§ VENTESIMO SECOLO

IL RITORNO DELLA GRANDE GERMANIA




Hans Sibenthal, Paul Voralberg
Coll.: Franco Radi, Gianni Orlandi



Nel bene e nel male, solo quel che è "più forte" si afferma e vince: non c'è vittoria di debolezza che non sia causata da una superiorità, in forza non calcolabile, della debolezza. Da qualche tempo vediamo delle debolezze fare arretrare la forza, incalzarla, scoprendone l'inferiorità. Dove risieda effettivamente la forza vera è oscuro. Due Germanie, due forze, una forza.
Sta nascendo una nuova forza continentale. Ci sarà, sul continente europeo, "quella" forza, e sarà, necessariamente, una forza "autonoma" e dotata di un potere di attrazione indescrivibile. Non ci saranno sicuramente (salvo pentimenti di Dio) né occupazioni di territori né guerre tipo Quattordici o Trentanove, né mai più avventure demenziali fino alla Volga e al Caucaso. La spada di Sigfrido resterà rinfoderata nei magazzini teatrali. Tuttavia la forza non è tale se non si espande, se non contagia e non domina. Il crollo del simulacro d'impero danubiano con capitale illusoria Mosca condurrà i deboli che hanno ritrovato la sovranità piena entro le loro frontiere del Quarantacinque, a gravitare attorno all'effettiva (latente, ancora, o dissimulata) forza tedesca, limature di ferro a contatto con l'irresistibile magnete. Questo è già manifesto.
Ma anche l'Europa del Nord, e anche quella del Sud, avranno la stessa sensazione di risucchio verso quel centro continentale che non è soltanto una montagna di marchi, ma qualcosa di molto più forte, di non misurabile con gli strumenti ciechi del calcolo. Soltanto la Francia, potendo mettere in campo una non minore potenza culturale, resterà al riparo, ma non del tutto, perché gli effetti di questi cataclismi di civiltà sono sempre impensati.
Certo. Questa grande (e persino tremenda) forza è destinata ad espandersi, a dominare, ad improntare eventi di profondità che annulleranno ogni utopia di ugualitarismo paneuropeo (come se vita e destino umano fossero quei due cretini che il cretinismo degli ottimisti seguita a credere siano; come se tutto fosse facile dal momento che i cretini lo vogliono! Così scrive Ceronetti), attingendo l'energia necessaria a delle riserve "culturali" fatte di sconvolte ma non perdute radici di germanesimo cristiano, di potenza editoriale e linguistica, di apparecchi che funzionano, di pensiero critico, teologico e filosofico in grado di riempire delle ansie e dei vuoti dove più abbondano.
Il fallimento, così moderno, dell'imperialismo sovietico è un fallimento intellettuale e culturale: non ha nutrito i popoli che ha assoggettato di nessun tipo di pane, ma il pane in cui ha fallito di più è quello che il vero Paternoster chiama "soprasostanziale". La fame di questo pane è la grande fame dei popoli europei dell'Est e dell'Ovest. Qualcuno deve placarla, è chiamato a questo.
Ci sono stati tre momenti della Germania, tra il 1870 e il 1945: il quarto è uno sconosciuto che dal momento della riunificazione la storia del mondo si è trovato in casa, indefinibile e silenzioso. Nel secolo che muore, il momento tedesco del Quattordici fu nel segno di una malattia generale che Musil ha definito molto bene come "fuga dalla pace",: tutta la luce latina fu sperperata per abbattere quella nera mole che la schiacciava.
Il momento del Trentanove fu nel segno del crimine puro senza attenuanti: farlo rientrare, una fatica incredibile. L'incalzante quarto e ultimo momento della Germania trova tutti, tedeschi per primi, poco desiderosi di vederlo arrivare, eppure consapevoli che stia venendo. Potrebbe essere nel segno di una verità a lungo attesa e, in questo, combaciare miracolosamente con la ritrovata Russia. Ma per ora, tra tanti discorsi che lo riguardano, quel personaggio da poco entrato non si è ancora deciso a parlare molto. Il fatto è che nella pancia della realtà non fenomenica in cui inciampiamo non è facile avvertire i movimenti fetali del pensiero. Ed è una dura prova percepirli. Visioni, infatti, come in uno specchio ora lucido ora opaco ne passano nello scrittore-pensatore svevo Ernst Jünger, che da attore e da contemplativo ha vissuto la Grande Guerra e la guerra criminale e all'età di un secolo (è nato nel 1895) sta assistendo al Quarto Momento della Germania, banalmente chiamato "riunificazione".
