§ IL CORSIVO

COME FINISCE?




Aldo Bello



"Chiedo scusa per la facile battuta: ma la stampa meridionale (dei politici manco a parlarne) ritiene di aver fatto sempre per intero il suo dovere sulla questione meridionale?". Domanda posta, legittimamente, da un lettore di Apulia. Che merita una risposta articolata, anche con storie che vengono da molto lontano.
Ecco, ad esempio, alcune note di cronaca di una giornata parlamentare. Si discute la legge sul Mezzogiorno. "...Passati quindi i soliti immancabili discorsi elettorali, si riprese la discussione della legge sul Mezzogiorno che ci dette il modo di sentire anche il ministro del Tesoro che risollevò il tono della discussione e raccolse unanimi approvazioni. Appena sedette, quasi tutti i deputati corsero a stringergli la mano e primo fra tutti il suo predecessore on. ( ... ) le cui congratulazioni l'on. ( ... ) mostrò di gradire in modo particolare. Sennonché per questi salamelecchi, tutto finì in un baccano indiavolato. E quando l'on. ( ... ) presentò la sua relazione tutti gridarono: a domani! a domani!". Quanto sopra sembra una delle tante sedute parlamentari dei nostri giorni. Macché. Si tratta dei "lavori" parlamentari della legge sul Mezzogiorno datati 18 giugno 1906 (proprio così: 1906!). Gli onorevoli omessi (per non svelare subito la datazione) sono, nell'ordine: Salandra, Maiorana e Cottafavi. La fonte: il Giornale Nuovo di Firenze, anno I, numero 132, pagina 2 del 1906.
Facciamo, non a caso, un salto all'indietro. 8 settembre 1814. Muore al Castello di Hetzendorf (Vienna) Maria Carolina, Regina di Napoli. Dopo circa un mese dalla morte della consorte, ne arriva la notizia a Re Ferdinando in Sicilia. Qui dico Re Ferdinando IV in quel di Napoli, III in quel di Sicilia e, grazie al Congresso di Vienna, finalmente, Ferdinando I. Il quale dette vita all'ironica quartina popolare: "Eri quarto e poi terzero / Or sei primo. In questo gioco / bada ben' che a poco a poco / finirai per esser zero!". E Re Nasone, che il 23 ottobre 1914 scriveva al genero Carlo Felice: "... il Signore ha voluto tutt'in un colpo privarmi di una compagna, di un'amica, che piangerò il rimanente dei miei giorni .. ", il 27 novembre dello stesso anno, ancora caldo il cadavere di Maria Carolina, unisce quel rimanente dei suoi giorni in morganatico matrimonio, a Palermo, con Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, vedova di Benedetto Grifeo, Principe di Partanna. Lui, sessantaquattro anni. Lei, venti di meno: quarantaquattro. E mai unione, anche se avversata, fu più felice! A Re Ferdinando, amante della vita comoda, delle cacce nelle tenute di Portici e di Caserta, delle feste a Corte, della buona tavola sicula e partenopea, e che già per tutto questo era tiranneggiato nella vita politica e contrastato in quella privata dalla lucida intelligenza della prima moglie, non parve vero, ora, di affidare le cure del governo ai suoi ministri tecnici che andavano per la maggiore, particolarmente il Medici, e di tornare interamente alle sue borghesi occupazioni. E si racconta che il Re, facendo un doppio raffronto tra la moglie Lucia e il ministro Medici, fra la moglie Carolina e il ministro Acton, esclamasse: "Che bella cosa! Ho una moglie che mi lascia fare tutto quello che voglio e un ministro che non mi lascia niente da fare!". I sudditi delle città e delle campagne, in mezzo ai quali il Re passava familiarmente, erano tutti per lui; ma la borghesia, che indovinava gli scopi tirannici della "Santa Alleanza", commentava con un'ennesima pasquinata: "Il Re non capisce I Medici assorbisce / Tommasi smentisce / Il popolo patisce / E chi sa comme fernisce".
