§ Dibattiti

Sud e Federalismo




AA. VV.



In una prospettiva di federalismo italiano, qual è l'angolo di visuale del Sud? Cioè, come giudicano, le regioni meridionali, il problema del federalismo? Su questo tema, la "Fondazione Einaudi" ha promosso un dibattito, dal quale estrapoliamo tre risposte, rispettivamente di Cafiero, della Svimez, di Giustino, della Confindustria, e di Compasso, il parlamentare europeo, le cui collaborazioni a questa rivista sono note ai nostri lettori. Il tema, com'è dato vedere, non può esaurirsi qui, anche perché non è del tutto chiaro di quale federalismo parlino precisamente gli stessi federalisti, al cui interno le divisioni non sono poche né di poco conto. In ogni caso, con queste pagine intendiamo dare un contributo propositivo al problema, ripromettendoci di ritornare sull'argomento nei prossimi numeri di "Apulia".


Potrei cominciare col rilevare che il termine "federalismo fiscale" è equivoco, usato in accezioni diverse. Una prima accezione è quella della riforma dell'ordinamento costituzionale dello Stato, riferibile soprattutto a un'iniziativa del professor Miglio, che parte dall'assunto che non esiste un popolo italiano, ma un territorio italiano su cui insistono vari popoli che hanno diritto a costituirsi in Stati, macro-regioni, repubbliche semi-indipendenti, tra cui deve stabilirsi un rapporto di tipo federativo, se non confederativo. Accezione che va respinta; che almeno io respingo.
C'è poi un'altra accezione, quella del federalismo come esigenza di una modifica dell'ordinamento finanziario dello Stato, che comporta uno spostamento di competenze e del potere impositivo dal centro alla periferia, dal centro alle regioni. Ed è questa accezione, cui si riferiscono gli studi della Fondazione Agnelli e la ricerca del professor Giarda, quella che, secondo me, va presa in considerazione. Una riforma dell'ordinamento finanziario può comportare aspetti, spinte di ordine costituzionale, ma la sua essenza è di dare alla finanza pubblica un ordinamento più razionale, efficiente ed equo.
Di fronte a questa prospettiva, quale può essere il punto di vista del Sud? Bisogna, in primo luogo, riferirsi ai principi ispiratori di questa proposta di riforma federalista dell'ordinamento finanziario dello Stato. Il primo principio è quello dell'efficienza: le decisioni di spesa e di prelievo - diciamo pure di sussidiarietà - debbono essere prese dal governo a livelli il più possibile vicini alla comunità regionale su cui si riflettono i benefici ed i costi di questa politica fiscale poiché, in tal modo, sussistono le maggiori garanzie che le scelte dei governi riflettano le preferenze dei governati. Si può aggiungere che gli effetti delle decisioni di governo debbono esaurirsi nell'ambito di un determinato territorio che potrebbe coincidere con l'ambito della regione. E questo può essere un primo elemento di risposta.
L'altro è il principio di responsabilità. Gli errori del governo regionale, sia per quel che riguarda la rispondenza delle decisioni alle preferenze dei governati sia per quel che concerne errori di efficienza debbono ricadere sui contribuenti elettori di quel governo, perché ne tengano conto nelle loro scelte elettorali.
Dati questi principi, nessuna obiezione dovrebbe essere mossa nemmeno dal Mezzogiorno ad una proposta di federalismo fiscale.
Però c'è un terzo principio di grande rilevanza costituzionale, che riguarda il diritto di cittadinanza o il principio di equità che agisce in senso opposto, cioè nel senso di demandare al centro il mantenimento del potere finanziario.
Il principio di equità va inteso in due modi: uno, come parità dei diritti di cittadinanza, il che non vuol dire che la quantità dei servizi offerti debba essere uguale dappertutto (la Lucania e la Calabria chiedono all'amministrazione pubblica servizi diversi da quelli che chiede la Lombardia). Però, a parità di condizioni, ci deve essere, per qualunque cittadino, ovunque risieda, la stessa possibilità di fruire dei servizi pubblici perché se ci si dovesse affidare per la somministrazione dei servizi solo alle risorse della regione si creerebbe un enorme divario tra regioni ricche e regioni povere. Di qui la necessità di una compensazione da parte del potere centrale.
Ma vi è anche un'altra accezione del principio di equità, molto rilevante e cioè che tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità di trovare un'occupazione, di esercitare un'attività imprenditoriale, eccetera, a meno che non ci si voglia affidare alla mobilità delle persone, cioè allo spostamento dei cittadini da una regione povera ad una ricca, per appagare il desiderio di lavoro.
Occorre quindi che ci sia una politica di sviluppo regionale o, se vogliamo usare i termini della Comunità europea, una politica di coesione fra le regioni.
Considerate le esigenze di equità nelle due accezioni su considerate, se si debbono trasferire alle regioni competenze di spesa ed autonomia impositiva si deve provvedere nel contempo a realizzare un sistema di adeguato trasferimento erariale, in mancanza del quale saremo lontani dal raggiungere quei principi di equità di cui non è possibile fare a meno.
Salvatore Cafiero


