§ RILEGGENDO LA STORIA

UN RAGGIO DI GLORIA SUGLI SPALTI DI GAETA




Arrigo Petacco



Se, come vuole la migliore retorica, almeno un raggio di gloria deve illuminare il tramonto di una dinastia, Francesco II e Maria Sofia se lo guadagnarono sugli spalti di Gaeta. Perché se è vero che un re e una regina devono mostrarsi tali nei momenti decisivi, gli ultimi sovrani di Napoli si rivelarono in quell'occasione degni di ammirazione e di rispetto.
A Gaeta si registrò anche l'ultimo disperato sussulto del vecchio mondo che non voleva sparire senza combattere. Il mondo legittimista, ancora legato ai princìpi assolutistici spazzati via dalla Rivoluzione francese, volle infatti tentare a Gaeta l'ultima resistenza contro l'inesorabile avanzata del mondo moderno. L'ambiente stesso in cui questo sacrificio si è consumato, si presta a fornire un'altra immagine retorica. Il vecchio mondo aristocratico può essere simbolizzato dalle fortificazioni medievali di quella piazzaforte da secoli inviolata; quello nuovo dai moderni cannoni "rigati" di Cialdini che lo sgretolarono.
Di questo assedio colmo di presagi si è parlato troppo o troppo poco. La nostra storia, scritta come al solito dai vincitori, lo liquida come un episodio secondario ironizzando sui poveri soldatini di "Franceschiello" e ignorando quasi del tutto il comportamento eroico di Maria Sofia. Da parte loro, gli storici legittimisti enfatizzarono eccessivamente le virtù di quella giovane sovrana che diventerà famosa in tutta Europa come l' "eroina di Gaeta". La esaltarono a tal punto che in seguito Maria Sofia diventò essa stessa il simbolo del legittimismo o, se preferite, l' "anti-Garibaldi" della reazione. Tanto è vero che per offuscarne l'immagine luminosa, i press agent del nostro Risorgimento non esiteranno a organizzare contro di lei delle vergognose campagne scandalistiche ricorrendo a sistemi degni del più bieco Kgb.
Maria Sofia vive insomma a Gaeta i giorni più esaltanti della sua vita e mai li scorderà. Vive anche i momenti più belli della sua infelice unione coniugale. Perché mai come ora i sovrani furono così uniti. Anche Francesco, infatti, affronta l'assedio con dignitosa fermezza. Anzi, la sua abituale timidezza si trasforma addirittura in audacia in più di una occasione. Fiero del comportamento della moglie, che ora può finalmente cavalcare al suo fianco tra il fumo della battaglia, l'ultimo re di Napoli riscatta, anche se ormai è troppo tardi, le colpe e gli errori di una dinastia giunta al tramonto.
Gaeta fu sempre sfruttata come fortilizio naturale che l'arte fortificatoria degli uomini trasformò col passare del tempo in una piazzaforte praticamente inviolabile. Numerosi furono infatti gli assedi che dovette subire attraverso i secoli. Quello che ebbe inizio il 4 novembre 1860 ad opera delle truppe piemontesi comandate dal generale Enrico Cialdini, futuro duca di Gaeta, era il quattordicesimo.
A quella data si trovavano nella fortezza circa 12.000 soldati e 900 ufficiali cui vanno aggiunti i circa 3.000 abitanti dell'antico borgo. La piazzaforte disponeva complessivamente di 500 bocche da fuoco di vario calibro e di varie epoche, ma di veramente efficienti ve n'erano poco più di 300, distribuite in otto batterie le più importanti delle quali erano denominate Torre d'Orlando, Transilvania, Trinità, Regina e Philipstadt.
Le forze assedianti di Cialdini consistevano in 15.500 uomini e 808 ufficiali che disponevano di un numero assai inferiore di cannoni (poco più di 160 pezzi contando anche quelli messi a disposizione più tardi dalla sopraggiunta marina sarda). Ma con una fondamentale differenza: i cannoni piemontesi erano tutti "rigati", ossia dotati di quella filettatura interna che consentiva un rilevante vantaggio in gittata (potevano colpire senza essere colpiti), maggiore precisione di tiro e una forza di penetrazione che consentiva effetti dirompenti, fino allora insospettati, sulle opere di difesa.
I cannoni "rigati" a disposizione degli assediati erano invece poco più di una dozzina, cui saranno aggiunti altri quattro, oltre un obice, che furono "rigati" lì per lì, con ingegnosità tutta meridionale, adoperando un congegno usato per la fabbricazione delle viti.
Gli altri erano tutti antiquati cannoni a canna liscia dal tiro corto e dal risultato incerto.
Un'altra guerra, assai più dura di quella combattuta a Gaeta, era intanto iniziata negli Abruzzi dove ancora resisteva eroicamente la fortezza di Civitella sul Tronto. La rocca, che sorgeva "sulla sommità di un gruppo di scogli", era praticamente inaccessibile e poiché non aveva alcun valore strategico, i piemontesi se l'erano lasciata dietro durante l'avanzata. Ora però essa era diventata un ottimo rifugio per tutti coloro che non avevano voluto arrendersi.
Il fenomeno, denominato genericamente e impropriamente "brigantaggio" dai piemontesi, veniva d'altro canto sopravvalutato dai difensori di Gaeta che vi intravedevano l'insorgere di un più vasto movimento insurrezionale capace di capovolgere la situazione. I piemontesi, che non ne sottovalutavano il pericolo, affrontarono la situazione con spietatezza e con "sistemi da guerra coloniale". Gli usi cavallereschi che caratterizzavano l'assedio di Gaeta furono banditi dalle montagne degli Abruzzi dove si combatté una guerra totale senza prigionieri. Neppure la presenza di molti religiosi fra i "briganti" frenò la repressione. Frati e preti venivano fucilati senza esitazione al pari di tutti i guerriglieri che venivano catturati. Per farsi un'idea di come i piemontesi interpretarono quella campagna, sarà sufficiente questo brano di un bando fatto pubblicare dal generale Pinelli:
"Un branco di quella progenie di ladroni ancor s'annida sui monti: snidateli, siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è un delitto: sono prezzolati scherani del vicario non di Cristo, ma di Satana. Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotal vampiro che con le sue sozze labbia succhia da secoli il sangue della madre nostra. Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dalla sua immonda bava, e da quelle ceneri sorgerà rigogliosa la libertà".
Ma ormai tutto rovinava intorno a Francesco e a Maria Sofia. L'odore della morte si spargeva dovunque. A dare il tracollo ad ogni speranza giunse la sera del 10 una lettera personale all'imperatrice francese alla regina napoletana. Eugenia, in termini molto affettuosi, ma senza ipocrisie, poneva Maria Sofia davanti alla dura realtà. Fu quel giorno che Francesco, davanti ai 31 ufficiali superiori che formavano il consiglio di guerra, pronunciò per la prima volta la parola capitolazione.
L'inizio delle trattative non corrispose con la cessazione delle ostilità. Per accelerare i tempi, i piemontesi accelerarono addirittura il volume del fuoco. "Se la capitolazione non avrà luogo", telegrafò Cialdini a Cavour, spero di prendere in breve l'assalto alla piazza, ma in maniera così terribile che forse sarebbe meglio finirla altrimenti". E Cavour di rimando: "Bravo, generale! Approvo tutto quanto avete fatto e quanto farete". Poi, supponendo cinicamente che Francesco potesse avanzare anche delle richieste di denaro per la propria famiglia, invitò Cialdini a offrirgli fino a due milioni, precisando che la somma poteva essere aumentata se il re avesse offerto anche la resa di Messina e di Civitella che ancora resistevano.
Il 13 febbraio, mentre le trattative continuavano, l'artiglieria assediante aumentò il fuoco, benché Cialdini fosse stato informato che proprio quella mattina Francesco aveva chiesto l'invio della nave francese Mouette, segno evidente che si accingeva a partire. Alle 3 del pomeriggio si registrò una nuova esplosione, saltò infatti in aria il deposito di munizioni della batteria Transilvania che conteneva 18 tonnellate di polvere.
La capitolazione fu firmata due ore dopo. L'accordo raggiunto era, tutto sommato, dignitoso. Cialdini non aveva approfittato della sua forza. Erano garantiti gli onori militari per tutta la guarnigione; gli ufficiali avrebbero potuto conservare le armi personali e i cavalli; ai militari sarebbe stata concessa la paga di due mesi ed era assicurata la pensione alle vedove e agli orfani. Non vi erano segrete clausole finanziarie. Francesco, fedele al suo stile, non aveva chiesto nulla per sé e per la sua famiglia. Si era soltanto limitato a chiedere che la capitolazione avesse luogo dopo la sua partenza.
Alle 7 del mattino del 14 febbraio 1861, Francesco II e Maria Sofia uscirono dalla casamatta in cui avevano vissuto durante l'assedio. Li seguivano i principi reali di Trani e Caserta, ministri, generali, diplomatici e domestici. Lui vestiva una semplice uniforme militare priva di gradi e di decorazioni. Maria Sofia indossava un abito da viaggio e un grazioso cappellino con una lunga penna verde. Erano pallidissimi e, per la prima volta, una lacrima brillava negli occhi di lei.
Dalla casamatta alla "porta a mare", un percorso di circa 300 metri, una folla di militari e di civili premeva contro i cordoni dei soldati schierati in ordine serrato per consentire il passaggio del corteo. Dalle finestre delle case donne piangenti lanciavano grida di saluto. La commozione generale era intensa e la banda intonò l'inno borbonico che era risonato tante volte sugli spalti durante i bombardamenti. Per qualche tempo l'emozione fu contenuta anche se soldati e ufficiali laceri e smunti piangevano senza vergogna.
Poi la folla ruppe i cordoni e molti si gettarono ai piedi del re e della regina per baciar loro le mani e le vesti. Viva 'o re! gridavano tutti, mentre alcuni ufficiali spezzavano con rabbia le loro spade e gettavano via i tronconi. Quel breve percorso richiese molto tempo, tanta era la pressione della folla. Francesco era terreo in volto, Maria Sofia sorrideva e piangeva agitando le mani in segno di saluto. Quando i reali raggiunsero la Mouette a bordo di una lancia, la bandiera borbonica fu alzata sul pennone accanto a quella francese.
Un'ora dopo la nave francese salpava passando in mezzo alle navi di Persano che la sorvegliavano a distanza. Quando la Mouette superò la punta, dalla batteria borbonica di Santa Maria fu eseguita la salva reale di ventun colpi. Contemporaneamente sull'alta Torre di Orlando la bandiera gigliata fu alzata e abbassata tre volte in segno di omaggio ai sovrani che partivano. Subito dopo veniva ammainata e al suo posto fu innalzato il tricolore con la croce dei Savoia.
Il Regno di Napoli non esisteva più. Ma non si può negare che un "raggio di gloria" non abbia indorato il suo tramonto.


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