Niente è più difficile - e per certi versi imbarazzante - che dover parlare di se stessi, come ha scritto Dostoewskij. Ma credo che, per una volta soltanto, sia inevitabile. E la storia è questa. I miei primi maestri di giornalismo sono stati principalmente due: Santi Savarino, e più che lui il suo splendido caporedattore Rocco Morabito, in un "Giornale d'Italia" che cresceva fra gli altri Gaspare Barbiellini Amidei (futuro direttore del "Corriere della Sera"); e Ferruccio Disnan, che dirigeva l'allora settimanale "La Tribuna", con redattori e collaboratori fissi del calibro di Alberto Sensini (che avrebbe poi diretto "La Nazione" di Firenze), Aldo Rizzo (che avrebbe diretto il "Gr1"), Federico Orlando (che avrebbe codiretto dapprima "Il Giornale" e in seguito "La voce" di Montanelli); e ancora, Salvadori, corsivista finissimo, De Madariaga, esule dalla Spagna franchista, Cocco Ortu, meridionalista eccelso, e il sottoscritto, appena iscritto alla "Sapienza" e col tarlo del giornalismo nel cervello.
Le mie scelte non erano state casuali, perché conoscevo bene la storia delle due testate. Per il quotidiano, intanto: in tempi in cui un presidente del Consiglio, o un ministro, avevano a cuore l'onorabilità politica, oltre quella personale, era sufficiente un attacco con un articolo di fondo (del "Giornale d'Italia", ma anche del "Corriere della Sera") per determinarne le dimissioni. Storicamente, il Palazzo era stato particolarmente sensibile a quel che scrivevano a via Solferino, a Milano, e a via del Corso, a Roma. Un editoriale particolarmente critico era sufficiente a infiammare le Camere e a mobilitare l'opinione pubblica.
I direttori erano figure leggendarie: coltissimi, con eccellente preparazione storico-politica, con formidabili retroterra professionali, con speculari capacità dialettiche. E coraggiosamente schierati. Nessuno avrebbe mai potuto ipotizzare, allora, le supreme ipocrisie della "par condicio", perché nessuno sarebbe stato disposto a rinunciare alla propria formazione, alla propria deontologia, al proprio temperamento. Grazie ai quali non solo informavano, ma 'formavano", cioè facevano opinione; mantenevano vive le tensioni civili; soprattutto, erano gli "avversari naturali" (non i nemici, si badi bene) dei politici, di tutti i politici, che incalzavano senza tregua.
Tutto questo, fino alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando gli opposti fronti degli interventisti e dei neutralisti giunsero ad uno scontro senza precedenti, finendo poi col restare, direi l'uno e l'altro, travolti dal mussoliniano "Popolo d'Italia", che tracciò le direttrici di un'altra storia e di un'altra politica. Dopo il Ventennio le cose cambiarono. I due grandi quotidiani continuarono a vivere sulla scia dell'antico e del nuovo prestigio, fino a che il giornalismo romano entrò in crisi: si cominciò con l'assorbimento di "Paese" in "Paese Sera" e si proseguì con la chiusura del "Giornale d'Italia", di "Momento Sera", di "Telesera", della "Luna"...
Rimase in campo "La tribuna" di Disnan, e fu la scuola più dura, e direi arcigna, di giornalismo romano, con un direttore al quale nessuno, a memoria di redattore, riuscì a dare - e meno che mai a ricevere - il "tu". Neanche l'editore. E fu proprio Disnan, su quel settimanale, a scrivere l'ultimo 'fondo" che fece cadere un gabinetto. Era il 1963. La Dc aveva deciso di portare al governo il Psi di Nenni. Lo scontro era decisivo. Allora Disnan, intellettuale di antica fede liberale, scrisse il pezzo d'apertura. Si intitolava "Il diavolo e l'onorevole Moro". Diceva sostanzialmente: vogliono aprire a sinistra? Ciprovino. Noi non ci staremo.