La prima domanda da porsi è questa: perché è stato introdotto nel Paese il tema del federalismo, non importa se politico o fiscale? Brevemente, è da ricordare che, verso la metà degli anni Settanta, per il cumularsi di una serie di crisi, sociale, politica, industriale, economica, si è cominciata a fare una selezione tra ciò che si doveva e ciò che non si doveva fare. Da qui è nato il movimento che individuava il nemico non solo a Roma, ma soprattutto nel Mezzogiorno, che assorbiva la maggior parte delle risorse. Anche se si tratta di una visione poco culturale, ma molto pragmatica, direi che il federalismo non è nato per ragioni politiche, storiche, geografiche, ma per una volgare questione di soldi. Poi sono arrivati gli studiosi che hanno cominciato a dibattere il problema in termini culturali e scientifici.
Ora, i meridionali dovrebbero ricordare a quelli del Nord che il problema del Mezzogiorno che assorbiva risorse era nient'altro che il risultato di un patto stipulato negli anni Cinquanta tra Nord e Sud. I termini di quel patto erano i seguenti: sviluppo e consolidamento dell'industria al Nord, al quale il Mezzogiorno avrebbe fornito braccia e possibilmente cervelli. Il Mezzogiorno doveva servire da mercato di supporto e, in cambio, sarebbe stato aiutato, sotto forma di aiuti finanziari, di opere pubbliche, di infrastrutture, a raggiungere un livello di progresso civile in sintonia con il progresso del Paese. Da qui nacque l'idea dell'intervento straordinario, per raggiungere gli scopi appena indicati.
Ma che cosa è successo? Col tempo, le ragioni del patto sono venute meno, l'intervento straordinario, che riteneva una sua nobiltà anche culturale, è degenerato nel corso degli anni perché ad esso si è chiesto tutto e si è voluto far fare tutto, e ciò ha portato alla rottura dei motivi che avevano fatto nascere il patto. E' sorto un sottosistema economico fondato su di un'industria di Stato, che ha avuto come conseguenza un fatto al quale assistiamo in questi giorni, cioè che il Mezzogiorno non partecipa alla riforma del sistema industriale del resto del Paese. A questo punto è venuto fuori il discorso che ciascuna regione deve amministrarsi con i fondi che sa produrre e pagarsi i servizi che chiede, nella misura in cui lo può fare.
Ora, a mio parere, il Mezzogiorno ha molte colpe, ma, in particolare, in questo momento, ne ha una grandissima, che è quella di non sapere affrontare questo problema in termini autonomi, più originali. E' nota la storia del Mezzogiorno che è la storia di una lunga serie di dominazioni da parte di "prìncipi" diversi cui ha demandato di risolvere i suoi problemi; l'ultimo principe è stato quello di Casa Savoia, ma l'ultimissimo è stato proprio l'intervento straordinario, che si è configurato come un moderno principe al quale è stato chiesto di provvedere a tutto. L'intervento straordinario ha avuto grandi meriti, ma ha avuto il demerito di avere disabituato le autorità politiche, gli enti locali, all'autogoverno e alla responsabilizzazione dell'azione governativa. Ora il federalismo è accettato perché è la nostra ultima possibilità per autogovernarsi: ecco perché è cosa molto importante. Sono d'accordo con chi afferma che l'iniziativa debba venire dal basso; non credo ad un accorpamento delle regioni dall'alto per aumentarne le dimensioni. Questo è possibile solo sperimentando l'autonomia. Lascerei le regioni come sono, ma le modificherei nel profondo, in termini di competenze e di poteri, rimettendo allo Stato solo alcune competenze. Per quanto riguarda il "quantum" compensativo tra Nord e Sud, si tratta di un problema di "soldi" che, come tutti i problemi del genere, si risolvono senza credere nella "solidarietà", ma pensando che ci si muove sempre in funzione di determinati interessi. C'è un dato di cui non si tiene conto, il dato demografico. Le proiezioni demografiche ci dicono che, da qui a dieci anni, avremo un calo della popolazione di oltre cinque milioni di unità, calo concentrato nel Nord perché nel Sud, al contrario, vi sarà un incremento demografico. Già oggi il Sud è popolato essenzialmente da giovani, il Nord invece di anziani. Non è esatto che l'Italia abbia un tasso di disoccupazione dell'11-12 per cento: il tasso di disoccupazione va dal 5 al 7 per cento nelle aree del Nord (il Nord-Est addirittura non trova manodopera da nessuna parte) mentre nel Sud sale al 22-24 per cento, e tocca a Napoli la punta del 27 per cento.
La situazione in atto, dunque, ci dice che gli scenari sono tre. O il Nord risolve i suoi problemi con gli extracomunitari, o innesca la pompa aspirante dei giovani dal Sud verso il Nord, con gli effetti negativi degli anni Sessanta: ovvero, tra Nord e Sud si stipula un nuovo patto che consenta di creare nel Sud un'industria moderna, fondata sulla ricerca. Sono convinto che questi tre scenari, di qui a qualche anno, si compiranno da soli. In conclusione, il federalismo fiscale ha la sua ragion d'essere solo come educazione e come responsabilizzazione del Mezzogiorno a governare se stesso. Per quanto riguarda eventuali "quantum" compensativi tra Nord e Sud, occorre che si ricerchino i termini di un nuovo patto Nord-Sud, altrimenti i ragionamenti che abbiamo fatto si dimostreranno privi di senso sia per quelli del Nord sia per quelli che militano a favore del Mezzogiorno.
Enzo Giustino


