§ MEDAGLIONI

MEZZO SECOLO DI ASPIRANTI PERSONAGGI




Gennaro Pistolese



I miei anni Trenta: i loro inizi hanno avuto a che fare con qualche premessa - del mio impegno giornalistico e colonialistico - e con l'incalzante interrogativo del domani. Qui le vicende personali hanno certo minore risalto dei volti che ho incontrato, forse indicativi di un tempo anche per altri, ma per me comunque sempre emblematici. E perciò cercherò di richiamarli.
Legate a tali primissimi anni sono tre persone: un ingegnere, finanziatore di un settimanale coloniale di cui mi ero reso promotore, L'Azione Coloniale: una testata per me non difficile da inventare, dato che il ministro delle Colonie, l'ex nazionalista Federzoni, proprio in quel periodo aveva pubblicato un libro dal titolo Venti mesi di azione coloniale; un senatore milanese, pure conte e presidente, oltre che dell'Istituto Coloniale Fascista, dell'Umanitaria; un quadrunviro della "Rivoluzione", Emilio de Bono.
Il primo, padre di un mio compagno d'università che a me si era affiancato nel movimento universitario coloniale, a conclusione di alcune lunghe vicende giudiziarie percepì un capitale di vari milioni di allora, che gli consentirono non solo di cambiare vita - e secondo me se lo meritava - ma di divenire anche proprietario di un giornale e di farne condirettore oltre che me il proprio figlio.
La sua era stata, tutto sommato, una vita travagliata. Aveva certo avuto delle intuizioni: quella di aver individuato, mettendoci sopra le mani, una delle più vaste, importanti aree di Roma, una parte rilevante del Monte Mario di oggi; quella di aver fatto per essa ricorso, come al solito, al credito, e perciò di aver avuto con esso un contenzioso destinato necessariamente ad andare per le lunghe e ciò nella deludente ricerca dell'equilibrio fra la dinamica dell'iniziativa e quella del credito; quella di autentico abruzzese, molto esemplare anche allora soprattutto culturalmente ed operativamente, e di essere fratello di chi aveva dato e dava una spinta alla cellulosa nell'Italia di quei tempi. Egli, oltre alle preoccupazioni e agli impegni che così gli derivavano, aveva la preoccupazione di condizionare l'ispirazione del settimanale che finanziava al principio del superamento di una "realtà che vedeva gli italiani dispersi nel mondo come sabbia nel deserto". Sono sue parole, che mi ripeteva ossessivamente, e che annunciavano con notevole anticipo sugli altri anche l'odierno problema degli italiani all'estero.
Dopo alcuni mesi che coincisero con la sua assenza da Roma per il conseguimento di una borsa di studio a Bucarest in letteratura romena - l'insegnante a Roma, prof. Claudio Isopescu, così faceva i suoi proseliti -, il condirettore figlio dell'editore pretese il suo spazio esclusivo. Ne trassi le conclusioni, non ebbi liquidazioni perché erano arbitrariamente condizionate alla mia rinuncia al diritto sulla testata.
Queste persone sono così scomparse. Una molti anni dopo però si è rifatta viva perché mi riteneva nuovamente utile. Con l'apparenza, forse con la convinzione, che prima non fosse successo niente. Chi si è creduto calato nella "sabbia" è invece vivo nel mio ricordo, anche perché il settimanale da lui finanziato, mercé l'aiuto del figlio che ne è stato continuatore, gli ha consentito di sopravvivere. In mezzo al tumulto degli ideali e anche delle constatazioni.
Forse si tratta del sommario ritratto di un piccolo-medio imprenditore, che ho poi conosciuto in tanti. lo ricordo però questo, insieme a qualche altro, di cui dirò in seguito. E si tratta semplicemente di tentativo, di tentativi di "ritratti".
La seconda persona è il senatore milanese, il conte Pier Gaetano Venino, se non ricordo male il nome.
Era stato nominato Presidente dell'Istituto Coloniale Fascista, di cui mi era occorso con un architetto sardo di inventare il distintivo: una palma, un fascio su fondo bianco con la scritta in oro ICF e con una base in tricolore.
Ne ero fiduciario per il settore giovanile. Allorché egli seppe che stava per nascere, con finanziamento proprio, un nuovo organo di stampa, ne pretendeva la promozione e quindi l'assorbimento.
La pretesa non ci trovò d'accordo, e provocò la denuncia da parte di quattro di noi - il sottoscritto, il figlio dell'editore, Vittorio Gorresio, un allora partecipe a tutti i concorsi pubblici banditi e poi federale, provveditore agli studi, prefetto e poi nuovamente provveditore agli studi, ecc. - a mezzo di altrettanti articoli che nello stesso giorno comparvero sui quotidiani del momento, sottolineando i tanti aspetti della situazione dell'Istituto nel quale Mussolini, nella sollecitazione di ventimila soci che non c'erano, faceva presente che oltre alle zone di luce vi erano quelle di ombra da cancellare.
