§ DIBATTITI / LE OCCASIONI PERDUTE

GUIDO DORSO O L'ČLITE MANCATA




Giuseppe Galasso



E' stato osservato talora che la puntualizzazione della "questione meridionale" come problema di classe dirigente resta senz'altro come un grande merito di Guido Dorso, ed anche come un suo titolo ad apparire con qualche rilievo nella storia del pensiero politico dell'Italia contemporanea; ma che l'idea di Dorso al riguardo della soluzione di quel problema pecca per lo meno di ingenuità.
Dorso vedeva, in effetti, come protagonista della "rivoluzione meridionale" da lui auspicata, "un'élite anche poco numerosa, ma che abbia idee chiare". Le "idee chiare" dovevano derivare da una percezione della natura autentica che il problema dell'arretratezza meridionale ormai storicamente aveva assunto.
Dorso non ne faceva carico esclusivamente allo Stato unitario italiano uscito dal Risorgimento. Vedeva però nella struttura accentrata di questo Stato e nei rapporti politici stabilitisi tra le sue varie parti una ragione decisiva della permanenza del Mezzogiorno in una condizione arretrata. Bisognava, quindi, scardinare la struttura unitaria accentrata dello Stato monarchico-risorgimentale. Una larghissima autonomia politico-amministrativa del Mezzogiorno e l'assunzione delle massime responsabilità in questo quadro autonomistico da parte dell'élite a cui pensava apparivano perciò a Dorso come le due componenti di una possibile "rivoluzione meridionale".
"Rivoluzione", naturalmente, non nel senso di movimento insurrezionale, bensì nel senso di trasformazione radicale, di profonda riforma della vita politica e sociale dell'Italia e del Sud. Ma da dove sarebbe uscita fuori l'élite necessaria alla rivoluzione?
Dorso non aveva dubbi: dalla "borghesia umanistica del Mezzogiorno", ossia dalla classe sociale più criticata dai meridionalisti (si pensi a Salvemini) e dagli studiosi di politica e di sociologia meridionale. E' vero - pensava Dorso - che questa classe è stata il costante sostegno della struttura feudale, prima, e del blocco agrario, poi, dominante nel Mezzogiorno e principale avversario di ogni trasformazione e riforma meridionalistica. Ma i rapporti tra borghesia umanistica e classi dominanti non gli apparivano organici e inalterabili. Quella borghesia poteva staccarsi dalle alleanze che storicamente aveva praticato ed esprimere essa, che ne aveva la capacità culturale e tecnica, la forza richiesta dalla "rivoluzione meridionale". E ciò tanto più, in quanto l'élite a cui pensava non doveva essere un gruppo particolarmente numeroso: sarebbero bastati, a suo avviso, "cento uomini di ferro".
Come una simile élite avrebbe potuto maturare? La risposta di Dorso a questo più che legittimo interrogativo può apparire sorprendente. La formazione di una classe dirigente gli appariva, infatti, come "un mistero". Ma questa risposta può essere meno sorprendente, a mio avviso, di quanto appaia di primo acchito, se, come penso, per "mistero" si debba intendere un moto di riforma interiore, una grande spinta eticopolitica: ossia, un tipo di fenomeno storico che trae origine da forti impulsi morali e da altrettanto forti proiezioni della volontà. Il "mistero" starebbe, dunque, tutto nel fatto che questi processi non possono essere pianificati o previsti razionalmente, perché sono il frutto di maturazioni spontanee e di slanci creativi, che possono essere solo constatati quando si sono prodotti. Bisogna tener presente tutto ciò quando si critica l'idea della "rivoluzione meridionale" come problema di sola classe dirigente. E ancora più bisogna tenerlo presente quando si trova peregrina e utopistica l'idea dei "cento uomini", sia pure "di ferro". Diciamo piuttosto che l'idea di Dorso stava in una concezione della "rivoluzione" come grande primavera dello spirito, come rinnovamento intimo che mettesse capo a un uomo nuovo, come sussulto propagato a tutta la superficie dallo scuotersi degli strati profondi della società, come esplosione di una intensa carica ed energia morale. Da questo evento misterioso poteva ben emergere un gruppo in grado di assumere in maniera quasi missionaria la direzione del movimento che doveva realizzare la trasformazione del Mezzogiorno in un grande paese moderno, e cioè, per Dorso, in una grande società sul modello occidentale. Utopia? Certamente, per alcuni aspetti. Carenza di realismo? Anche, per altri aspetti. Ma quanto realismo in una utopia, che centrava il discorso del rinnovamento sul problema della classe dirigente e che faceva del rinnovamento un problema di spirito e di volontà! "Cento uomini", è una determinazione numerica volutamente approssimativa. Serve per dire che anche piccoli gruppi, se prodotti dal "mistero" che dà luogo alla formazione di una classe dirigente, potevano essere la guida autorevole sufficiente di un movimento di massa.
Dovevano avere, aggiungeva Dorso, anche "idee chiare"; e anche questa indicazione deve essere colta in tutto il suo spessore. Come a dire che, accanto al rinnovamento come spinta etico-politica e come spirito e volontà di trasformazione, si richiedeva la cultura del rinnovamento: chiarezza di programmi, di strategie, di obiettivi.
Vorrei chiedere: che cosa c'è in tutto ciò che non sia attuale ancora oggi, come lo era una settantina di anni fa, quando Dorso ne parlava? Certo, infinite cose sono cambiate da allora, e anche il Mezzogiorno non è più lo stesso e presenta un quadro molto diverso, fatto di problemi vecchi e nuovi. Ma il problema della trasformazione resta quello di un rinnovamento dello spirito e della volontà innanzitutto del Sud, in relazione alla sua vita politica e civile. Resta la necessità di una cultura del rinnovamento, che ne individui con la chiarezza auspicata da Dorso i programmi e le strategie, oltre che le finalità. Ma resta, soprattutto, il problema delle guide, della classe dirigente. Ora è diventato un problema nazionale; non è più un problema soltanto del Mezzogiorno.
Nel Mezzogiorno ne sono, però, ben più gravi e consistenti le dimensioni qualitative e materiali. Se, anzi, c'è un dato certo, indiscutibile della "questione meridionale" così come si pone oggi, è proprio il problema della sua classe dirigente, della qualità (ormai in ogni senso) delle persone che ne reggono (come suol dirsi) le sorti. Si può perfino dire che da problema di grande riflessione politica e storica siamo passati a un problema della cronaca quotidiana. Oggi, forse, ancor più che ai tempi di Dorso, il Mezzogiorno ha bisogno di quei "cento uomini" e la strada indicata da lui resta un passaggio obbligato.


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