni ai Sanniti, con una campagna di tre guerre che tuttavia non riuscì a sottomettere del tutto questo e altri popoli, primi fra tutti i Bruzii e i Lucani; che, caduta Roma, quella Magna Grecia e quella Sicilia furono terre di invasioni, saccheggi, scorrerie e spoliazioni per una lunghissima età; che l'ostilità pontificia nei confronti di Federico Il cancellò le residue speranze del Sud di vivere una rinascita e diede luogo alla nuova ondata di invasioni, con gli Angioini che raschiarono il fondo del barile e con gli Aragonesi che tentarono di divorare persino il barile; che i Borboni non furono poi quel flagello che la mitologia coeva attribuì a una definizione in realtà mai espressa dal Gladstone, ma alternarono re imbelli e monarchi illuminati, diedero un minimo di unità e coesione a un Sud che per secoli era stato una landa di etnie decimate, deportate, disperse, fecero di Napoli non una, ma la capitale europea del '700, e semmai si privarono degli attributi quando, dopo la rivoluzione del '99, spedirono sul patibolo un paio di migliaia di persone, di ""intellettuali" che avrebbero potuto rappresentare il fior fiore della classe dirigente del Reame; che l'annessione piemontese si abbatté con la violenza selvaggia di una normalizzazione, al punto che l'ordine regnò a Mezzogiorno soltanto dopo la "riconquista", che fu una cronaca quotidiana di stragi in gran parte contadine e di diktat "anti-brigantaggio"; che l'800 tramontò su un paesaggio meridionale desolato, immiserito, economicamente ancora più devitalizzato da tasse e balzelli, da protezionismi unilaterali e da leve di primogeniti che finivano per togliere braccia alle campagne e pane alle bocche meridionali; che il primo dopoguerra spezzò il fragile filo unitario che era germogliato nelle trincee del Carso; che il fascismo scrisse - a torto - che la questione meridionale era superata grazie alle bonifiche pontine, all'acquedotto pugliese, alla battaglia del grano, a quota 90 e soprattutto in nome e in virtù della forte spinta nazionalistica impressa a un Paese che vedeva Piemonte, Liguria e Lombardia industrializzarsi in senso moderno, mentre il resto della penisola sopravviveva con l'agricoltura estensiva e con l'industria bellica sparsa (corazze e cannoni a Terni, cantieri navali a Taranto, poche ciminiere di secondo e terz'ordine altrove); che il secondo dopoguerra ci riconsegnò, grazie agli americani, il gotha di una mafia che, cresciuta a New York, a Los Angeles, a Chicago, rinsanguò le vene sclerotizzate delle vecchie famiglie siciliane; che la Prima Repubblica non seppe, o non volle, metabolizzare le "nuove mafie", ancora vernacole, paternalistiche e latifondiste, assorbendole nei circuiti della legalità invece di farle sviluppare nel business edilizio, preludio alla potenza economica con l'innesto lucrosissimo dei traffici di stupefacenti e di armi, e alla potenza politica con la pratica della corruzione e del voto di scambio.
Dato per ovvio tutto questo - e chi dice il contrario mente per la gola - vediamo di capire, scrivendone per sommi capi, "com'è cominciato".
Innanzitutto c'è stata, in Italia, una crisi costante della dimensione "materiale" della vita pubblica, che si è sostanziata in due aspetti fondamentali: le difficoltà economiche e finanziarie, da una parte; e le disfunzioni amministrative' dall'altra. Ma vi è stata anche un'altra dimensione, della quale si parla poco, o si preferisce non parlare affatto, un po' per la sua natura fondante, un po' perché ricade sugli stessi fattori materiali cui accennavamo, e che al popolo bue vanno sempre sottaciuti: il collasso degli elementi "simbolici" della realtà collettiva. Ha scritto Domenico Fisichella: " Quando si parla di un travaglio "simbolico" del nostro Paese, solo parzialmente si vuol fare riferimento ad una crisi morale. C'è anch'essa, naturalmente, ma affrontando certi argomenti non bisogna indulgere in moralismi troppo drastici e indiscriminati. L'ulteriore aspetto sul quale merita soffermarsi ha soprattutto una caratura di tipo intellettuale". E l'aspetto che mette in evidenza una grande incapacità delle classi dirigenti italiane a vedere e ad affrontare un triplice ordine di prestazioni.