Venino ci apparve appartenere a queste zone d'ombra e così provocammo la sua protesta e la sua denuncia all'Alta Corte di Disciplina del partito: lui era senatore e noi "ragazzini". Venino, che poi ebbe qualche soddisfazione formale, e dirò quale, era già per conto suo decotto. Chi contava al di sopra di noi riteneva che non solo Venino, ma tutta la sua genealogia avessero fatto il loro tempo.
Un capo di Gabinetto di allora ci riferiva, compiaciuto per noi, che il senatore si precipitava da lui a protestare con gli occhi di fuori.
Ma la constatazione a noi poco più che adolescenti interessava più come auspicata solidarietà, che non come indicativa di un carattere. E' ad esso che secondo me, alla mia età, va invece reso omaggio. Si trattava di un lombardo, aristocratico, politico di altri tempi, preoccupato della sua Umanitaria, pendolare rispetto a Roma, con distintivo fascista ma senza camicia nera, nobilmente calvo e così via. Era erede della lira che faceva premio sull'oro, della pratica di certi doveri civici, di un ceto allora di molto superiore al mio e che ha creato sempre una identità diversa, possibilmente avanzata. Forse oggi personaggi e ceti così caratterizzati o caratterizzabili sono ancora vaganti. E perciò il ricordo, come ancora si rivendica una borghesia, che tutto sommato è certamente nata, è poi altrettanto certamente defunta, ma che ci si attende che finisca. Le vicende politiche di questi giorni, che oggi, tutte, le denominano "centro", ce ne danno conferma. E così nascono le cosiddette rivelazioni, anche nostre, e che poi nel nostro caso sono ricordi.
Ed eccoci alla terza figura, e cioè al quadrunviro. Aveva voluto vedere noi i denunciatori, di cui prima ho detto. Voleva saperne di più su questo Istituto Coloniale Fascista. Evidentemente si compiaceva di parlare con i giovani e noi giovani, naturalmente, eravamo più contenti di lui. Ci furono delle domande e delle risposte che non ricordo, perché purtroppo non ho avuto mai appunti: questi ultimi - quando c'erano - limitati solo a quelli occasionali, cioè per me scolastici. Ricordo però che de Bono soffermò la sua attenzione sul personale femminile dell'Istituto, con frasi che anche allora mi parvero da caserma. Sennonché la poltrona da cui erano pronunciate era una di quelle della Consulta di oggi.
Ma il quadrunviro con la sua barba bianca, che ricordavo così dalla marcia su Roma, la stessa di direttore generale della Pubblica Sicurezza, del delitto Matteotti, del Governatore della Tripolitania, del ministro - di quello che a me resocontista giornalistico di un suo discorso coloniale a Montecitorio poi sarebbe piaciuto perché aveva detto che lo sbaglio a lui attribuito non era certo il primo, né sarebbe stato l'ultimo - e poi della guerra in Etiopia, del maresciallo del cosiddetto Palazzo dei Marescialli che per originaria destinazione aveva solo un nome attualizzato impropriamente dalle successive ed attuali destinazioni, dell'imputato e del condannato del processo di Verona, è forse riuscito a dimostrate quello che è stato e voleva essere realmente solo all'atto ed in preparazione immediata alla morte.
Si è nati, si è cresciuti, ma l'io lo si ritrova solo alla fine. La barba bianca, forse un simbolo, per taluni un segno di emancipazione, non ha lasciato tracce. Lo fa in certe iconografie di comodo ed obbligate. Ma questo non è il caso.
Ed infine, ma solo incidentalmente, ha a che fare con questo triplice elenco un federale di Roma. Ne avevo conosciuto un altro, da studente prima e molti anni dopo da direttore di un organo di stampa che gli dava lavoro per certi suoi articoli di ricordi. Ma la rappresentatività del primo era, quando ero studente, quella di stropicciarsi gli occhi prima di iniziare un discorso, e ciò probabilmente per vederci chiaro, e poi di essere stato rappresentante della nostra categoria. Il federale di cui parlo, invece, mi comunicò la "deplorazione solenne" che mi era stata inflitta dall'Alta Corte del partito e la diffida a non occuparmi più dell'Istituto Coloniale Fascista.
La comunicazione mi era giunta con notevole ritardo rispetto alla denuncia che era stata fatta ed alle motivazioni di replica che avevo formulato e che mi sembrarono bene accolte. Quindi presi tacitamente atto di quanto mi veniva comunicato, avendo fra l'altro appreso che Mussolini aveva detto di non pubblicizzare la cosa, perché si trattava di giovani.
Vidi il federale per la prima volta negli anni '60, con il suo carico di evidenti delusioni, di ricordi che lo lasciarono silenzioso, quando chi ci presentava tanti ne aveva con me, e che al riferimento a quella denuncia a me fatta non diede segno di alcuna attenzione. Sennonché alla fine dell'incontro nel saluto formale aggiunse a quello del cognome prima dichiarato quello del mio nome, che lui evidentemente ricordava per conto suo. Chissà come e perché.

Editori e giornalisti, "mostri" veri
Ed ecco qualche rapido ricordo di giornalisti ed editori degli ultimi 15 anni del Ventennio.
Fra i primi, ci sono "quelli che mi hanno dato la spinta". Ogni vita ha i propri. Anche le barzellette, com'è noto, quella principe, di fronte ad un immaginario eroismo.
