§ LUOGHI COMUNI

LA FORTUNA E IL MAESTRO DELLE PEZZE




Sergio Bello



Tra i personaggi per i quali una etichetta, una nomea, un luogo comune hanno finito per avere ripercussioni decisamente negative sulla fortuna, trova un posto di tutto rispetto il monopolitano Giacomo Insanguine, detto "Il Monopoli" con ovvio riferimento al paese natale, ma senz'altro più noto con l'appellativo di "Maestro delle Pezze".
Quella di "mettere pezze", ovvero rifinire, completare o riadattare composizioni altrui, è stata una operazione molto comune in tutti i tempi, e notoriamente richiede doti artigianali - e a volte anche artistiche - non indifferenti: è in molti casi paragonabile all'opera del falsario, che comporta tanto un'ampia conoscenza della tecnica e della poetica dell'artista con la cui produzione ci si confronta, quanto una considerevole capacità di immedesimazione.
A volte la "pezza" si dimostra necessaria per rendere fruibile una qualche composizione lasciata incompiuta a causa della scomparsa del compositore: in questi non rari casi di solito sono gli allievi migliori del compositore passato a miglior vita a prendersi la briga di completare il lavoro, badando bene di non travisare lo spirito della composizione e cercando di non incappare in personalismi ritenuti in questo caso sommamente fuori luogo: è per questo che proprio gli allievi si dimostrano molto spesso adatti a portare a termine questo compito tanto delicato, poiché alla contiguità con il maestro si intreccia spesso un atteggiamento di umile e rispettosa "sottomissione poetica", che inibisce la tentazione di lanciarsi in pericolosi voli pindarici suggeriti dall'irruenza della propria vena artistica.
In altri casi, invece, le "pezze" sono frutto di adeguamento a situazioni contingenti; arie troppo ardue per i cantanti a disposizione o poco gradite agli stessi sono state spesso rivedute o addirittura soppiantate; organici ridotti hanno comportato adattamenti anche drastici alle composizioni messe in repertorio; ed anche finali d'opera giudicati poco consoni al pubblico o alla circostanza - finali, inutile dirlo, perlopiù di carattere tragico - hanno subito una improvvisa inversione di tendenza.
Nulla di nuovo, dunque. Tuttavia i "rappezzatori" generalmente divenivano tali solo occasionalmente - ad esempio occorrendo la morte del proprio maestro - o per cause di forza maggiore, per contrastare le bizze di una primadonna o per garantire l'inclusione nel repertorio della propria orchestra di composizioni non direttamente eseguibili.
Giacomo Insanguine invece sfugge a questa logica dell'occasionale e dell'inevitabile: egli vanta qualità di "rappezzatore" di grido, disponendo di un cospicuo curriculum di composizioni rinvigorite dal suo intervento e portate di conseguenza con successo di fronte al pubblico dei teatri d'opera. Tuttavia il pennello impugnato dall'illustre Giovanni Paisiello dipinge un ritratto dell'Insanguine che nega ogni valore all'attività di revisore dei pentagrammi altrui svolta da quest'ultimo: monsignor Agostino Gervasio riferisce infatti che "Il signor Paisiello dice che Monopoli fu il "maestro delle pezze", cioè che si adattava a raffazzonare spartiti degli altri maestri a soldo degli impresari, perciò si screditò presso i professori. La Didone è l'unica sua composizione. Poco valeva nell'arte dello strumentare le sue cantilene, per cui rare volte trovasi il secondo violino nelle sue composizioni, suonando tutti all'unisono".
Se è vero che il giudizio del Paisiello va letto con le dovute riserve, dato che - come fa notare Alfredo Giovine, autore di una breve monografia sul compositore pugliese - Paisiello dimentica stranamente di citare il maggior successo del compositore monopolitano, quell'Osteria di Marechiaro che lo stesso Paisiello volle mettere in musica a quanto pare con minor fortuna, nondimeno è certo che la poco lusinghiera fama di "maestro delle pezze" si può ben dire conquistata sul campo: due opere del Logroscino - L'Innamorato balordo e La viaggiatrice di bell'umore - nel 1763, un'opera del Gabellone - La giocatrice bizzarra - l'anno seguente. Il secondo atto dell'Eumene, opera di Gian Francesco De Maio rimasta incompiuta per l'immatura scomparsa del compositore, nel 1770...
Malgrado ciò, al ritratto del monopolitano tratteggiato da Paisiello manca senz'altro qualcosa di più che dei semplici dettagli: è - in un certo senso - lo stesso Paisiello a tradire l'incompletezza del disegno quando dice che Giacomo Insanguine si screditò presso i professori: da quel che risulta dalla lettura delle recensioni giornalistiche dell'epoca relative alle pubbliche esecuzioni delle opere originali del Nostro, infatti, appare chiaro che un giudizio così negativo non era affatto condiviso dal pubblico che affollava i palchi dei teatri d'opera, come non era condiviso dai direttori artistici di quegli stessi teatri.
La carriera dell'Insanguine non si può definire travolgente: tuttavia le sue opere riscossero mediamente un buon successo, ed in particolare due di esse suscitarono una notevole risonanza nel pur affollato scenario dell'opera napoletana settecentesca.
Proprio quell'Osteria di Marechiaro, che più o meno consapevolmente Paisiello dimentica di citare, rappresentò un solido trampolino di lancio per la carriera di compositore del Nostro: portata nel 1768 sulle scene dei Fiorentini riscosse un tale plauso da meritare la permanenza in cartellone per i due mesi successivi la prima esecuzione; tanta risonanza non risparmiò peraltro gli ambienti di corte, cosicché Giacomo Insanguine ebbe l'inaspettata ed ambita opportunità di eseguire e di replicare la sua musica a Corte, per il diletto dei Sovrani, presso il teatrino di Caserta durante il Carnevale del '69, per poi tornare in cartellone ai Fiorentini fino alla conclusione della stagione.
Il notevole successo di questa opera non restò comunque un caso isolato: all'inizio dell'anno seguente, infatti, è attestato un caso di "buoncostume musicale" abbastanza insolito in un periodo in cui l'ambiente dell'opera cominciava ad essere fatto oggetto di aspre critiche per la scarsa attenzione prestata al fatto musicale in sé, a favore di aspetti più futili e mondani.
Il Teatro San Carlo di Napoli aveva infatti commissionato al Buranello la composizione di un'opera - la Didone - da eseguirsi il 20 gennaio del 1770: il compositore veneziano conosceva già la Compagnia che avrebbe rappresentato l'opera, e fra i requisiti contrattuali era contemplato l'obbligo di tenere nella dovuta considerazione le peculiari capacità degli interpreti.
A quanto sembra, tuttavia, la partitura inviata a Napoli dal Buranello si dimostrò inadatta alla Compagnia teatrale al punto da rendere impossibile la rappresentazione.
In questi casi si era soliti ricorrere molto semplicemente a quell'arte in cui eccelleva proprio l'Insanguine: la rappezzatura. Le arie, insomma, avrebbero dovuto essere modificate per incontrare i gusti dei cantanti. Invece la giunta che aveva compiti di supervisione sulle manifestazioni artistiche si espresse in modo diverso, ponendo la questione della qualità artistica del prodotto: si legge infatti che