Nel Quattordici il Reich era una patria, contro altre patrie. Nel Trentanove era una macchina infernale, un mattatoio senza vere frontiere. Nel Novanta, mentre infuriavano dappertutto guerre civili per compensare la privazione di patria, né l'una né l'altra delle due Germanie, né quel che ne è risultato in seguito, si è potuta dire una patria in senso nazionale. Le piccole patrie in cerca di identità e insieme di riparo tra il ferro di cavallo calamitante germanico l'hanno sentita - la continueranno a sentire - come forza spirituale agglomerante di tipo "medioevale". Il profilo dell'aquila della visione dantesca, che riemerge come un misterioso Timavo nell'incompresa dedica a Guglielmo II dei Canti orfici di Campana, può essere in questo suk visionario rievocato.
Un bel momento di passione collettiva sono stati gli abbracci lungo il Muro crollato, ma di un altro abbraccio, che introduce nel quadro il fondo boscico degli inferni e dei giudizi finali, si deve parlare.
Due Germanie, o dieci, o una, faranno sempre una sola grande foresta, punteggiata di ghirlande di lumini di geografia emotiva. Ma viva, o moribonda? Dalla Loira ai monti Tatra la foresta germanica è la membratura vitale dell'Europa continentale, la via delle acque, una congiunzione spirituale di evi, di linguaggi e di destini. "Pro aris et focis", là si è combattuto e tante volte l'Uomo del calvario è stato ricrocifisso nell'uomo, e là il popolo degli elfi e delle fate è uscito dall'invisibile al richiamo del corno dei fratelli Grimm. In tante vite che forse viviamo, almeno una volta siamo stati ospiti o abitatori di foreste germaniche: ma lo saremo ancora? E con quale spirito, eventualmente, vi torneremo?
Umanizzazione tecnico-industriale e legge del profitto senza legge sono due grandi assassini sempre più freneticamente attivi: dalle concentrazioni industriali e automobilistiche, dai mari inondati di nafta salgono le condensazioni che, in ricadute acide, investono gli alberi, impregnano il terreno e le radici, toccano con dita stregate le falde, e quel che rimane di foresta germanica tra le radure desertiche definite con tempestiva idiozia "aree urbane" (e meglio, perché è più vago, "urbanizzate") è in condizione preagonica o di avanzata se non terminale agonia. Se le foreste dell'Est e dell'Ovest si mettessero in marcia per abbracciarsi sulla linea dell'Elba sarebbero due immense processioni di flagellanti medievali che espongono piaghe turpi, deformazioni e bubboni osceni, ma col pudore di un grande, di un disperato silenzio. Immaginiamo l'abbraccio di queste caricature biologiche a cui abbiamo impresso le nostre stigmate e restiamo anche noi silenziosi.
Pensando alla foresta che si congeda dal continente, eviteremo di fare chiacchericci di sola politica o economia o strategia. Se dimentichiamo la peste, usciamo dal pensiero. Dunque: è da un giornale tedesco che abbiamo tratto e fatto nostra la parola adeguata: necroeconomia. La campana a morto che suona per tutta la grande foresta centroeuropea suona per tutti. Eppure là, al centro dell'Europa, un Grande Reich Verde ci starebbe proprio bene. Non proprio in mano ai Grünen, che sono eccessivamente disarmisti e pacifisti, mentre uno Stato europeo verde dev'essere un gendarme bene armato: ai fumi e agli scarichi si fa la guerra, ai boschi si monta la guardia, ai disboscatori si spara a vista. Ultima frontiera mobile, ultima New Frontier. Divisi i proletari, dovrebbero unirsi gli alberi offesi di tutto il mondo. Per ricordare che in mezzo a loro nacquero la civiltà, l'arte, le lettere. La cultura.