A darmi la spinta è stato addirittura un periodico che aveva nel 1938 il titolo Le vie dell'Impero. Lo dirigeva un nobile, insegnante in improbabili istituti di una materia che si definiva geografia economica coloniale. La fantasiosità di denominazione di cattedre universitarie, oggi parossistica, ha pure i suoi non tanto lontani antenati. Orbene, questo direttore, il cui nome e cognome con casati relativi riempivano normalmente due righe di colonna di un giornale, mi chiese di scrivere un articolo, gratis naturalmente, sulle mie esperienze di attivista colonialista in campo giovanile.
Lo feci e quasi automaticamente ho ritenuto che quella avrebbe dovuto essere la mia "via": una via che mi ha condotto fin qui, nella speranza che altri viandanti non ne siano stati disturbati.
E poi c'è stato un altro giornalista, che ha pubblicato i miei articoli, sempre gratuiti, senza sapere chi fossi, vedendo solo che gli mandavo articoli su argomento coloniale. A quell'epoca chi ne scriveva era solo uno storico di provenienza in gran parte militare, qualche funzionario coloniale, qualche giornalista di estrazione nazionalista, e pochi altri. Questo direttore aveva certamente inventato una formula nuova per quei tempi, aveva un significativo circuito di collaboratori, si limitò a dirmi quando ebbi il coraggio di presentarmi a lui che il suo giornale voleva essere una vetrina di capaci. E forse lo è stato, con l'esclusione molto probabile di chi sta scrivendo per voi. Poi per mia fortuna le strade si sono divaricate, e lui pur grande giornalista da me come tale stimato ha battuto vie oggi giustamente biasimate. Oggi ci sono taluni che osano parlarne e scriverne bene, avendo a riferimento un determinato contesto ed io, con il mio contesto, faccio in questo caso e negli altri lo stesso.
Sempre nel novero dei miei danti causa, diciamo così, e non paganti, c'è da porre un direttore ed editore puro. Una figura che oggi assolutamente non esiste, ma che io ho avuto la ventura di conoscere, lavorando però completamente gratis.
Aveva fondato, amministrava e dirigeva una rivista mensile, che si chiamava Rassegna italiana: una mia domestica friulana, senza malizie satiriche, quando me ne annunciava le telefonate, precisava che si trattava del direttore della rassegnazione italiana. Egli si faceva regolarmente ricevere dal Re, non molto frequentato a quei tempi, perché i maggiorenti preferivano le più utili "udienze del duce". Questo direttore ha inventato molte cose, fra cui qualcuna in collaborazione con me, come un volume di articoli qualificati dedicati al ventennio della conquista libica. Poi un'agenzia dal titolo, allora rappresentativo, Espansione Economica, e quindi, all'indomani della seconda guerra, un Centro di Riconciliazione internazionale, sponsorizzato dal Banco di Roma, sì Banco di Roma, e non Banca di Roma di oggi. Le banche allora erano agli esordi di questo tipo di pubbliche relazioni. Qualcuna di esse operava, quando lo faceva, molto sotto traccia.
Dunque, sto ricordando l'esemplare di una razza, quella dell'editore puro, nel cui ambito possono rientrare alcuni giornalisti che per l'intera loro vita hanno vissuto di agenzie giornalistiche da essi stessi fondate ed amministrate. Qualcosa del genere è difficilmente reperibile oggi.
E poi c'erano i quotidiani e le riviste, che andavano incontro ai giovani e pure li remuneravano. A Roma c'era un barone ebreo, che al mattino circolava per la sua rivista con cilindro e tight grigi e nel pomeriggio, dal letto sotto le lenzuola e chiedendo la tolleranza dovuta ad un anzianissimo, dirigeva il suo periodico. Ad esso collaboravano generali, alti funzionari, storici e scrittori di una certa risonanza. Fra questi si inseriva qualche giovane, però se si presentava come specializzando o specialista in qualche cosa. lo naturalmente mi offrivo in tale veste e come tale remunerato come tutti gli altri - nulla di più o di meno - con 50 lire ad articolo. Il mio primo compenso è stato questo. Con il direttore-editore, proprietario anche di altre pubblicazioni utilitarie, preoccupato di abbonamenti e pubblicità, ma più che altro noto per caratterizzazioni di vestiario nella Roma di quei tempi.
E poi ancora i direttori di quei tempi: Giorgio Pini per Il Giornale di Genova, Gastone Gorrieri per Il Secolo di Milano, Benedetti per l'Ambrosiano, Stanis Riinas per il Corriere Emiliano, ecc., che spalancavano le porte ai giovani. Uno di essi, il primo, aveva come pregio particolare, in tutte le vicissitudini della vita, il sorriso, ma mi è stato obiettato che non poteva avere questo pregio, perché quella è stata l'epoca dei ganasciuti. lo mi sono limitato ad inserirlo nell'elenco non molto vasto dei giornalisti fascisti con il ma.
