§ DAL SUD AL FUTURO

TRE PUNTI PER COMINCIARE




Elio Rovatti



Giorno dopo giorno, e anno dopo anno, gli allarmi lanciati dalle statistiche sul quadro socio-economico del Mezzogiorno indicano che il malato è sempre più grave e sembra non reagire a nessuna delle terapie tentate fino a questo momento. Né pare emergere un progetto politico o profilarsi una strategia chiara e unitaria per risollevare quel terzo di popolazione con livello di reddito inferiore a quello della maggior parte dell'Italia, ma - come riferiscono ultimi dati - superiore alle proprie capacità produttive. Come dire che, con la riduzione dei trasferimenti, il Mezzogiorno non può che peggiorare. Non solo. Rispetto alle decennali aspettative di una riduzione significativa del divario Nord-Sud, ogni recessione dell'economia italiana rappresenta per il Sud un peggioramento più che proporzionale dei principali indicatori macro.
Come intervenire, allora, per riuscire non tanto a ridurre il divario Nord-Sud, ma per lo meno a bloccare il progressivo allontanamento del Mezzogiorno dal resto del Paese? Un segnale importante è stato quello di un convegno tenuto da Confindustria a Catania. Importante perché ha riaffermato il Mezzogiorno come uno dei nodi centrali dell'economia italiana ("Un problema straordinario", ha ammesso nientemeno che l'avvocato Agnelli); ha riacceso il dibattito sulla formulazione di strategie di intervento; ha mostrato un Sud voglioso di trovare una forza propria, anche se con l'aiuto - peraltro necessario - delle aree più sviluppate del Paese. Entrando nel merito, si possono fare alcune considerazioni importanti.
Primo. In presenza di due aree con diversi livelli di sviluppo in uno stesso sistema economico, e in assenza di un intervento esterno al mercato, si determina un aumento del divario. Non si tratta allora di discutere se lo sviluppo futuro del Mezzogiorno debba partire dal sostegno ai settori produttivi oppure dalle infrastrutture. Le attività sono complementari e vanno portate avanti congiuntamente. La competitività non è soltanto dell'impresa, ma dell'intero sistema all'interno del quale essa opera. In questa logica, ci si deve augurare che i fondi strutturali europei vengano incanalati sul territorio e distribuiti in tante Pini, possibilmente di giovani imprenditori, per creare servizi e infrastrutture, e passando dalla cultura dell'appalto alla cultura del Project Financing.
Secondo. Nelle regioni del Mezzogiorno la capacità delle amministrazioni - peraltro ampiamente sovradimensionate - è inadeguata rispetto alle esigenze dello sviluppo. E', questo, un tema scottante, perché coinvolge larga parte del pubblico impiego. Ma è un tema che costituisce una delle componenti strategiche per lo sviluppo: la diffusione dell'informazione. Per questo sono importantissimi quei progetti che tra gli obiettivi si pongano la promozione di imprenditorialità e lo sviluppo di una moderna cultura d'impresa, senza perdere di vista le caratteristiche proprie delle regioni meridionali.
Terzo. Su questo tema si inserisce una ulteriore considerazione. L'importanza decisiva assunta nei sistemi economici dall'innovazione come fattore strategico di sviluppo non favorisce certamente le aree periferiche e in ritardo, com'è nella sua interezza quella del Mezzogiorno continentale e insulare. Le imprese del Sud considerato nella sua totalità, infatti, tranne le debite eccezioni, hanno una scarsa competitività sui mercati, dovuta anche al basso tasso di innovazione (ma dovremmo ricordare in proposito gli scarsi effetti delle leggi in merito).
L'intervento pubblico nelle regioni meridionali attraverso la creazione di parchi scientifici, di poli tecnologici, di business and innovation centres, si è posto quindi l'obiettivo di costituire nuclei forti di informazione e di tecnologia. Il rischio, tuttavia, è che vengano realizzate strutture incapaci di dialogare con le realtà locali, che si propongano come "interventi dall'alto" non collegati alle esigenze delle imprese.
E' vero anche che puntare su produzioni non allineate con il resto del Paese fa correre dei rischi, dal momento che la concorrenza dei Paesi a costo di manodopera minore può con buone probabilità generare uno spiazzamento dei prodotti più tradizionali. L'ipotesi - da più parti e da parecchio tempo ventilata - di abbassare nelle aree meridionali il costo del lavoro può allora anche essere perseguita in quest'ottica, a patto che si inquadri in una strategia che consenta a tutte le regioni meridionali di sfruttare in modo pieno l'eventuale maggiore competitività che ne deriva.
Ultima considerazione da fare. Occorre una duplice inversione di rotta nella cultura italiana. Il Nord non può presumere di continuare a considerare il Sud come sbocco di mercato, e solo sbocco di mercato. Deve allargare il campo delle esportazioni dei propri prodotti, confrontandosi con la qualità, i prezzi, l'organizzazione distributiva dell'Europa. Ciò significa fra l'altro che deve rendersi conto che la politica degli interventi a favore del Sud, ma sostanzialmente destinati al "ritorno" nelle aree settentrionali, non ha più alcuna ragion d'essere. Ormai sviluppo del Sud significa sviluppo dell'intero Paese, così come arretratezza del Sud vuol dire caduta dell'intero Paese. E il Sud, da parte sua, deve rimboccarsi le maniche, rischiare quel che risparmia e accumula, invece di votarsi al consumismo, come ha fatto finora. E' in gioco il futuro dei suoi figli. E non ha più tempo da perdere. La vita dell'intero Paese si gioca sul filo di questa doppia rivoluzione culturale. Al di fuori della quale c'è soltanto l'abisso.


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