In un certo senso, la Germania una commuove. Le ragioni sono sostanzialmente due: una generazionale, l'altra politica.
Nella vita della generazione matura (diciamo dell'età media di cinquant'anni) è cambiato tutto, in virtù degli effetti che la tecnologia ha avuto sul costume, sul sociale, sull'etica, ma non è successo niente. Non c'è stato alcun avvenimento pubblico e collettivo di autentico rilievo. Per mezzo secolo l'Europa è rimasta immobilizzata nei blocchi. E i pochi, drammatici sussulti, come la rivolta ungherese o l'invasione della Cecoslovacchia, sono stati fatti dolorosi che ci vedevano del tutto impotenti. La riunificazione tedesca è stata il primo avvenimento di portata realmente storica, epocale, cui ci è stato dato di assistere. Poi c'è un'altra cosa. L'esistenza di questa generazione era trascorsa all'ombra degli esiti della seconda guerra mondiale, cioè di un avvenimento cui non aveva partecipato, ma che l'aveva pesantemente condizionata. La sua vita pubblica era stata continuamente solcata da leit-motiv come l'antifascismo, il fascismo, il nazismo, il filoamericanismo, il comunismo, l'anticomunismo, che sono stati importanti, fondamentali per le generazioni che l'avevano preceduta, ma che erano molto meno per essa. La riunificazione tedesca ha sancito invece la fine della seconda guerra mondiale, cioè di un periodo storico che era stato generato non da essa, ma da chi l'aveva messa al mondo. Finalmente, dunque, si è liberata del padre, dei padri.
Poi, la ragione più propriamente politica. La riunificazione tedesca e il potere del marco significano il ritorno dell'Europa sulla scena del mondo. Perché la sconfitta tedesca fu la sconfitta del nazismo, ma fu anche la sconfitta dell'Europa, relegata a un ruolo subalterno rispetto ai due veri e soli vincitori: gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica.
La rinascita della Germania, cioè di una parte così importante del Vecchio Continente, è anche la rinascita dell'Europa finalmente affrancata da Yalta e dallo stritolante abbraccio del bi-imperialismo russo-americano. Ci sono, in giro, preoccupazioni e timori, comprensibili forse di più per quelle generazioni che vissero l'epoca piena del nazismo. E la potenza del marco rientra in queste preoccupazioni, chissà perché, visto che non è frutto di aggressioni militari, ma di un'oculatissima politica del lavoro, del risparmio, della produzione industriale e del commercio internazionale. Fra l'altro, va ricordato che la Germania è l'unica grande potenza a non possedere la bomba atomica, mentre ce l'hanno, per esempio, Israele, il Sudafrica e persino la Libia, oltre al Brasile e all'India, che potenze proprie non sono. E in ogni caso (paura dell'antisemitismo compresa) è tempo di finirla di ridurre strumentalmente l'intera storia tedesca ai tredici anni della follia hitleriana. La Germania è anche altro.
Tedesco è l'intero pensiero filosofico europeo degli ultimi due secoli: da Kant a Hegel; da Fichte a Schelling, da Feuerbach a Marx, da Schopenauer a Nietzsche, da Husserl a Weber, da Heidegger a Horkheimer, da Adorno a Marcuse. Anche una grande cultura come quella francese è stata, in questi due secoli, in qualche misura subalterna a quella tedesca, e sua tributaria. Tedesco è parte determinante del pensiero scientifico europeo del Novecento, a cominciare da Einstein. Tedesca, anche se non solo tedesca, è la grande musica.
Basterebbe, da sola, la Nona di Beethoven. Ma ci sono stati anche Bach, Haendel, Haydn, Schubert, Mendelssohn, Schuman, Wagner, Strauss, Brahms, Mahler, per finire con Hartman e Stockausen, sempre che si voglia considerare estraneo alla cultura tedesca Mozart.