Fra i ricordi di direttori di riviste, c'è da porre anche Margherita Sarfatti, direttrice di Gerarchia, fondata da Mussolini, con la sua vicenda umana da narratrice protagonista; il padre di Guido Carli, ex socialista, ma protetto da Mussolini, e direttore della rivista delle Confederazioni del Commercio, soprattutto silenzioso perché saggio e sapiente, senza i lacci e lacciuoli inventati ma anche sostenuti dal figlio, dai frequenti e lunghi discorsi; un fascista, ma ex si qualcosa, napoletano, Luigi Lo Jacono, direttore di una rivista che si chiamava Economia Italiana, senza esibizioni fasciste, o perché discendeva dal passato o perché, inconsapevole, si era prenotata per il futuro. E l'elenco di persone, di ambienti, di momenti, di "momento", potrebbe continuare, riflettendo una fase del giornalismo economico italiano che invano si potrebbe cercare nelle biblioteche o nello stesso antiquariato bibliografico. Ed ancora in questa realtà c'erano gli editori, definiti dalle successive generazioni da leggenda. Sono passati innanzi ai miei occhi; con taluni di essi c'è stata pure una frequentazione, talvolta di lavoro. C'è stato Formiggini, fondatore della prima Italia che scrive, titolare di una biblioteca circolante, editore di libri celebrati e ricercati anche oggi. Il suo spot pubblicitario era il suo sorriso, personalmente espresso a chi poteva e desiderava rivolgersi a lui. Oggi è ricordato molto postumamente, perché con il suo suicidio ha espresso la sua reazione al razzismo.
E c'è stato anche Prezzolini, con la sua Voce, per me, ma sono sicuro anche per lui, inimitabile ed irripetibile. L'insegnamento infatti resta fin quando rifiuta la strumentalizzazione dell'insegna.
L'ultima volta che l'ho visto, a poco meno di un anno prima della morte, è stato in via Nassa di Lugano. Camminava baldanzoso con il suo bastone, ancora più baldanzoso di lui. Tante volte ne avevamo parlato con un mio carissimo amico, Oreste Mosca, giornalista nato ad Avellino e che Mussolini, alla vigilia della marcia su Roma, si proponeva di nominare Ministro della Marina Mercantile, solo perché era suo amico, ex commissario di bordo e collaboratore del suo giornale.
Mosca conservava e me le mostrava tutte le lettere e le cartoline di Prezzolini, fra cui una che lo sollecitava ad intervenire presso il nostro Istituto di previdenza per fargli avere la pensione, di cui aveva strettamente bisogno. E stiamo parlando già degli anni '70.
Ma Prezzolini mi piaceva, perché la prima critica era solito farla a se stesso. Ha infatti reagito sempre all'ambito in cui era. Perciò è stato, secondo me, sempre un permanente emigrante. Emigrante anche dopo la morte, quando ha trasferito i suoi beni culturali, chiamiamoli così, al Cantone Ticino, dove è vissuto fino alla morte, dopo il lungo tragitto negli Stati Uniti.
Ma certamente la leggenda di questi grandi ha investito altri nomi che hanno superato questo secolo, e ne costituiscono non solo testimonianza, ma anche insegnamento di continuità. C'è Arnoldo Mondadori, che ho frequentato quando mi appariva grande viaggiatore di se stesso, a Roma come altrove. Ed io mi vanto di averlo definito così. C'è Gianni Mazzocchi, che qualcuno dieci anni dopo di me ha ricordato anche per i grandi panettoni che regalava agli amici, ma che io rievoco perché ebbe a dirmi che sul suo tavolino da notte usava tenere un taccuino sul quale scriveva le idee che l'insonnia gli suggeriva e che l'indomani erano sul suo scadenzario. Egli ha avuto la gioia ed anche la sfortuna di essere un grande editore in anticipo. L'ho definito così altrove.
C'è Bompiani, un fuoriclasse, con la classe praticata e ricercata ovunque, anche negli uffici stampa romani, minori come poteva essere il mio, all'Artigianato. Sbirciava valori e capacità da editare anche in poche righe. Zavattini, ad esempio, ha esordito nell'interessamento di Bompiani con una frase rilevata in un manoscritto: "è vietato pensare alla morte durante l'orario di ufficio". E questo, come si vede, è semplicemente uno dei tantissimi divieti di cui è costellato l'intero corso della nostra vita.
E c'è ancora Garzanti, di cui tutto si ricorda, nella continuità, nel rinnovamento, nella surrogazione, ma del quale pochi ricordano l'Illustrazione Italiana, che già di Treves era il rotocalco degli acculturati d'inizio secolo ed una sorta di sillabario o sussidiario per i ragazzini che come me, quindici anni dopo che lo sfogliavano, non sapevano che non molti anni dopo avrebbero avuto a che fare con una macchina da scrivere.
E c'è stato infine anche un editore, uno stampatore, a Roma, ma nato nella provincia di Viterbo, che si è trovato ad essere pure "diciannovista" in quanto fascista dal 1919, solo perché credeva nei giovani, per i quali fondava periodici o dei quali stampava i libri, a suo rischio, come si dice oggi. lo l'ho conosciuto molti anni dopo, ma lui ha sempre pensato che io da studente frequentassi la sua tipografia di Piazza Navona.