In primo luogo, dall'Unità ad oggi, c'è stata e persiste una micidiale carenza di attitudine predittiva. Tant'è che tutt'ora c'è - logica conseguenza - un'abdicazione della storia a favore della cronaca. L'attualità (ai tempi della guerra civile, o delle campagne contro il brigantaggio che rifilar si voglia; come ai nostri giorni di terrorismo mafioso) oscura ogni capacità e ogni volontà di prevedere il futuro. Non si sa - non si è mai saputo - leggere l'avvenire, così come (e in larga parte perché) non si sa - non si è mai saputo - leggere il passato. Ne discende a rigore che lo stesso presente diviene una rappresentazione incomprensibile. Così, noi abbiamo la consapevolezza che il Sud è stato fino a ieri soltanto l'area arretrata di una società progettualmente dualistica. Ma oggi al pensiero debole del Paese che conta (l'altra Italia) questo non basta più: il Sud deve essere l'inferno; anzi, lo è sempre stato. Non per niente il valoroso generale Raffaele Cadorna (quello della futura rotta di Caporetto) mise mano all'artiglieria per fare a pezzi le bande di straccioni che già nel 1866 avevano fomentato la rivolta di Palermo; non per niente alle reali e presunte trame restauratrici (borboniche, pontificie, pseudo-napoleoniche) si rispose con la ferocia della "Legge Pica", che consentì di passare sommariamente per le armi chiunque fosse soltanto sospettato di collusione con i briganti; non per niente si è alimentato il mito della continuità-contiguità tra il banditismo (dei Liandru e dei Tandeddu in Sardegna; dei Canepa e dei Giuliano in Sicilia) e il separatismo: salvo poi a disfarsi dei fuorilegge con metodi sbrigativi, con la complicità di luogotenenti prezzolati (e a loro volta fatti fuori) o con imboscate a orologeria.
Allora: chi è stato il padre che ha generato questo Sud infernale? Tutti, cioè nessuno. Gli esegeti dell'ultima ora hanno individuato un'inseminazione di massa; neanche uno stupro, ma semplicemente una gigantesca copula collettiva. Tanti dèi, nessun dio, dicevano i filosofi ellenistici. Tanti padri, nessun padre. E a me viene un dubbio: che dopo avere ipotizzato una società meridionale senza antenati, oggi si voglia preparare una società meridionale da penalizzare nei suoi discendenti. L'unica capacità predittiva di questo Paese straziato si manifesta unilateralmente quando si conferma che la guerra dualistica continua. Che progetto cinicamente geniale!
Il secondo aspetto intellettuale della crisi "simbolica" si sostanzia nella rinuncia a selezionare i fini e i mezzi dell'azione collettiva del Paese. Non abbiamo più metri per compiere quest'operazione, difficile ma non impossibile. Due, essenzialmente, le deformazioni da mettere in rilievo. Da una parte si è affermata una ipertrofia economicistica, un'insistenza quasi ossessiva, yuppistica in ritardo sul resto del mondo occidentale industrializzato, sull'esclusiva dimensione economica e finanziaria. Nessuno, ovviamente, può negare l'importanza del risanamento in questo campo che ha anche una funzione strumentale di portata più generale: senza risorse, c'è poco da mettere in cantiere. Ma, a parte l'inettitudine storica a realizzare questo scopo, e a parte gli squallidi egoismi nei quali si esercitano instancabilmente territori regioni province comuni quartieri circoscrizioni case sparse e aie, il punto da segnalare è che per il perseguimento del riequilibrio economico e finanziario si sono sacrificati aspetti creativi e fondanti della vita pubblica (chi non ricorda l'ironia sprezzante nei riguardi degli "intellettuali di Magna Grecia"?), mentre si è tenuta in piedi larga parte di quella zavorra improduttiva che ha costituito nello stesso tempo l'origine autentica della crisi "materiale" e la vera palla al piede della rinascita del Sud.