Più realistica, dunque, è l'altra preoccupazione, e cioè che la Germania torni ad avere una posizione di assoluta egemonia in Europa. E' senza dubbio fatale che essa riprenda il ruolo che, per posizione geografica, cultura, storia, consistenza, le compete. La leadership tedesca è condizione necessaria per un'Europa veramente libera e unita, molto diversa da quella della vecchia (e contraddittoria) Cee. Bisognerà vedere piuttosto come la nuova Germania interpreterà questa sua leadership. Se essa si appiattirà sul modello del capitalismo sfrenato, senza leggi né regole, dunque sostanzialmente "violento"; se, cioè, coglierà riunificazione e leadership solo come un'occasione, dopo i necessari assestamenti interni, per rafforzare ulteriormente la propria egemonia economica (e politica) sull'Europa, e non solo sull'Europa. Allora, non cambierà molto. Vorrà dire semplicemente che al dollaro avremo sostituito il marco. Oppure se vorrà allargare con intelligenza la visione del sogno di Naumann, che per primo parlò di "Mitteleuropa", intendendola da Amburgo fino a Baghdad, passando per la Bulgaria e la Turchia; e rivolgendo lo sguardo anche ad Ovest, fino all'Iberia, ma in nome di un'Europa totale e assolutamente libera, federata semmai, con lingue, culture, identità insomma, intangibili. Un'Europa delle Europe può essere una frontiera. Un'Europa tedesca o tedeschizzata riporterebbe indietro gli orologi della storia.


GUERRA DI DIVISE

"Storie di ordinaria follia", le definiscono dalle parti di Wall Street guardando le linee impazzite dei grafici che, giorno dopo giorno, mostrano gli strappi cardiaci, le risalite, le ricadute delle monete. E' come dire: nessuno ha più in pugno la situazione. Neppure l'esclusivo club dei banchieri centrali, che fino a qualche tempo fa aveva il compito e l'orgoglio di tenere sotto controllo il corso dei cambi, di opporsi e respingere gli assalti degli speculatori con l'artiglieria di enormi riserve in valuta, e in una parola di governare il destino di dollaro e marco, di lira e di yen, di franco e di sterlina. Un commentatore riferisce che ha avuto molto successo, anche perché ambientata in un asilo psichiatrico, la scenetta apparsa tempo fa in una trasmissione televisiva americana che tentava di spiegare ai cittadini statunitensi che cosa realmente stesse succedendo ai loro greenback, ai verdoni, cioè ai dollari, nel confronto con la moneta giapponese e soprattutto con il Deutschemark. "Si riproponeva, come in un gioco di bambini un po' svitati, lo scenario dell'ultimo conflitto mondiale. Alan Greenspan, chairman della Federal Reserve, un po' Paperone e un po' capitano dei marines, subiva l'assalto dei due nemici coalizzati nell'asse anti-dollaro e armati fino ai denti: Hans Tietmayer, il governatore-Führer della Bundesbank, con tanto di calzoncini di cuoio e Mercedes, e il suo alleato dagli occhi a mandorla, capo della Bank of Japan, pronto all'occorrenza anche all'estremo sacrificio dei kamikaze. Sfondo d'attualità: la conquista planetaria dei mercati, la supremazia di una razza superiore di monete. Naturalmente, alla fine, trionfo comunque assicurato per John Wayne, ma questo era lasciato alla puntata successiva". Una cosa è certa: crisi, paura e panico hanno costretto i governatori a venire allo scoperto e a finire sui giornali e sugli schermi televisivi. Ed è noto che essi tutto amano, tranne che la notorietà. Fino a poco tempo fa le loro stesse persone erano circonfuse di una sorta di sacralità. Ora i sacerdoti delle monete compaiono e sembrano impotenti, o quanto meno tesissimi. George Soros, il finanziere internazionale che è probabilmente uno dei protagonisti dei terremoti che hanno scosso i mercati mondiali, ha scritto un libro in cui li colloca, come tenebrosi stregoni, nei laboratori della "Alchimia della finanza", al riparo da occhi troppo curiosi. Soros ripercorre tutti gli sconvolgimenti di questi ultimi anni e ne imputa le cause proprio alla sopravvivenza anacronistica di tante banche centrali, ciascuna guidata da un solo personaggio, in non pochi casi autoritario. Una specie di casta, quella dei governatori, che non sarebbe al passo con i tempi. Sarà proprio così? Sta di fatto che Soros, noto per le sue operazioni sui mercati come per quelle a carattere filantropico, giunge a proporre una Banca centrale internazionale, governata in maniera collegiale, l'unica che considera "moderna".