Durante il primo fascismo ha inventato periodici, calendari, librerie, ma ad un certo momento il partito si sostituì a lui. Ed egli, estromesso addirittura a pugni dal protetto successore, valido nondimeno anch'egli (tant'è che questi ha creato grandi musei nazionali in Paesi dell'America Latina), ha dovuto ricominciare tutto da capo: durante l'ulteriore periodo del fascismo e subito dopo la liberazione. Gli è occorso anche di stampare un libro di articoli medici comparsi su Il Messaggero del padre della Petacci ed una serie di volumi sull'Impero (quello dell'Africa Orientale). Ed è allora che l'ho conosciuto, perché uno storico, proveniente dall'esercito, fu incaricato di predisporre questa nuova collana, ed a me nel '37 fu assegnato il compito di scrivere il libro dedicato all'economia. Ne ricevetti mille lire per la prima edizione e duecento lire per la seconda.
Il direttore di questa collana si chiamava Amedeo Tosti. L'editore era Giorgio Berlutti, che dieci anni dopo ebbi a deludere, perché rifiutai la direzione di un quotidiano economico romano, anzi del quotidiano economico romano, che aveva acquistato proprio perché era sicuro che lo avrei affiancato. Non l'ho fatto e mi pento per omissione di soccorso -chiamiamolo così - e dovrei compiacermi - ma non lo faccio - perché il giornale ebbe le consuete vicissitudini che lo condussero alla cessione (e non credo di sbagliare) ad un grosso istituto di assicurazioni.
Queste alcune schegge giornalistiche ed editoriali di tanti anni fa, molte delle quali addirittura scompaiono, pur importanti, con taluni di noi della carta stampata.

Anche le corporazioni nella storia di questo secolo
In questo susseguirsi disordinato di ricordi e di immagini, tre tratti emergono dalla mia memoria. E cioè la mia vita "categoriale", trascorsa per la maggior parte come giornalista nell'ambito delle organizzazioni prima dei lavoratori e poi dell'Artigianato; il 25 luglio ed i 45 giorni di Badoglio; l'attesa della Liberazione. Ci sono undici anni di mezzo, scanditi da climi di cose e di persone.
Il presidente della Confederazione dei Lavoratori del commercio, Riccardo Del Giudice, pugliese (di Lucera), laureato in filosofia, sindacalista, fascista (però con una cultura propria, in particolare di un certo tipo di meridionale, con una capacità autocritica e critica confluita in quella espressa da Bottai), è stato il mio primo datore di lavoro.
Per far parte dell'ufficio studi, che era stato aperto a qualche giovane laureato dotato di titoli che potessero suscitare attenzione, lo stipendio iniziale era di seicento lire mensili, che erano nette a quel tempo ed erano distanti dalle mille lire al mese, obiettivo delle speranze di quegli anni.
Mia moglie mi consigliò di accettare, perché quelle seicento lire completavano le sue e le mie entrate di collaboratore di giornali e di riviste, per racimolare più o meno senza sicurezza - e mio padre sempre mi ammoniva - le sospirate mille lire.
In questa sede, che venendo dopo le più rappresentative e prima solo dell'organizzazione dei lavoratori del credito e dell'assicurazione era la più povera, ho imparato molto di più di quanto abbia appreso in gran parte degli anni successivi. Allora non c'era ancora nemmeno il sabato fascista. C'era invece non la realtà, ma la promessa di un corporativismo, realmente e funzionalmente restato sempre sulla carta. Ed una Carta c'era stata, e l'aveva predisposta sette anni prima Bottai. Ci avevano detto, però, che bisognava conoscerla. Ed in particolare fu per me appunto Del Giudice, che forse l'aveva sul suo comodino da notte, ma che faceva capire a tutti, naturalmente me compreso, che bisognava applicarla, facendosi vivi, almeno in rappresentanza dei lavoratori. A rappresentare l'interesse generale, pure a livello corporativo poi, era il partito, ma alle organizzazioni dei lavoratori era attribuito un valore aggiuntivo.
Le Corporazioni hanno avuto una vita molto fragile. Non hanno mai rappresentato la base, che era solo il vertice a definire ed a determinare come gli piaceva, avevano la funzione di mediare e comporre, ma gran parte della gestione imprenditoriale con i suoi problemi era decisa in altra sede, mentre per quello che riguardava gli interessi dei lavoratori il riscontro che se ne aveva nelle Corporazioni si traduceva in una gestione diretta della lotta di classe da parte dello Stato per conto dei lavoratori.
Le Corporazioni però hanno sofferto pure di una continua sovrapposizione di enti, che ne ha il più delle volte provocato l'omissione. Comitati, Commissioni, ecc, sempre presiedute dal duce, si sono succeduti con questa o quella composizione: di autarchia, di guerra, ecc. Tant'è che molte Corporazioni - e a due di esse dai lavoratori del commercio per il Legno e delle Professioni e delle Arti per i fotografi sono stato designato come membro aggregato: consiglieri nazionali erano invece i deputati di oggi - non si sono mai riunite, a parte il loro periodo auguralmente iniziale.
