§ DIBATTITI / PROPOSTE

PER USCIRE DALL'IMMOBILISMO




Carlo D'Amelia



I giovani imprenditori del Sud parlano senza reticenze e reclamano efficienza, trasparenza di scelte e i servizi, cioè strade, acqua, energia, banche competitive, trasporti funzionanti. Non intendono elemosinare risorse pubbliche, ma vogliono poter lavorare nelle stesse condizioni in cui operano gli imprenditori del Nord. Questo, sostengono, è un dovere da cui lo Stato non può prescindere. E precisano: "Devono essere recuperate anzitutto le condizioni di vivibilità: ciò significa che, ad esempio, la lotta alla criminalità organizzata non si vince con le fiaccolate, o non con quelle soltanto, ma soprattutto con lo sviluppo". E questo si realizza attraverso l'impegno pubblico e con una maggiore incisività propositiva delle parti sociali.
Così, sono chiamati direttamente in causa Confindustria e sindacati, colpevoli di non aver sufficientemente "incalzato le istituzioni e di non aver trovato risposte adeguate al dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile". Altro punto di critica: la flessibilità non si risolve col salario d'ingresso, ma consentendo agli imprenditori di poter assumere a tempo determinato senza il timore di ritrovarsi a distanza di pochi mesi con esuberi non contenibili. E basti pensare a un settore come quello del turismo, che soffre dell'impossibilità di poter dare lavoro quando ce n'è effettivamente bisogno: l'elasticità tra domanda e offerta di lavoro è un presupposto indispensabile ma non sufficiente per risolvere il ritardo dello sviluppo delle regioni meridionali.
Alle imprese del Sud occorrono anche lavoratori che abbiano una formazione professionale capace di fronteggiare le nuove esigenze del mercato. Un obiettivo che si raggiunge solo attraverso una forte integrazione tra scuola e mondo del lavoro, tra imprenditori e pubblica amministrazione. In Sicilia, ad esempio, si è portato a termine uno dei pochi esperimenti di formazione che abbiano dato risultati concreti: sono stati messi insieme manager privati e grand commis della pubblica amministrazione. Si è trattato di un esperimento proficuo, che ha consentito agli amministratori pubblici che vi hanno preso parte di diventare consapevoli del valore del "fattore tempo" per l'imprenditore. Qualsiasi progetto di investimento, infatti, ha bisogno di risposte rapide e certe. Ma anche gli imprenditori hanno imparato qualcosa: il rispetto delle procedure, l'importanza di presentare documentazioni complete. Ma questo resta un caso isolato e peraltro neppure adeguatamente sostenuto, mentre dovrebbe essere considerato da parte di tutte le regioni meridionali un esempio da seguire.
Tutti i soggetti potenzialmente promotori dello sviluppo devono acquisire una nuova mentalità. E, tra questi, un posto di rilievo lo occupano necessariamente le banche. Molto sta cambiando, in questo campo, soprattutto nel campo della concorrenzialità, della corretta selezione degli investimenti, della valorizzazione dei progetti imprenditoriali che mirano allo sviluppo della produzione e dell'occupazione. Ma anche sul credito emerge una diretta responsabilità degli imprenditori, i quali troppe volte, com'è stato notato in un recente convegno a Catania, "non credono sufficientemente nelle potenzialità della loro azienda". Sono scarse le ricapitalizzazioni e manca la disponibilità di aprire l'impresa a soci esterni. Il paradosso è che tutto questo avviene in aree in cui il risparmio è molto forte: basterebbe liberarne la decima parte per far scorrere fondi che nessun intervento straordinario ha mai stanziato. Ma, per farlo, occorrono idee e progetti validi. Infatti, i soldi, privati o pubblici che siano, possono fare ben poco se non sono accompagnati da un'amministrazione efficiente. Da questo punto di vista, fra l'altro, la riforma della burocrazia resta una priorità per qualsiasi ipotesi di rilancio del Mezzogiorno. Si può dire, con un'osservazione e con un conseguente paradosso: i giovani imprenditori meridionali pretendono uno Stato che la smetta di indossare le comode vesti dell'assistenzialismo; Cavour, Minghetti e Maria Teresa d'Austria questa strada l'hanno tracciata già da parecchio tempo.
E' pur sempre vero che non esistono ricette facili per far decollare il Mezzogiorno nel suo complesso, e le aree arretrate in modo particolare. Né esistono formule magiche per assicurare lo sviluppo. Si tratta di lavorare con determinazione e con tenacia, sapendo quali sono i nemici da battere e, in particolare, quali gli strumenti da utilizzare. E' questa l'indicazione offerta in questi ultimi mesi da chi, economisti e istituzioni, studia le condizioni per il rilancio delle regioni meridionali. Le difficoltà sono storiche, e questo nessuno lo dimentica. Qualcosa si è mosso, e anche questo va registrato. Ma è bene ammonire contro le facili speranze.