Non è un segreto che le ormai mitiche riunioni del giovedì, all'ultimo piano del grattacielo-fortezza della Deutsche Bundesbank a Francoforte, assomigliano a degli incontri tra iniziati. Erano ancora più misteriose e chiuse ai tempi di Helmut Schlesinger, quando nessuno poteva arrivare con matite o fogli di carta, e tutti erano vincolati al giuramento di segretezza. Tietmeyer ha un po' alleggerito l'atmosfera, ma non più di tanto: ed è notissimo che il mondo della finanza si ferma, una volta alla settimana, a mezzogiorno, in attesa del secco e breve comunicato che chiude la riunione. Rigorosamente vietato fare domande nel merito.
Del resto, il governatore della Banca centrale della Germania, a cui oggi sono affidate le sorti delle monete di mezzo mondo, non è persona di molte parole. Proprio nel momento in cui si era determinata la massima tensione, quando sembrava che il marco si stesse trasformando in un inarrestabile bulldozer, l'unica dichiarazione che i giornalisti riuscirono a strappargli sembrava quasi ironica: "E' vero, la nostra moneta si sta comportando piuttosto bene". Per precisare, immediatamente, che ai banchieri di Francoforte servivano partner forti, tanto è vero che la Bundesbank aveva deciso di intervenire nientemeno che in difesa del dollaro.
Straordinarie leggende circondano, a Tokyo, il tempio della moneta nipponica, lo yen. Un cronista britannico, indagando sui retroscena asiatici dell'affare Barings, ha riferito che il posto d'onore al tavolo delle riunioni dei massimi dirigenti della Bank of Japan spetta a un megamonitor, sul quale appaiono, a richiesta, indici e listini, rapporti e previsioni. Vera o inventata che sia, la storia indica bene come a Tokyo, allo stesso modo di Francoforte, la vita del banchiere centrale non sia oggi delle più semplici. Greenspan, il mitico boss della Federal Reserve e sicuramente il principale fra gli accusati, ammette: "Lo sviluppo della situazione internazionale fa sì che sia virtualmente impossibile mantenere in vita molte delle norme o dei regolamenti che sono stati creati per un diverso ambiente economico". Egli è il primo a riconoscere che tra le variabili che un governatore deve tenere presenti non ci sono più soltanto quelle della macroeconomia, della situazione finanziaria, ma anche quelle della politica. Qualche tempo fa, in una riunione di emergenza di banchieri, tenuta a porte chiuse a Coral Gables, in Florida, Greenspan ha ammesso che spetta proprio alla Federal Reserve fare i passi necessari "per annullare le possibili instabilità che possono minacciare l'espansione economica".
Questo governatore è stato uno dei sostenitori del maxiprestito al Messico: molto probabilmente, per evitare che l'incapacità di questo Paese a rimborsare i debiti travolgesse le grandi banche americane creditrici. Ma i venti miliardi di dollari di fatto regalati al Messico appaiono agli esperti la causa principale del crollo del dollaro. John R. Williams, economista leader per i mercati finanziari globali alla Bankers Trust di New York, ha attaccato il governatore: "Il dollaro era, fino a ieri, una moneta brillante. Oggi non lo si può più nemmeno definire una moneta forte. E le nostre autorità valutarie non sono capaci di fare altro che stare a guardare gli effetti della tragedia".