In una di queste Corporazioni, appunto quella delle Professioni e delle Arti, mi è occorso di rappresentare, come in altre, il Presidente della mia Confederazione. La Corporazione aveva come presidente un designato del partito, ori. Ezio Maria Graj, ed aveva come elementi rappresentativi il Presidente della Confederazione delle professioni e delle Arti, Pavolini - quello dell'ultima raffica -, il segretario generale della stessa, Cornelio De Marzio, il Presidente dell'Artigianato Buronzo, ed altri. Ad un certo punto di una certa riunione il presidente iniziò la discussione, inserendola fra le varie, della situazione contrattuale dei dipendenti degli studi professionali, rappresentati dalla mia confederazione. Mi opposi ripetutamente a tale discussione, arbitrariamente compresa fra le varie e per la quale ero privo di elementi e di istruzioni.
Anche la mia doverosa vivacità ed insistenza non ebbero fortuna, mentre il rappresentante delle categoria preferiva il silenzio. La replica dei professionisti e di Pavolini se la prese con il preteso giovane insolente che ero io. Ma io alla fine conclusi che se si fosse proceduto alla votazione - e sarebbe stata la prima volta nella vita delle Corporazioni - io avrei votato contro. Tutto perciò si fermò.
Si volle evitare l'avvento di una nuova prassi ed una rottura che soprattutto la saggezza del direttore generale Anselmi riuscì a scongiurare.
Il mio Presidente solidarizzò con me, protestò con il ministro delle Corporazioni, Lantini, ma poi non fu insensibile all'invito fattogli dal presidente della Corporazione di non mandare più in Corporazione il ragazzaccio che ero io.
Il risultato fu una quarantena di una ventina di giorni, cui seguì la mia nomina anche a membro, sempre aggregato della Corporazione del Legno. Ma a questo periodo ed a questa Confederazione è legata anche un'altra figura. Parlo di Luciano Gottardi: un ragioniere ferrarese, sindacalista volitivo e disponibile, che in quei tempi si occupava dei lavoratori del commercio alimentare. Quando predisponevo le relazioni sui temi interessanti la nostra posizione nelle Corporazioni gli chiedevo suggerimenti. Li aveva per tutti i più diversi argomenti, rivelando frequentemente una competenza che non c'era, ma il desiderio di una presenza su tutto. Era un costume, diffuso pur oggi, ed in merito al quale permangono interrogativi ed attese, che addirittura hanno a che fare con le radici nuove e vecchie del sindacalismo.
Ma Gottardi ebbe, il 25 luglio, la sventura di essere Presidente della Confederazione dei lavoratori dell'Industria e come tale membro del Gran Consiglio. In tale veste domandò ignaro al proprio ministro, quello delle Corporazioni, Cianetti, come avrebbe dovuto regolarsi e questi gli disse che avrebbe dovuto firmare la nota mozione di sfiducia a Mussolini. Sennonché Cianetti durante la notte inviò una lettera di pentimento a Mussolini senza informarne le persone che aveva consigliato per competenza di carica, e perciò non fu fucilato a Verona. A Gottardi è occorso esattamente il contrario, con Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi. Gottardi mi riferì dopo il 25 luglio cosa era successo nella riunione del Gran Consiglio ed il primo foglio ciclostilato che ha clandestinamente circolato in Italia, che è dell'Agenzia Telegrafica Svizzera, contiene molte delle notizie riferitemi da Gottardi, e poi oggetto di una amichevole conversazione con un mio condominio di via Archimede, che altro non era se non il ticinese Scanziani, corrispondente romano di detta Agenzia. Due profili, tanti intrecci, che hanno a che fare comunque con una storia che esiste, anche se i tasti minori non rispondono sempre con un suono.
Nei miei anni ai Lavoratori del Commercio - 1935-aprile 1938 - c'è stata pure la "fondazione dell'Impero". Si tratta di un periodo ormai più che approfondito. Ogni aggiunta personale non reca nulla di nuovo. Qualcuno ha tentato una ennesima ricostruzione, utilitaristica per la propria gestione amministrativa e non già per la conoscenza. Ed in questa specifica ricostruzione il clima ha avuto due protagonisti: un combattente giornalista - ed ormai la nostra categoria se n'è dato uno, questo, da pronto soccorso e un direttore, morto da tempo, di una rivista: per la precisione e in questo caso Le Grandi Firme.
Tristi evocazioni da museo delle cere, e di un passato che adesso è molto meglio ricercare fra le lapidi.
Comunque il mio attivismo coloniale proprio allora ebbe fine, perché fra i tanti sopravvenuti non c'era bisogno del diciassettenne che aveva promosso da matricola il primo gruppo coloniale universitario ed aveva organizzato il primo viaggio in Tripolitania a quota 400 lire, pure da lui ovviamente pagata.
L'occasione fu la concessione a chi vi parla della Commenda della Stella d'Italia: fatto e titolo che mi hanno fatto piacere nel '37 e titolo che invece non mi piace se qualche sconsiderato lo usa ancora oggi nei miei confronti. Quale fastidioso arcaismo!

I tanti Mussolini
Nei cinque anni che vanno dal 1938 al 1943, quelli miei all'Artigianato, al Palazzo delle Assicurazioni a Piazza Venezia, col frontale sotto i merli, le semplificazioni e gli alleggerimenti della memoria mi propongono queste figure.