Analizziamo alcuni aspetti della situazione. Negli anni Ottanta è stata riversata nelle aree meridionali una massa di denaro enorme, 120 mila miliardi di lire. Eppure, in questi anni, è cresciuto il divario tecnologico con le regioni settentrionali, è calata la produttività, si è aggravato il processo degenerativo delle istituzioni e della società civile, tanto che lo Stato non è capace nemmeno di far rispettare l'ordine pubblico. Non si tratta, allora, soltanto di aggirare le burocrazie, ma di abbattere sistematicamente tutti gli ostacoli che si incontrano. Sapendo in partenza, però, che il lavoro sarà difficile, lungo e complesso.
La ripresa del Sud, se bene impostata, darà frutti: ma non nel breve periodo. La Germania ha ingoiato il suo Mezzogiorno; le sue regioni dell'Est, in due soli anni, hanno fatto passi da gigante. Ed è anche vero che il nostro Sud è più avanzato di quanto non lo fossero quelle terre tedesche. Ma va detto che l'Italia non è la Germania Federale, così come l'Italia non è la Germania riunificata.
Allora, che fare? Una delle possibili vie da seguire in questa complicata azione, oltre a quella dell'impianto di medie e piccole imprese d'avanguardia (e questo è compito delle istituzioni, soprattutto delle regioni: agevolare al massimo iniziative di questo genere), è certamente quella del turismo, settore ricchissimo quanto inesplorato nell'intero nostro Paese. E' inutile tentare di negarlo: manca una vera politica nazionale, e soprattutto meridionale, in questo vitale comparto. Il turismo non viene considerato per quello che effettivamente esso è: un settore economico unico e dalle grandi prospettive potenziali. Eppure, il saldo valutario del turismo è pari a 19 mila miliardi di lire, esattamente cioè un terzo dell'intero saldo attivo dell'intera bilancia commerciale, che è pari a 57 mila miliardi di lire.
Il peso del settore turistico allargato è uguale al 6 per cento del prodotto interno lordo. Ogni anno varcano le nostre frontiere cinquanta milioni di persone e, se non tutti si fermano, rappresentano comunque un potenziale immenso che non si può sprecare, ma semmai attrarre e convincere anche a ritornare.
Il punto è - ha sostenuto di recente Innocenzo Cipolletta - che il turismo non è "un bene di Dio", elargito dal cielo, ma il prodotto di una somma di sforzi, a volte molto costosi in termini di energie e di tenacia. Il compito da perseguire, secondo l'economista, è soprattutto quello di non limitarsi a mettere in piedi alberghi, ristoranti, musei, strutture che soddisfino il turista, ma creare un clima di accoglienza che attragga per davvero sia chi passa un periodo di vacanze sia chi viene per lavorare, chi vuole trasferire la sua azienda, chi viene a stabilire qui il suo domicilio. Si tratta di un notevole sforzo culturale, nel quale devono impegnarsi le istituzioni in primo luogo, perché altrimenti tutto diventa più difficile da realizzare; ma che può dare importanti frutti in termini di economia e di occupazione.
D'altro canto, per aiutare gli operatori economici, le istituzioni debbono non tanto elargire risorse, ma dare certezze circa i possibili aiuti. Cioè: è necessario mettere in piedi degli interventi di carattere automatico, perché ognuno, al di là delle discrezionalità, sappia a che cosa ha diritto.
Automaticità sembra essere la parola d'ordine non soltanto per il turismo, quanto in generale per la ripresa di tutto il Mezzogiorno. La richiesta imprescindibile è quella, appunto, di meccanismi automatici che eliminino pericolosi interventi mediatori (così diffusi ancora oggi, in particolare nelle diseconomie meridionali) e assicurino così le certezze sulle quali gli operatori possano contare per i loro programmi di sviluppo. Meccanismi automatici, ai quali non siano imposti tetti oltre i quali non possono andare gli investimenti che beneficeranno degli automatismi stessi.
Accanto a tutto questo, necessariamente, il riordino del paesaggio naturale, la tutela del mare e delle coste, l'impianto di musei, la valorizzazione delle altre risorse artistiche, la creazione di originali itinerari storico-artistici e naturali. Sotto questo profilo, le regioni meridionali sono una miniera inesauribile, utilizzata soltanto in superficie, sopra la pelle. Qualcuno ha scritto che se i greci vogliono conoscere l'arte attica devono necessariamente venire in Italia, cioè in grandissima parte nell'Italia meridionale. Così per i tedeschi, se vogliono ripercorrere storia e storie di Federico II. E via di seguito. Non dice proprio nulla, tutto questo, alle regioni e alle province? Non lo dice allo Stato? Il fatto che si debba cominciare simultaneamente, da più parti, non può giustificare l'immobilismo. Che è poi quello che ha condannato il Sud dall'Unità ad oggi. E che oggi non sembra più tollerabile.


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