Ma non basta. Mentre la Federal Reserve si preoccupa di controllare l'inflazione e Greenspan annuncia che i tassi d'interesse non saranno aumentati "anche di fronte a nuove minacce" nel corso del 1995, la Bundesbank e la Bank of Japan prendono misure mirate al mantenimento della forza delle loro monete e di alti tassi d'interesse. Così fanno, in realtà, la guerra al dollaro e alle valute più deboli, seguendo un trend che vuole creare, in Germania e in Giappone, "paradisi sicuri". Giusto o sbagliato che sia questo atteggiamento, sostiene Gary Schlossberg, economista californiano molto ascoltato, "è evidente che sta diminuendo la fiducia nel management economico". E rincara la dose David Jones, capo economista alla Aubrey G. Lanston di New York: "Al contrario dei suoi colleghi di Tokyo e di Francoforte, Greenspan non appare né pronto né in grado di affrontare la situazione", garantendo per lo meno un "atterraggio morbido" all'economia americana.
Ovviamente, gli "angeli caduti" delle monete non raccolgono le polemiche. Proprio Tietmeyer, abbandonato per un momento il suo unico hobby, la pesca, si è lasciato sfuggire solamente che "occorrerebbero, tra le Banche centrali, consultazioni veloci come lo sono quelle degli spostamenti delle monete da una parte all'altra del mondo". E il governatore americano è sostanzialmente d'accordo: "La tecnologia ha abolito le distanze, ha abbassato i costi e i rischi delle operazioni e delle transazioni. I mercati globali non si fermano, rispondono in tempo reale". C'è chi dice che le poche ore di sonno che i governatori riescono a concedersi, da una parte all'altra del pianeta, siano sempre più piene di fantasmi e anche di incubi. E aggiunge: difficili da scacciare.


SUPERMARCO PERCHE'

In questi tempi di turbolenza dei mercati valutari, con la lira e altre valute che pagano prezzi pesanti, si fanno insistenti tre domande circa il quadro monetario internazionale:
1) perché il dollaro continua ad essere così debole rispetto alle valute forti come il marco, lo yen e il franco svizzero?
2) perché c'è tanta volatilità nei cambi?
3) non potrebbero le Banche centrali ridurre questa volatilità e cooperare per un sistema monetario internazionale il più possibile meno instabile?
Mentiremmo, se dicessimo che vi sono risposte esaurienti, persuasive e unanimemente condivise a queste domande. Ma qualche elemento, per lo meno, si può avere.

Il dollaro debole.
Superata la recessione del 1992 (Stati Uniti) e del 1993 (Europa e Giappone), ormai da tempo le economie dei principali Paesi ricchi sono in fase di vivace ripresa, con inflazione abbastanza contenuta.
Su questo sfondo, assai favorevole per l'economia mondiale nel suo complesso, giocano a danno degli Stati Uniti le seguenti circostanze:
a) dopo le elezioni dello scorso autunno, Clinton trova crescenti difficoltà a perseguire i propri obiettivi di riduzione del deficit pubblico annuale (pur contenuto al 3-4 per cento del Pil), ma soprattutto di arrestare la crescita dello stock del debito pubblico (ormai prossimo al 70 per cento del Pil) e della sua quota detenuta all'estero, che fa oggi degli Usa il più grande debitore sui mercati finanziari mondiali;
b) il disavanzo della bilancia commerciale, aggravato dal crescente servizio sul debito estero;
c) la crisi messicana, e la contigua febbre sui mercati come quello argentino, suonano male per le sovraesposte banche statunitensi, malgrado il maxi-dono in dollari fatto da Washington a Città del Messico;
d) persistenti attese di ulteriori aumenti nei tassi a breve da parte della Fed inducono a spostarsi da titoli Usa verso titoli esteri più stabili anche se meno redditizi.
Tutto ciò, e altro ancora, concorre a spingere gli investitori da attività in dollari verso attività in altre valute. Il marco tedesco, a sua volta, è favorito dal relativo successo nell'assorbire il costo fiscale dell'unificazione tedesca, e dalla forza competitiva dei suoi prodotti, relativamente meno sensibili ai differenziali di prezzo.

La volatilità nei cambi.