"[ ... ] Non sembrando alla Giunta conveniente al decoro del R. Teatro di concedere la libertà ai cantanti di potersi mettere le arie a loro piacere, perché rarissime volte avveniva che simili centoni incontrassero per gli capricci dei cantanti, e poiché doveasi il pubblico defraudare del piacere di un'opera unita, stimò detta Giunta di obbligare l'impresario a soggiacere alla spesa di far comporre da capo l'opera dal Maestro di Cappella Monopoli che era stato destinato per guidare quella del Buranello, uomo già cognito per lo suo merito, per le opere scritte in Napoli, Palermo e Roma, e che poteva, essendo presente, incontrare la soddisfazione di tutti i cantanti".

Il povero impresario dovette inevitabilmente sottostare a quanto intimato, e Giacomo Insanguine ebbe l'opportunità di scrivere la sua Didone, che tra un successo e l'altro soppiantò in cartellone anche lo sfortunato Ruggiero dell'Hasse - che già aveva accusato il duro confronto con il genio mozartiano - anche se c'è da segnalare il fatto che il Ruggiero era stato "Regolato dallo stesso Insanguine" e da questi diretto: come dire che il lupo se anche perde il pelo difficilmente perde il vizio!
In sostanza, comunque, anche senza andare a riepilogare i colpi messi in seguito a segno dal Nostro in teatri come il Regio di Torino o il S. Benedetto di Venezia, è innegabile che l'immagine che Paisiello ha tratteggiato dell'Insanguine è da considerarsi quanto meno restrittiva.
Giacomo Insanguine è senz'altro un personaggio secondario nel vivissimo quadro dell'opera settecentesca: e tuttavia sarebbe corretto ricomporre gli argini intorno a quanto c'è di artigianale nel modo di confrontarsi con l'arte in Giacomo Insanguine, ed allo stesso tempo rivalutare quanto di artistico si cela sotto l'ormai poco difendibile luogo comune che lo vuole semplice "Maestro delle Pezze".


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