Debbo dire che il federalismo è figlio del vento del Nord. Non c'è una cultura meridionalistica indirizzata verso il federalismo. Il meridionalismo liberale è stato fortemente unitario, perché aveva la coscienza e la consapevolezza che le regioni del Mezzogiorno non potessero avere alcuna esperienza di sviluppo e di progresso, al di fuori dell'impianto unitario dello Stato. Perciò meridionalisti come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti ebbero forte coscienza del rapporto tra il Mezzogiorno e l'unità statuale, rapporto unitario che equilibrava la disfunzione dello squilibrio storico che contrapponeva l'Italia del Nord a quella del Sud. Quindi il federalismo non ha avuto fortuna nella cultura politica ed economica dell'impianto istituzionale del meridionalismo, perché allora prevalevano criteri e ragioni che rendevano prevalenti i motivi dell'unità rispetto a quelli del federalismo e del decentramento.
Vorrei aggiungere che la cultura federalista, come l'abbiamo conosciuta attraverso le letture di Cattaneo e la stessa impostazione pragmatica della politica cavouriana, cui non era estranea l'idea di una sorta di federazione tra un Regno del Nord e uno del Sud, è stata poi superata dagli eventi e l'unità del Paese è rimasta l'unica cornice entro la quale il Mezzogiorno avrebbe potuto avere possibilità di sviluppo.
Le remore sul federalismo, da parte della cultura meridionale, esistono ancora oggi e sono molto forti. Gli studi della Svimez, riferiti ai dati del 1991, ci forniscono indicazioni che dovrebbero indurci a riflettere sull'approccio politico e culturale ai temi del federalismo fiscale. Le regioni meridionali, come tutto l'ordinamento regionale del Paese, vivono del 90 per cento sul trasferimento di risorse dallo Stato alle regioni. In quell'anno, i dati sono stati questi: al Sud sono stati trasferiti 27 mila 924 miliardi di lire, al Nord 40 mila 931 miliardi. Il che vuol dire che, sommando i dati del Centro e del Nord, constatiamo che al Centro-Nord sono affluiti 63 mila miliardi, mentre alle regioni del Sud sono affluiti circa 28 mila miliardi. Questi dati ci dicono che se il federalismo fiscale non è corretto da un fortissimo potere centrale, capace di attivare meccanismi di compensazione, porta al risultato che alcune regioni vivranno in una condizione di bancarotta permanente, mentre altre regioni vivranno in una condizione di piena autosufficienza.
Il federalismo nel nostro Paese è diventato di moda in questi ultimi anni, specialmente nella versione becera di Bossi e Miglio della Lega prima maniera. Divenuta forza di politica nazionale e di governo, ha attenuato la sua azione anti-meridionalista, che a volte sfiorava il razzismo. Ora essa si è posta il problema di creare una struttura federale dello Stato attraverso le macroregioni. Anche gli studi della Fondazione Agnelli non mi pare che riescano di utilità al Mezzogiorno, perché l'accorpamento delle regioni a tavolino, decisi dall'alto, non risponde alle esigenze vere della diffusione sul territorio di una responsabilità della gestione delle risorse proprie di quelle regioni. Il Parlamento si appresta a licenziare una legge che, credo, non renda giustizia alle esigenze di crescita e di sviluppo della cultura regionalista e della responsabilità regionalista nel Paese. Lo Stato ha decentrato poco e male, e le regioni, a loro volta, hanno decentrato poco e male agli enti locali subalterni.