Non è un fenomeno nuovo: basti pensare alle oscillazioni del dollaro dai minimi del 1978-79, alle punte incredibili del 1985 (ricordate la lira oltre 2.000?), ancora ai minimi del 1987. E' dal 1973 che il mondo vive a cambi fluttuanti: regime nel quale, tanto più oggi con mercati monetari e finanziari pressoché interamente liberalizzati e operanti in telematico, gli operatori sono alla continua ricerca di opportunità per coprirsi dal rischio-valuta o per speculare sulle oscillazioni dei valori dei titoli, delle monete e dei sempre più numerosi contratti derivati (a termine, futures, opzioni, swaps, eccetera). Come suggeriscono molte ricerche, il mercato dei cambi riflette i cosiddetti "fondamentali" (offerta di moneta, inflazione, tassi di interesse, saldo estero, abbondanza o scarsità di risparmio, eccetera) solo con grandi e variabili ritardi. Sul mercato dei cambi, accanto ai "fondamentalisti" operano sempre più i "chartists" (nomignolo intraducibile, che deriva dai grafici o charts su cui si formano le previsioni e le decisioni di compravendita di valute). I differenziali tra i tassi di interesse in realtà non spiegano, ma semplicemente riflettono la causa determinante delle oscillazioni nei cambi, vale a dire le aspettative. E la formazione delle aspettative sui mercati resta il puzzle più inattaccabile per la scienza delle previsioni economiche e finanziarie.

Interventi delle Banche centrali.
A parte l'esperienza dello Sme, che richiederebbe un discorso a sé, si ripropone oggi all'attenzione l'esperienza degli interventi concentrati fra le Banche centrali per moderare le oscillazioni fra dollaro, yen e marco, conseguenti agli iniziali accordi del Plaza (giugno 1985) e del Louvre (febbraio 1987) nell'ambito del G7 o, per meglio dire, del G3.
Il messaggio che viene da quell'esperienza, durata sino agli inizi degli anni Novanta, è sostanzialmente il seguente: nonostante l'immane e crescente sproporzione fra riserve valutarie delle Banche centrali e dimensione degli scambi quotidiani delle valute sui mercati (oggi poco più di un miliardo di dollari al giorno, tra operazioni tradizionali e contratti derivati), interventi preannunciati e concertati tra Banche centrali hanno una certa efficacia nel formare le famose aspettative, e pertanto nell'invertire tendenze speculative particolarmente destabilizzanti. Questa è anche la conclusione di molti lavori econometrici, fra i quali quello di Catte-Galli-Rebecchini (Banca d'Italia) contenuto negli atti di una conferenza sul sistema monetario internazionale in memoria di Rinaldo Ossola.
L'intervento è credibile agli occhi dei mercati se le Banche centrali interessate sono disposte non solo a coordinarsi (cioè condividono la "zona obiettivo" entro cui mantenere i reciproci tassi di cambio), ma anche e soprattutto ad accettare la conseguente interdipendenza fra le rispettive politiche monetarie.
E qui sta il problema, che ostacola il formarsi e il persistere di tali accordi. Nel caso estremo dei cambi fissi, ormai un lontano ricordo per il sistema monetario internazionale, ma già oggi praticato all'interno delle cosiddette aree monetarie e tra non molto oggetto del primo "nucleo duro" di Unione monetaria europea, la speculazione destabilizzante tra le valute dell'accordo cessa perché i mercati sanno che ogni Banca centrale partecipante è disposta ad acquistare quantità illimitate delle valute dei propri partner. In altre parole, ogni Paese partecipante rinuncia alla propria sovranità monetaria e affida la gestione della moneta e dei tassi all'unica Banca centrale dell'area; la liquidità può così spostarsi a piacere da una regione all'altra, senza provocare. tensioni significative sui prezzi e sui tassi d'interesse. Per adesso continuiamo a vivere nei cambi fluttuanti, e cerchiamo di dimostrare le nostre virtù (se realmente ci sono), senza la disciplina del cambio.


DEUTSCHEMARK IMPERIALE

Quella del marco è la storia di un successo che non ha precedenti. Oggi è la moneta più forte e più stabile del mondo. Eppure, il Deutsche Mark nasce nel giugno 1948 come debole mezzo di scambio di due territori tedeschi occupati da americani e inglesi. Era la moneta di un Paese in ginocchio che non aveva da mangiare se non il cibo dell'esercito statunitense e che non aveva riserve alle quali agganciare la nuova valuta. Il marco ha dunque un anno in più della Legge fondamentale e dello Stato tedesco occidentale, la Repubblica Federale (Rft).