Il passo verso il terzo peccato intellettuale è dunque breve. Abbiamo chiuso gli occhi di fronte all'impegno di fissare (e mantenere con rigore e con lealtà) scale di priorità, gerarchie delle esigenze e dei doveri collettivi. Ci rifiutiamo e non siamo capaci di prevedere e di selezionare; rinunciamo a ri-deliberare priorità e doveri. Cioè: non intendiamo interrogarci consapevolmente circa il ruolo del Sud nello scacchiere nazionale, circa le prospettive europee e mediterranee, circa le opportunità e i rischi futuri, circa le opzioni che dovrebbero derivarne. Anzi, non possediamo più le categorie culturali e i paradigmi mentali per configurare e realizzare operazioni del genere. Non è un caso se abbiamo deciso di mettere in soffitta, con la scusa di consegnarli alla memoria storica, i grandi meridionalisti. E non è un caso se, a confronto con loro, oggi parlano e scrivono del Sud pallidi fantasmi o mercenari della penna travestiti da crociati, ma alla rovescia: non tesi alla conquista del Santo Sepolcro, ma decisi a disancorare e a mandare alla deriva africana il Muro del Pianto, il rudere-Sud che un'Italia ricca e beota abbandona al mercato delle libere adozioni dopo 135 anni di cosiddetta "Unità".
Queste tre lacune intellettuali hanno avuto una radice comune: l'eclissi della vocazione nazionale. Ad un certo punto, non ci è interessato più comprendere, studiare, calcolare le priorità, perché l'interesse di quell'Europa marginale che è l'Italia del Nord era una prospettiva rasa al suolo da decenni di indifferenza, di negazione, di ambiguo tornaconto. Le forze politiche, economiche, sociali italiane dovevano rendersi conto che il loro primo appuntamento mentale era con la crisi "simbolica" del Paese. Dovevano capirlo per tempo, pagandone i costi relativi, che poi si sarebbero trasformati in benefici per tutti. Non lo hanno capito. Oppure, avendolo perfettamente capito, hanno subdolamente optato per il doppio binario, per la doppia faccia, per la doppia lingua. E questa generale doppiezza hanno confermato con la "ricostruzione" delle macerie fisiche, economiche e "morali" dopo il secondo conflitto mondiale. Le mafie, l'arretratezza, l'inferno, il Sud insomma, sono cominciati qualche ora dopo l'incontro garibaldino-savoiardo in un'osteria dalle parti di Teano. E per questo siamo arrivati, nudi e crudi, alle sfide cruciali dei nostri giorni, lanciate dalle osterie che ciondolano dalle parti di Pontida.
C'erano stati avvisi ai naviganti durante il corso d'opera? C'erano stati, eccome! Nella celeberrima battuta del Gattopardo (1956) di Tomasi di Lampedusa ("Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi") riecheggia, insieme con sarcasmo e malinconia, la sfiducia storica che Giovanni Verga aveva già espresso nel Malavoglia (sessantatre anni prima, nel 1881). E' in questo grande affresco che le idee riformistiche si identificano con un personaggio-caricatura come lo speziale don Franco, pronto a sventolare il tricolore quando gli fa comodo. Nei Viceré (1894) di Federico De Roberto il cinico Consalvo, ultimo rappresentante della nobile, famiglia degli Uzeda, disponibile a tutto pur di conservare gli antichi privilegi feudali, diventa deputato al Parlamento, mentre l'ex garibaldino Giulante, nel quale si incarnano le attese di rinnovamento della borghesia liberale, viene sconfitto alle elezioni. Anche il Pirandello de I vecchi e i giovani (1913), attraverso il personaggio di Roberto Auriti, fa naufragare miseramente le speranze di redenzione delle plebi meridionali, rievocando lo scandalo della Banca Romana nel quale fu coinvolto lo stesso Giovanni Giolitti.
D'altra parte, scrittori che si sono frequentemente misurati con il tema della speranza politica tradita non sono rari. Vasco Pratolini passò dall'illusione operaia di giustizia sociale (Metello, 1955) agli anni del fascismo e della guerra civile (Lo scialo, 1960), giù giù, fino a più recenti delusioni ideologiche (La costanza della ragione, 1963). Beppe Fenoglio fu invece il cantore del disinganno dei partigiani: in La paga del sabato (1969) racconta il difficile reinserimento sociale di Ettore, ex comandante dei gruppi di liberazione nazionale, il quale non riesce più a ritrovarsi nell'Italia dell'immediato dopoguerra. Tutta l'aspettativa di rinnovamento istituzionale suscitata dal "boom economico" degli anni '60 ha avuto in Luciano Bianciardi (L'integrazione, 1960; La vita agra, 1962) un precoce dissacratore. Ma non bisogna dimenticare, sulla stessa linea, i libri di Bernari, Ottieri, Volponi ed altri narratori: a dimostrazione ulteriore di quanto costoro siano sempre stati estremamente scettici sulla volontà e sulla capacità di cambiare per davvero il volto dell'Italia.