Naturalmente Mussolini, mio dirimpettaio, che durante la seconda guerra si nascondeva dietro le tendine azzurre (per oscuramento) per guardare verso la piazza; per scrutare comportamento e vestiario del vigile urbano che regolava il traffico: per accertarsi che gli agenti della guardia presidenziale con la loro uniforme (?) di allora, agenti segreti, che era quella di un impermeabile, fossero al loro posto: per verificare il passo romano della guardia che veniva a dare prima della sera il cambio, presente sempre il segretario del partito urgentemente sopravvenuto.
Questo cambio della guardia! Quanti ce ne sono stati e ce ne sono. Mettono però sempre tanta malinconia. Anche il più bello di tutti - ed io l'ho visto quindici anni prima che il muro di Berlino crollasse, - e parlo di quello di Mosca -ha avuto a che fare più con la scenografia teatrale che non con una spettacolarità rigidamente e pure modestamente essenziale. I cambi della guardia, infatti, non sono riusciti a togliersi di dosso il troppo decorativo che in larga misura li stordisce e secondo quanti ritengono che se ne possa fare a meno li imbarbarisce. Facciamone, infatti, un confronto fra i Paesi e popoli di ogni mondo: primo, secondo, terzo e così via.
Di questo Mussolini mio dirimpettaio - e non sia immodestia la mia il definirlo così, perché anche i portieri, tutti miei amici, si trovano ad avere dirimpettai ed in più interlocutori illustri - ricordo tre occasioni di personale avvicinamento, e non dico di visita.
La prima occasione è stata nel 1931 ed il direttore de Il Giornale di Genova, Giorgio Pini, mi disse semplicemente, sempre con il sorriso di cui prima ho detto, "vuoi venire con me? Mussolini riceve i giornalisti". Ed io andai, in mezzo a tanti altri, che Mussolini si compiaceva di riconoscere faccia per faccia. Ma in questo riconoscimento non c'era certo la mia faccia, però con gli occhi che vedevano e con le orecchie che ascoltavano. E questi occhi vedevano un Mussolini con il look del 1931: vestito di seta bianca, volto aggraziato e non truce - la fotografa inglese Ghitta Garrell, cioè la fotografa dell'aristocrazia del tempo e di quanti ad essa con l'immagine riusciva ad elevare, aveva lasciato qualche convincente traccia nel Mussolini d'allora, con il carattere però, come si sa, sempre mutevole.
E quanto alle orecchie, esse hanno ascoltato un timbro di voce che è stato e rimane per me naturalmente molto più gradevole di quello ascoltato sulle piazze o esibito con le mimiche che sono sempre comiche, non quando le vede, ma quando se le vede riproposte.
Mussolini certamente si è sempre studiato - a quei tempi non c'erano i tecnici che lo facevano per conto dei loro clienti - ma ha capito che in questo campo più che la tecnica degli altri vale la personale intelligenza. Secondo me, si è studiato e fatto da solo, con gli alibi fornitigli dall'educazione fin dove è arrivata: più che altro è stato un autodidatta, con una madre però esemplarmente maestra elementare con un padre tuttavia che non aveva assolutamente nulla da insegnare e che solo per necessità di copione avrebbe potuto essere chiamato in causa, come fabro, mi sembra di Dovia, come poi si è verificato. Ed io ne so qualcosa, perché come direttore dell'Istituto Coloniale e Mediterraneo dell'Artigianato ebbi a suggerire al Presidente dell'Artigianato, di cui dirò poi, Gazzotti, di proporre che ad un Istituto per l'addestramento degli artigiani del Mediterraneo fosse apposto il nome di Alessandro Mussolini, il fabbro, che c'è stato o non c'è stato, perché secondo alcuni c'è stato solo il marito della maestra Rosa Maltoni, il titolare o il cliente eccessivamente assiduo di un'osteria, il forsennato politicante. Non è nella mia indole quella di tentare la ricerca o l'ossequio per l'una o l'altra identità. Limitiamoci a dire che tante indubbiamente sono state le radici, che però - a parte le interpretazioni interessate - valgono meno di quanto si creda ed è.
Mussolini, riguardo al comunicato ufficiale concernente il padre, ed io l'avevo predisposto, disse no alla sua presentazione, ma l'indomani lo fece pubblicare.
Accanto a questo Mussolini, che sostanzialmente nel ricorso giovanile mi piacque, vi sono altri due Mussolini; quello del 1939 e quello dei primi mesi del 1943.
Un decennio o poco meno ha per tutti una grande, assoluta importanza. Ci porta a rilevare che la realtà della vita - qualcuno ha definito, questa realtà come un sogno, perché la realtà vera è quella che troveremo nell'aldilà: pensiamoci - non muta solo i fatti, ma deve per lo meno sintonizzare il pensiero.
