§ VENTESIMO SECOLO

VENTESIMO SECOLO




Jacques Delors



Nel corso dell'esercizio della cosiddetta cooperazione politica, i Dodici (poi diventati Quindici) hanno scoperto, in modo pragmatico, di avere in comune interessi vitali, che giustificano la necessità di parlare con un'unica voce e di operare insieme utilizzando strumenti che derivano dall'esperienza comunitaria. Lo si è constatato in modo spettacolare nella loro risposta, concertata dal 1989, nei confronti del sostegno apportato ai movimenti democratici dell'Europa centrale ed orientale.
Nello stesso modo a Dublino, nel giugno 1990, l'Europa decise di dare il suo sostegno politico alla perestrojka di Gorbaciov. Altro esempio, essa aveva definito posizioni comuni per la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Quella Conferenza fu di per sé un successo, ma ha consacrato nel contempo l'esistenza della Comunità; firmataria della Carta di Pace, essa vi appare come un insieme dotato di personalità politica che esprime le posizioni comuni dei Paesi aderenti. Questi risultati incoraggianti hanno fatto nascere, nei dirigenti dei nostri Paesi, il desiderio di andare più lontano e, per far questo, di organizzare più efficacemente le loro riflessioni, e quindi le loro decisioni, in tutti i settori della politica estera. La Commissione europea spingeva in questo senso, tanto più che essa denunciava la mancanza di coerenza e addirittura il vuoto fra i tre campi d'azione della politica estera: la politica estera propriamente detta, di competenza della cosiddetta "cooperazione politica"; la politica economica esterna; e infine le politiche di cooperazione e di sviluppo, che figurano già nelle competenze della Cee.
L'impero della coerenza richiede che, in parallelo, sia rafforzata la coesione interna della Comunità: fornirle i mezzi, nell'applicazione più rigorosa del principio di sussidiarietà, di sviluppare, parallelamente a questo grande mercato senza frontiere, le politiche e le cooperazioni destinate a completare o a correggere gli effetti della libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali.
La volontà di condividere alcuni settori di sovranità e di rafforzare le possibilità di azione della Comunità potrà essere tradotta nei fatti soltanto se il gioco delle nostre istituzioni vi sarà disposto. Uno dei doveri della Commissione europea, conformemente allo spirito del Trattato di Roma, è quello di proporre i termini della discussione e, per raggiungere l'obiettivo, di superare - in un quadro di chiarezza - le opposizioni interne tra i federalisti, i confederalisti e gli intergovernamentali.
Questa impostazione può sembrare ancora troppo marchiata dalla necessità. Ma questa non deve forse essere presa in conto quando il responsabile politico è posto davanti alle esigenze della decisione? Poco importa allora la purezza delle intenzioni, se l'azione che ne deriva risulta un fallimento. Tuttavia, a mettere troppo l'accento sulla necessità, la traduzione più acuta del realismo, si rischia di perdere, se non l'anima, almeno la propria ispirazione e le proprie motivazioni.
Le nostre società soffrono crudelmente di una mancanza di progetti, dopo il crollo delle ideologie che hanno dominato dagli anni '20 agli anni '80. Man mano che questi grandi schemi mostravano le loro debolezze e soprattutto le loro funeste conseguenze, si affermava il pragmatismo. Come lamentarsene, dato che esso ha condotto anche le nostre riflessioni e le nostre azioni per il rilancio della costruzione europea, con rischio di deludere i difensori più intransigenti dell'ideale europeo? Riconosco, per parte mia, i meriti e i limiti di questo pragmatismo, tipico del motore del cambiamento. Ormai occorre, senza discostarsi da questa azione graduale, vedere lontano e più ampio.
Tutto ci induce a questo. Prima di tutto il nostro denominatore comune in materia economica e sociale, direi addirittura un modello europeo di società dove coesistono, e quindi si completano armoniosamente, le forze del mercato, le interazioni dei pubblici poteri e dell'attività monetaria, la concertazione ed il negoziato tra le parti sociali. Questo modello, sfumato dalle nostre diversità, ha resistito alle ondate rivoluzionarie e controrivoluzionarie.
Ma ci induce a questo anche la tradizione universalista dell'Europa, che fa sì che nulla di quello che accade nel mondo possa lasciarci indifferenti. Mi riferisco qui soltanto al rafforzamento della interdipendenza, da cui possiamo dedurre che, anche se fossimo indifferenti, saremmo comunque influenzati dal sottosviluppo, dalle tensioni politiche, dai conflitti locali, dai movimenti demografici.
L'opzione fondamentale consiste nella riaffermazione o meno della nostra vocazione ad impegnarci risolutamente, laddove è necessario, per la pace, la libertà, il rispetto del diritto internazionale, per questo "sviluppo integrale dell'uomo", per riprendere qui la formula dell'enciclica Populorum progressio. E dato che questi princìpi possono vivere soltanto se alimentati da valori e dall'esemplarità della nostra azione, il dovere della Comunità europea è tracciato: alleare potenze e generosità, apertura agli altri e illustrazione delle nostre ragioni di vita. Allora, l'Unione Politica in cantiere prende tutto il suo risalto. Certamente dovremo parlare di istituzioni, di procedure di decisione, di ripartizione delle competenze. Ma, ripeto, per fare della nostra Europa, della Comunità a Quindici, ma anche della Grande Europa, risorta dopo più di quarant'anni da una divisione imposta dall'esterno, un unico grande continente unito.
Mentre lo scetticismo invade le nostre discussioni politiche ed intellettuali, mentre la tentazione dello spettacolare e il regno dell'instantaneo ci guidano, ce la faremo ancora a mobilitare le coscienze e le energie per un soprassalto morale e culturale della nostra comunità? Siamo alcuni a pensarlo, ed è per questo che combattiamo.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000