Il suo inventore non aveva partito. Il professor Ludwig Erhard, che allora dirigeva l'amministrazione economica dei Territori riuniti, venne accusato dai socialdemocratici di voler uccidere il corpo malato della Germania, facendola nuotare nell'acqua ghiacciata del libero mercato, con l'abolizione delle tessere e dei prezzi politici. Il vecchio "Reichsmark" del regime uscito dalla Repubblica di Weimar valeva soltanto se unito alla tessera per i viveri, il nuovo Deutsche Mark venne sganciato dal gioco dei prezzi politici che durava dal 1931.
I primi anni sembravano dar ragione ai critici. Quando nel 1953 a Berlino Est venne represso nel sangue il grande sciopero generale del 17 giugno, Erhard propose l'unione monetaria con i territori occupati dai sovietici, per "far cessare il regime di terrore economico dell'economia pianificata". Diceva profeticamente Erhard quell'anno: "La riunificazione tedesca susciterà energie impensate, forze della cui portata gli scolastici esecutori dell'economia pianificata resteranno stupiti".
Tra i sostenitori del modello sovietico non c'erano soltanto i comunisti. Anche la Spd guidata da Kreyssig chiedeva a gran voce il ritorno alle tessere. Ma Erhard tenne duro, anche se un pacchetto di sigarette made in Usa nel '53 valeva ad Amburgo trenta marchi, e per comprare un paio di pantaloni di qualità scadente ce ne volevano tremila. La moneta fu stampata con grande parsimonia dalla nuova Deutsche Bundesbank, nata nel 1957 per sostituire la Banca degli Stati Tedeschi.
Che in Europa fosse sorta una nuova potenza monetaria lo si capì soltanto negli anni Sessanta. Nel 1961 il governo federale fu costretto a rivalutare il marco, facendo scendere il dollaro da 4,20 a quattro marchi. Si trattò di una svolta storica, perché il governo preferì alzare il prezzo del marco piuttosto che far salire l'inflazione importandola dall'estero. Da quel momento fu una sequenza impressionante di rivalutazioni. Nel 1969 il marco salì del 9 per cento. Tra il 1972 e il 1977 la valuta tedesca aumentò il suo valore del 6,7 per cento l'anno, in quei cinque anni il marco salì del 43 per cento rispetto alla media delle altre divise occidentali, e del 51 per cento rispetto al dollaro.
I continui e crescenti attivi nella bilancia commerciale fecero gonfiare le riserve auree della Bundesbank fino a farle diventare le seconde del mondo. L'Italia stessa, che oggi è quarta al mondo per le riserve, nei mesi bui del 1975 dovette dare in pegno una parte del proprio oro alla Bundesbank per ottenere l'apertura di una linea di credito. Eppure, nonostante questa marcia trionfale, le autorità tedesche si opposero con tutte le loro energie alla diffusione del marco come bene rifugio. La Bundesbank pose limiti severi alla detenzione di marchi da parte delle altre banche centrali.
Insomma, il marco non ha cercato quel ruolo di valuta di riserva che invece oggi riveste in Europa.
Il Deutsche Mark ha preceduto di dodici mesi la nascita della Repubblica Federale, è stato il primo segnale della rinascita per la gente che si era ormai abituata al baratto. Per questo è sempre stato considerato il bene più prezioso della nazione, il servizio sociale più importante. Per difendere questo bene i sindacati tedeschi accettarono per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta bassi salari e oneri di lavoro altissimi. La forza imperialistica che oggi ha la moneta tedesca è frutto del risparmio e del sacrificio ininterrotto di un quarto di secolo.
Se non si tiene conto di questa storia, non si può capire perché l'annessione valutaria dell'ex Germania orientale (Rdt), con un aumento del 10 per cento della massa monetaria, non ha prodotto nessuna tensione inflazionistica né un vero indebolimento del marco. E non si potrebbe capire neppure perché i tedeschi vogliono dai partner dell'Unione Europea patti molto chiari su come dovrà nascere l'Unione Monetaria Europea.


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