E così, allorché ci presentammo dal duce con il nuovo Presidente dell'Artigianato che si chiamava Gazzotti, ex federale di Torino (di una Torino dove per Mussolini che la credeva solo sabauda fu organizzata dallo stesso Gazzotti al Lingotto una "manifestazione oceanica" con tanto di Giovanni Agnelli, senior però, con divisa fascista e saluto romano predisposto), Mussolini ricevendoci fece tanti di quegli sperticati elogi del nuovo Presidente che a me provocarono dubbi sulle incerte capacità di giudizio del capo: fra istrione e pessimo conoscitore di uomini. Eppure, io sono stato amico sincero di Gazzotti non quando era in auge, ma molto oltre le sue disgrazie politiche. E di ciò fra l'altro mi vanto e solo nella mia coscienza. E c'è il terzo Mussolini, quello che ho visto con una delegazione italo-germanica nel 1943.
Eravamo in sei: due capi dell'Artigianato germanico, che nella loro vita con 5 milioni di artigiani rappresentati non erano mai riusciti ad essere ricevuti da Hitler e che dissero che attraversando piazza Venezia per andare dal duce, con tanta semplicità, avevano l'impressione di recarsi dal borgomastro del loro paese. Ed inoltre quattro italiani: il presidente, il suo segretario, il capo multilingue delle relazioni italo-germaniche ed il sottoscritto. Mussolini mi apparve in quell'occasione notevolmente sgualcito. Lo era certamente nel vestiario.
Il suo sguardo si risvegliò invece dai suoi pensieri o dall'immagine che si era imposta - e certo che allora non c'era la tecnica invadente sopravvenuta - quando gli fu sottoposta una scatola di cartone, dalla quale emerse - per averne l'incoraggiamento autarchico - un paio di scarpe di tela, con una suola fatta di tanti pezzi di legno snodabili ma congiunti da pezzi di fune ed ai quali erano sovrapposti tanti bulloni ricavati da esauste gomme di auto.
Mussolini, che anni prima aveva dato direttive perché fosse razionalizzata ed estesa la produzione di mele da mezzo chilo ciascuna, come erano quelle che taluni agricoltori gli avevano presentato, volle veder e sapere tutto di quelle scarpe, delle quali non gliene importava nulla.
Solo, come giornalista, ma non lo era più per lo meno a quei livelli, forse avrebbe potuto avere qualche soprassalto, che invece non ci fu, anche perché quel regime ha avuto un suo burocratismo, che ha il suo passato, ha avuto a che fare con l'equilibrismo fra burocrazia e fascismo, ed oggi continua a camminare, perché indifferente rispetto al verbalismo fra l'altro - ed è un esempio - circa la prima e seconda Repubblica.
Ma di questo Mussolini ricordo tre cose, con le quali si completa questo mio tentativo di ritratto. La prima è che ad un certo momento dell'incontro egli si interessò in particolar modo di uno dei presenti: il direttore di origine ungherese, ma italiano, dei rapporti italo-germanici, e si chiamava Henghen. Mussolini si incrociò con lui in un dialogo tendenzialmente polilingue, e non so con quanto successo per Mussolini, che è sempre stato ambizioso in questo campo, tuttavia con lo storico sospetto di non capire e farsi capire dallo stesso Hitler.
La seconda cosa riguarda la superficiale attenzione rivoltami con l'ordine di chiamare il fotografo. Lo chiamai, fece una fotografia, questa fu riprodotta nelle prime pagine dei giornali del giorno dopo. A me fruttò due cose: rappresentando l'unico ordine che abbia ricevuto durante il Ventennio, perché per il resto, come giornalista, ho fatto solo e dico solo quello che ritenevo di fare; consentendo ad un handicappato edicolante, perché gobbo, di biasimarmi e denunciarmi, dopo il 25 luglio, come fascista, ed era proprio lui che fra l'altro non si era rifiutato di vendere giornali.
Questi cercherà certamente di giustificarsi con il fatto che era handicappato ed aveva famiglia, io mi sono rifugiato, pur con i rischi che si coprono, dietro la coscienza, nella quale le convinzioni non hanno certo una parte che non sia primaria. E perciò mi sono giovato di una doverosa impassibilità, normale per me in questi casi.

Da Badoglio in poi
Ma qui c'è il seguito di questo periodo, di cui prima abbiamo detto. C'è il 25 luglio, c'è Badoglio, con i suoi 45 giorni, con il governo dei tecnici, dei "revenants", come avrebbe detto Vittorio Emanuele III, con il governo di Brindisi che aveva bisogno di un "cerca persone" che non c'era, ma che sarebbe servito per trovare un socialista, un tanto lontano e sopravvissuto socialista per farne un ministro dell'Interno. C'è la Resistenza, della quale so poco, perché ero a Roma. C'è la Liberazione, della quale so di più, perché a tante qualifiche, più o meno pretese, antepongo quella di essere stato ed essere solo cittadino romano: con quanto mi è mancato e con quanto ho dovuto dare. Forse i cittadini, ed in ogni tempo, si sono capiti, almeno fra loro, solo così.
Ma di ciò i ricordi di ognuno di noi pretendono che si parli di più. Ed io certamente per la parte mia cercherò di farlo, partendo da quello che vi ho preannunciato, ma non vi ho ancora detto, precisando però con una memoria che vi dà quello che ha e che per me è quasi tutto. Quale ambizione!


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