Ci provarono. Cadde il gabinetto Segni e i liberali andarono all'opposizione, ottenendo nella successiva consultazione elettorale un successo tanto strepitoso, quanto temporaneo. Risultato: fu l'ultima circostanza nella quale la stampa ebbe udienza in campo nazionale; l'ultima occasione nella quale l'autorevolezza di un direttore ebbe un'influenza determinante. Dopo di che, l'eco dei giornali romani non riuscì più a varcare il "Muro di Ancona"; e quella dei quotidiani editi a Sud non superò nemmeno il parallelo di Formia.
C'erano stati grandi meridionalisti - e meridionali - sul "Giornale d'Italia". E ci furono nella "Tribuna": Cocco Ortu, in cima a tutti; poi Orlando, Salvadori, altri ancora. E non tutti erano favorevoli alla Cassa per il Mezzogiorno; tutti erano nemici dichiarati dell'assistenzialismo. Furono scritte pagine memorabili. Fino a quando anche questo giornale tramontò. Divenne dapprima quindicinale, poi mensile, infine memoria del passato. Ancora per qualche tempo si diventò inviati speciali dopo l'esame Sud, cioè dopo aver fatto almeno un'inchiesta sul Mezzogiorno. Quando anche il cinema chiuse il discorso meridionale, sebbene a Sud crescessero gli Sciascia, i Rea, i Compagnone, gli Strati, i Seminara, e altri ancora, il meridionalismo giornalistico (e di giornalistiscrittori, come Fiore) impallidì e divenne esangue nei brogliacci della burocrazia e negli imbrogli degli sprechi.
E da almeno un quarto di secolo che le due Italie non comunicano più. Nord e Sud si incontrano, sfiorandosi appena, solo d'estate, nei giorni del posto al sole, quando i settentrionali si portano dietro un groviglio di diffidenze, di sospetti, di apprensioni. Salvo a scoprire, alla fine, che l'inferno non è poi così brutto come certi personaggi non proprio disinteressati lo descrivono.
Non si comunica più perché al Sud intero sono rimasti i pregiudizi culturali e l'immagine dei morti ammazzati per mano delle mafie. Come se altrove, in questo nostro sciaguratissimo Paese, non agissero ben altre mafie, più raffinate, che al posto della lupara usano appropriate leggi dello Stato, con il risultato di un'imprenditorialità spacciata per privata, e in realtà assistita e protetta, che ha contribuito in misura cospicua all'accumulazione di quei due milioni e passa di miliardi di lire del debito pubblico che pesano come macigni sulle teste dei nostri figli.
E non si comunica, infine, perché del Sud emerge non solo il fastidio della contiguità geografica, ma persino quello della parola. Oggi come oggi, ascrivere dei problemi meridionali, anche in termini di moderni interventi, sono rimasti alcuni fogli locali e qualche periodico che proprio non ci vuole stare. La "questione meridionale", che esiste ed è visibile nelle sue cifre tremende, non è più merce spendibile. I meridionalisti superstiti, quelli che hanno speso una vita a battersi contro la politica - programmata e imposta - delle due Italie, sono stanchi e inascoltati. In qualche caso anche sconfitti. E un giovane che oggi volesse scegliere il mestiere del giornalista e si proponesse con un bagaglio di conoscenze appena un poco più in là della nuda e cruda cronaca criminale, sarebbe ridicolizzato e messo alla porta senza esitazione. Per convincersene, basta dare un'occhiata ai balbettii rifilati per impegno meridionalistico pubblicati dai quotidiani editi al di sotto della Linea Gotica.
