§ DOLLARO, YEN, LIRA

MONETE SOFFERENTI




M. B.



All'origine di contraddizioni e inquietudini c'è un contrasto tra Giappone e Stati Uniti ben più profondo di una semplice opposizione commerciale. Ed è questa, a nostro avviso, la chiave di lettura di molte delle incertezze dell'attuale capitalismo finanziario.
Per rendersene conto, si consideri l'esempio teorico, ipotizzato dalla Bzw di Londra, di due investitori ideali, l'uno americano e l'altro giapponese, i quali, disponendo nel 1990 rispettivamente di 100 milioni di dollari e di 100 milioni di yen, li abbiano distribuiti esattamente nelle stesse proporzioni, compiendo la medesima sequenza di operazioni immaginata dagli esperti della banca inglese quale percorso di un individuo razionale deciso a differenziare i rischi. Ebbene: la diversità delle monete di partenza, e quindi l'andamento dei tassi di cambio, fa sì che l'americano si ritrovi, a metà del 1995, con un portafoglio valutato attorno a 215 milioni di dollari. Il giapponese, invece, dovrebbe disporre nello stesso momento di un patrimonio di soli 82 milioni di yen.
Risultati di questo tipo stanno inducendo gli investitori giapponesi a concentrarsi sulle emissioni obbligazionarie locali; il mercato internazionale delle obbligazioni ne risulta fortemente indebolito, mentre si levano le roventi accuse nipponiche nei confronti dell'ostinazione americana a non voler mettere ordine nelle finanze federali. Si aggiungano a tutto questo i "disastri" degli investimenti giapponesi negli Stati Uniti d'America: dagli acquisti di imprese
di Hollywood (che si sono rivelate rovinose per i bilanci della Sony) a quelli nel campo immobiliare, chiusi in perdita dopo il crollo dei prezzi delle abitazioni.
I rischi di questa situazione sono notevoli per tutti, a cominciare proprio dai giapponesi. Il cambio elevato provoca la caduta dei profitti delle società del Sol Levante e il pricelearnings ratio (il rapporto tra prezzo e profitti) risulta molto elevato: secondo un noto esperto internazionale, è per lo meno doppio di quanto dovrebbe essere.
L'incertezza che spira da tempo nella Borsa di Tokyo investe il risparmio mondiale e induce gli investitori di tutto il mondo a limitare le proprie scelte al breve periodo, ammassando liquidità, proprio mentre le esigenze dello sviluppo planetario (ivi compresa la stabilizzazione di aree politicamente a rischio, dall'ex Unione Sovietica al Vicino Oriente, dalla Somalia all'Algeria e al Sudafrica, e in molti Paesi dell'America Latina) richiederebbero all'opposto una massa di investimenti di lungo periodo.
Le ricette della politica monetaria non bastano a invertire la rotta sia perché il mercato non mostra di credere molto, oggi, all'equazione alti tassi-moneta forte, sia perché le Banche centrali non dispongono sicuramente delle riserve necessarie per contrastare le tendenze e le convinzioni diffuse tra l'enorme massa dei risparmiatori di tutto il mondo. Di conseguenza, occorre un segnale politico più robusto. Un esempio? L'emissione da parte degli Stati Uniti di obbligazioni in yen, capaci di superare la sfiducia degli investitori giapponesi verso il dollaro. Emettere un bond in yen (oppure in marchi) sarebbe, però, un'umiliazione per gli statunitensi che un presidente debole come Clinton, per di più in cerca di rielezione, non può certamente permettersi. E una dirigenza globale debole come quella giapponese non può permettersi politiche di spesa pubblica che facciano scendere veramente il cambio dello yen. Nello scontro tra queste due debolezze si sta logorando l'economia mondiale.
E la lira? Nel quadro perturbato della finanza internazionale, essa rappresenta un problema del tutto secondario, e le sue oscillazioni risultano largamente influenzate dalle vicende interne. Un indice obiettivo deve descrivere sinteticamente l'andamento della lira in quanto vàluta congiuntamente i corsi del marco e del dollaro, evitando in questo modo gli errori di prospettiva che i mezzi d'informazione compiono concentrandosi di regola su una sola di queste due monete.
Le vicende della lira sono ben note:
- Dall'inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, vale a dire a cavallo delle elezioni del marzo 1994 e fino a metà ottobre, il cambio, pur con fluttuazioni al ribasso, era rimasto complessivamente stabile: in altre parole, la lira perdeva sul marco, ma guadagnava sul dollaro.
- La seconda fase è stata rappresentata dalla crisi moderata di dicembre-gennaio, legata alle difficoltà e alle successive dimissioni del governo Berlusconi. L'indice, in quella fase, perse all'incirca il 5 per cento.
- Nella terza, drammatica fase, la nostra moneta finì nel gorgo della tempesta internazionale, legata al terremoto di Kobe e alla crisi messicana. La nostra moneta si accodò alle monete deboli, aggiunse una sua specifica fragilità e nell'arco di tempo compreso tra febbraio e marzo perse complessivamente il 10 per cento del suo valore.
- Dalla metà di marzo alla metà di aprile rimase sul fondo e poi ebbe inizio un rimbalzo che consentì di recuperare metà della perdita accumulata negli ultimi mesi. L'indice, pari a 100 all'inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, ha riconquistato "quota 90" e mostra una certa tendenza a risalire.
Va osservato che nell'ultimo periodo si è anche attenuata la volatilità della moneta, cioè a dire la variazione percentuale media giornaliera, il che è un indizio di mercati quanto meno tranquilli. Ed è su queste premesse di minor nervosismo che si vuole costruire un ulteriore rimbalzo.
In queste condizioni, il ritorno nello Sme non presenterebbe grandi problemi pratici (l'amplissimo margine di oscillazione attuale permette di sopportare le pur notevoli pressioni), ma sarebbe soprattutto un buon risultato di immagine e, come tale, potrebbe facilitare ulteriormente il recupero del cambio. E' chiaro che per noi sarebbe un ottimo risultato chiudere in bellezza con questa misura, oppure prenderla comunque all'inizio del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea, nel gennaio 1996.
A quale livello si potrebbe rientrare nello Sme? I mercati sembrano puntare verso una quota di 1.100 con il marco tedesco, non troppo distante dalla parità del potere d'acquisto e tale da poter reggere un paio d'anni di maggiore inflazione italiana rispetto a quella germanica. E il cambio della lira potrebbe tendere verso questo traguardo.


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