Questo nel Mezzogiorno si paga in termini di appesantimento della macchina burocratica, si paga con i residui, con i fondi che non vengono utilizzati: le regioni meridionali sono le ultime nella graduatoria delle regioni europee per il non-utilizzo dei fondi strutturali dell'Unione Europea.
Uno Stato moderno non può che essere uno Stato al servizio dei cittadini, articolandosi in un momento centrale, che non può venire meno, ed in momenti decentrati a livelli provinciale e comunale, cioè a livelli subalterni ma più vicini alle necessità dei cittadini.
Ora dobbiamo chiederci: se l'ordinamento regionale in questi venticinque anni dalla sua istituzione non ha funzionato, perché ciò è avvenuto? Proprio noi meridionali dobbiamo farci questa domanda, perché abbiamo constatato il fallimento, per non dire la vergogna, della regione, la cui gestione è stata a dir poco clientelare. Una gestione che non ha tenuto conto di compiti fondamentali che lo Stato ha assegnato alle regioni, che sono compiti di programmazione, di interventi sul territorio, di coordinamento degli enti locali e subalterni. Per questo motivo, all'interrogativo: che cosa facciamo delle regioni?, credo che si debba rispondere che bisogna puntare a diffondere nella coscienza dei cittadini la consapevolezza del momento e della funzione regionale. Nelle grandi regioni meridionali, Campania, Puglia, Calabria, eccetera, noi non abbiamo una regione, ma diverse regioni: Napoli, ad esempio, è una regione a se stante, il Sannio vuol essere legato più al Molise che alla Campania, il Salernitano è un principato a se stante, un pezzo di vecchio Regno di Napoli. Ciò vale per le altre grandi regioni, meridionali e continentali. Il problema allora è quello di un ridisegno, di un riequilibrio della regione da concepire come regione-programma, e non come macchina burocratica: una regione che sappia promuovere interventi pianificati sul territorio e una distribuzione razionale delle risorse all'interno di esso. Quale sia il disegno ottimale della regione Campania, o di qualunque altra regione del Sud continentale, nessuno di noi, in questo momento, è in grado di dire. Ma credo che la Fondazione Einaudi, sviluppando il discorso avviato sui temi della riforma dell'assetto istituzionale della regione, forse potrà arrivare, alla fine del 1995, ai risultati cui non è pervenuto il Parlamento in questi ultimi anni di confusione legislativa.
Altra questione: il federalismo fiscale. Si tratta di uno degli aspetti del federalismo che può attuarsi anche in altri settori della vita pubblica, come l'istruzione, la cultura, i lavori pubblici.
Negli Stati Uniti d'America, il cui ordinamento istituzionale è quello federale, se non ricordo male, già nel secolo scorso i confederati uscirono dall'Unione perché non riconoscevano ai singoli Stati la facoltà di imporre e di riscuotere le tasse federali. Ora, rispetto a Paesi che nascono con un ordinamento federale, noi verremmo a costituire una vera e propria anomalia, perché non si è mai visto che uno Stato che nasce con un impianto unitario ad un certo momento lo distrugge per sostituirlo con un impianto federale.
Per quanto riguarda la questione specifica del federalismo fiscale, sono d'accordo con le osservazioni di Cafiero: senza un forte impianto di compensazione al centro, il federalismo fiscale aggraverebbe le condizioni del Mezzogiorno, condannandolo alla distruzione.
Il federalismo fiscale rappresenta una sfida che ci spetta di affrontare con la piena consapevolezza di quelle che sono le situazioni reali e le regioni storiche di ieri e di oggi del Mezzogiorno.
Franco Compasso


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