Idee, progettualità, creatività, sudore e sangue? Mobilitazione, grandi spiriti, e sia pure solitari, intelligenze da frontiera? Cose da robivecchi. E voi a fargli capire che gli americani hanno impiantato Silicon Valley in un deserto e che Silicon Valley è diventata la locomotiva degli States; o che i tedeschi hanno alzato nello Schleswig-Holstein tutte le ciminiere elettroniche e telematiche dell'ex Repubblica Federale, trasformando il loro "Sud depresso" in un'area industriale all'avanguardia nel mondo. Ma chi sta ad ascoltarti, o più ancora, a leggerti? A meno che non si scriva "contro", secondo una moda che ha visto e vede parecchi lavori in corso. Ma in questo caso a me viene un sospetto: come Goethe aveva ipotizzato che scrivere la storia è un modo di sbarazzarsi del passato, così a me pare che quando certi personaggi si occupano della storia del Sud èperché intendono continuare a vederlo in croce. Che storia è? La solita: criminalità, corruzione, assistenzialismo. Mai un'inchiesta aggiornata su altri fattori, importanti, della questione meridionale e italiana, che non furono trascurati dai meridionalisti classici. In circa un secolo e mezzo di "unità", il Sud ha spedito a Roma legioni di ministri, sottosegretari, parlamentari e burocrati (il fior fiore di una borghesia controriformistica), che non sono riusciti, per miopia o per pochezza o infine per soggezione e condizionamento, a modificare sostanzialmente gli squilibri economici. Non solo. Penso anche al fallimento della promozione di una coscienza civile a tutto campo nelle regioni meridionali. E qui sono parte in causa tutti: anche i giornalisti, o gli scrittori di rapsodie in grigio, o i portavoce più o meno palesi o occulti, comunque annidati nei gangli della vita pubblica italiana e meridionale. E l'eterno ascarismo esportato nella capitale.
Che cosa ribattere, allora, al "comme fernisce"? La risposta c'era già, e riporta alla memoria l'amara profezia del pronipote del cinico Re Nasone, il mite Francesco II, che abbandonando Gaeta mise in guardia i suoi ex sudditi dal farsi troppe illusioni sui "liberatori": - Questi - disse - non vi lasceranno nemmeno gli occhi per piangere -. Solo che, tranne rare eccezioni, o continuiamo a piangerci addosso, o facciamo finta di non vedere. Se la Magna Grecia avesse un'arcigna scuola di vita! Se la sua diseconomia non dovesse più essere la struttura portante dell'economia italiana! Se. Se...
Post scriptum. Trovo, sul "Monitore degli Impiegati", bisettimanale, "giornale amministrativo-politico", edito a Milano il 7 gennaio 1875, due lettere di Garibaldi, riportate in prima pagina. La Camera dei Deputati aveva deliberato in favore dell'Eroe dei Due Mondi un vitalizio, o "dono", per gratificare in qualche modo il capo dei Mille che aveva unificato la penisola. La prima missiva, del 25 dicembre 1874, era indirizzata al direttore del giornale, l'altra all'onorevole Mancini, che gli aveva comunicato il proposito di sostenere l'assegnazione del vitalizio. Le riporto non solo in memoriam, ma anche per un raffronto significativo dei tempi e degli uomini:
"Mio carissimo Riboli, Vi prego di far pubblicare le linee seguenti:
Anteriormente alla lettera qui sotto trascritta, diretta al mio illustre amico - onorevole Mancini - io già avevo manifestato allo stesso la risoluzione di non accettare il dono nazionale o dotazione - che per iniziativa dei nostri amici si voleva proporre al parlamento - in considerazione dello stato deplorabile delle nostre finanze. Non desistendo gli amici suddetti dal generoso proposito, io scrissi quanto segue:

Caprera, 10 dicembre 1874
"Mio caro Mancini, m'inchino con rispetto e gratitudine davanti al dettame dei rappresentanti della nazione - ed avrei accettato il dono nazionale - qualunque sia - se non vi fosse di mezzo un governo che io tengo colpevole delle miserie del paese, e con cui non voglio esser complice. Riconoscente a voi ed agli amici. Sono per la vita, Vostro: G. Garibaldi".

"Ho veduto oggi dai giornali essere un fatto compiuto la deliberazione accennata, e certo la considero come il massimo degli onori e delle ricompense al poco da me operato nel compimento del mio dovere verso la patria. Duolmi dover insistere nella mia risoluzione di non accettare il dono per le ragioni anzidette - prostrandomi riverente e grato, davanti al nobile consesso nazionale - da cui speriamo tutti un miglioramento delle condizioni di questa nostra Italia. Sempre vostro, G. Garibaldi".
Storia di millant'anni fa!


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