Tutto è fatalmente, e direi irrimediabilmente nato dall'ingiustizia. E più precisamente dalla Giustizia che non ha mai fatto giustizia. Nel momento in cui di fronte a quella Giustizia saturnina, esclusivamente repressiva, soprattutto discriminante (assai prima che nascessero le mafie organizzate essa applicava le leggi per i nemici, ma le interpretava per gli amici), molti furono portati, e moltissimi spinti, a crearsi una giustizia nominale, da codici d'onore, di autodifesa, di vendetta. Nacquero così due forze di pressione dominanti: una esterna, politico-economica, sostanzialmente lobbystica, appoggiata dall'ascarismo trasformista meridionale; l'altra interna al Mezzogiorno, criminale, partenogenetica, raramente colpita con efficacia nei suoi gangli vitali e nei collegamenti con la prima, proprio perché ha rappresentato storicamente lo strumento cardine di condizionamento del Sud. Era in queste sottoculture che si doveva incidere, affondare il bisturi; questi intra-Stati apparentemente contrapposti dovevano essere messi a ferro e a fuoco.
Essendo avvenuto il contrario, le lobbies del Nord si sentono nel diritto di reclamare scissioni, separatismi e velleitarie guerre di liberazione dal Sud, mentre dall'alto del suo universo eslege e della sua "intelligenza" scampata a secolari umiliazioni e ormai votata a una filosofia sulfurea della vita, nel Giorno della civetta di Sciascia il boss don Mariano può spiegare all'ufficiale settentrionale dei carabinieri: "Io ho una certa pratica del mondo e quella che diciamo umanità la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini, i mezzi uomini pochi, che mi contenterei che l'umanità si fermasse ai mezzi uomini. E invece no, scende ancora più in giù, agli ominicchi che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù i pigliainculo che vanno diventando un esercito, e infine i quaquaraquà che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione che quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo. E le pare cosa da uomo ammazzare o far ammazzare un altro uomo? Io non ho mai fatto niente di simile. Ma se lei mi domanda, a passatempo, per discorrere di cose della vita, se è giusto togliere la vita a un uomo, io dico: prima bisogna vedere se è un uomo".
Don Mariano denuncia così, di fronte all'ufficiale che rappresenta lo Stato, l'incompatibilità legge-Sicilia, e per estensione non arbitraria legge-Sud (o altre parti del Sud), in nome e a causa dei compromessi, delle viltà, dei tradimenti di una Giustizia che, abbandonando i meridionali a se stessi, non "lavandoli", come avrebbe voluto Cavour, ma togliendoli la pelle e imponendosi col suo volto autoritario, partigiano, strumentale, ha orribilmente lacerato la struttura unitaria del Paese: che c'era, sia pure con la sua fragilità e con le sue contraddizioni, con le reciproche illusioni-delusioni, con gli squilibri dei "mille campanili", con quant'altro si voglia. Si sarebbero dovuti federare i contrasti, le differenze di lingue e di costumi, di tradizioni e di riti, di culture insomma, valutandoli per quel che erano, una ricchezza variegata, creativa, originale; si sarebbero dovute bilanciare economie e diseconomie con un'opera di rinnovamento delle strutture produttive, scolastiche, di viabilità e di comunicazione. C'era un lavoro sterminato, è vero. Ma nessuno tentò di impostarlo, per quanto si sia scavato negli archivi non si è trovata traccia di un solo progetto nazionale, unitario, articolato. Risultato: la "locomotiva" del triangolo industriale era nuova fiammante, ma trainava un treno di carri-merci sgangherati e di carri-bestiame putrescenti. Il Sud rimase profondamente solo. E volse la sua intelligenza in disperazione e in tracotante orgoglio, come quel don Mariano del quale Sciascia può dire: "E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era sempre stata soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?".
Ecco "come", ma anche "perché" è cominciato. Ma possiamo consentirci di uscire dalla gabbia delle date sterilizzate nei volumi di storia patria, perché crediamo di sapere esattamente anche "quando è cominciato", vale a dire quando sono nati i progenitori di don Mariano, lo scialle nero della storia meridionale, l'inferno del Sud. Abbiamo un testimone definitivo in proposito, un pentito ante litteram: Giuseppe Garibaldi in persona, e diteci se è poco.
Tutto è cominciato il giorno in cui il conquistatore del Sud scrisse ad Adelaide Cairoli: "Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male; nonostante ciò non rifarei la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore, e suscitato solo odio". Allora: chi scaglia più la prima pietra?


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