§ CONTRO LE POVERTA' MONDIALI

FAME PER 1,3 MILIARDI




Fulvio Ravel



Alla vigilia del vertice di Copenaghen sullo sviluppo sociale, l'economista e filosofo indiano Amartya Seri ricordava ancora una volta che povertà economica non vuol dire necessariamente emarginazione ed esclusione, e che l'azione pubblica può essere decisiva sul benessere delle popolazioni dei Paesi poveri del mondo. Lo diceva a Firenze, nel corso di un convegno sulla demografia e la povertà, e in una cornice suggestiva: l'Ospedale degli Innocenti, che fin dal '400 ha raccolto l'infanzia abbandonata, estrema vittima della miseria.
Chi si affida alle raccolte di dati sulla povertà non può che lasciarsi andare allo sconforto: secondo gli istituti mondiali specializzati, circa un miliardo e 300 milioni di abitanti del pianeta sono in povertà assoluta. Questa cifra combina le varie dimensioni della piaga: un miliardo non ha accesso a servizi sanitari, un miliardo e 300 milioni è senza elementare approvvigionamento idrico, un miliardo e 900 milioni vive in ambienti senza fognature, quasi un miliardo di adulti sono analfabeti, diverse centinaia di milioni di bambini sono malnutriti. Una triste litania diventata purtroppo familiare. Mai forse un vertice bene intenzionato come quello danese è caduto nel momento meno opportuno: mezzo mondo coinvolto in una crisi finanziaria gigantesca; i Paesi ricchi che restringono i benefici dello stato sociale all'interno e sono sempre più riluttanti a spendere all'esterno;
un intero continente (l'America Latina) emerso da poco dalla "decada perdida" degli anni Ottanta che rischia di ricadervi; un altro continente, la Cina, dove lo scongelamento delle istituzioni economiche e sociali alimentato dallo sviluppo dà voce e visibilità a piaghe lungamente nascoste. Del resto, anche qualora il modesto 0,7 per cento del Pil fosse effettivamente trasferito dai Paesi ricchi a quelli poveri, come raccomandato da vari decenni da numerosi accordi e proclami internazionali, l'impatto su questi ultimi sarebbe assai modesto di fronte all'enormità delle necessità.
Queste premesse potrebbero indurre al più nero pessimismo. Eppure, anche questo sarebbe malposto perché, a ben vedere, il mondo povero ha fatto nel recente passato progressi notevoli in due campi fondamentali per lo sviluppo; quello della salute e quello della conoscenza. Per esempio, l'alfabetizzazione della popolazione è cresciuta notevolmente: attorno al 1970 si valuta il tasso di alfabetizzazione degli adulti nei Paesi in via di sviluppo al 40 per cento circa; all'inizio degli anni Novanta questa percentuale ha superato il 71 per cento (nel continente più arretrato, l'Africa subsahariana, è salito da meno del 30 per cento al 47 per cento). Un confronto ci aiuterà a ristabilire le prospettive: nel 1871 l'Italia aveva un tasso di alfabetizzazione (popolazione di oltre 6 anni) pari al 31 per cento e solo dopo la prima guerra mondiale si arriva ai livelli oggi prevalenti nei Paesi poveri.
Anche nel campo della salute i progressi dei Paesi poveri sono stati notevolissimi. Un indicatore è costituito dalla durata della vita (speranza di vita): dall'inizio degli anni Cinquanta all'inizio degli anni Novanta questa è aumentata nei Paesi in via di sviluppo da 41 a 62 anni (valori che la popolazione italiana aveva toccato rispettivamente nell'ultimo decennio del secolo scorso e nel secondo dopoguerra). L'aumento della speranza di vita (circa 7 mesi in più per ogni anno di calendario) potrebbe anche preludere alla più degradante delle povertà (una vita più lunga in pessima salute), ma così non è stato, perché altri indicatori ci informano che altre dimensioni della salute presentano notevoli miglioramenti.
Le risorse economiche non sempre comprano la salute. Amartya Seri ha sottolineato il fatto che gli indiani dello Stato meridionale del Kerala -con un reddito procapite annuo di poche centinaia di dollari - vivono in media più a lungo della popolazione nera di Harlem, che la speranza di vita della Russia è scesa al di sotto di quella di molti Paesi in via di sviluppo e che - tra di questi - alcuni con risorse molto modeste hanno fatto - nel campo dell'istruzione e della salute - assai meglio di altri con risorse abbondanti; i cinesi hanno una vita più lunga dei sauditi, tanto per fare un esempio. Com'è possibile che alcuni Paesi poverissimi di risorse siano riusciti nel campo dell'istruzione e della salute assai meglio di Paesi con risorse assai maggiori? In queste storie di successo - che includono Paesi assai disparati come la Cina e Sri Lanka, Cuba e Costa Rica -non basta riferirsi agli effetti genericamente favorevoli di fattori sociali o culturali propri di questo o quel Paese. La chiave di lettura sta spesso nella mobilitazione oculata e saggia delle risorse appropriate per sviluppare l'istruzione e proteggere la salute, alla portata anche di Paesi molto poveri di materie e risorse, ma ricchi di potenzialità umane. E infatti istruzione e salute sono campi di attività a forte intensità di lavoro, una risorsa relativamente economica e abbondante in gran parte dei Paesi in via di sviluppo.
Elemento essenziale e prioritario dello sviluppo è la sopravvivenza in buona salute. E' un requisito essenziale per quasi tutti i fenomeni legati allo sviluppo: per acquisire efficienza fisica, per raggiungere capacità intellettuali e manuali, per estendere l'orizzonte di vita dei singoli e rafforzare le capacità di fare programmi per il futuro. E' anche un requisito essenziale per mutare la "domanda" di figli, ancora troppo elevata nei Paesi poveri, e per diffondere il controllo delle nascite. La buona sopravvivenza minimizza, infine, eventi associati con la povertà e l'esclusione come il diventare orfani o vedovi, o essere disabili. Tutto questo non basta ad assicurare un adeguato sviluppo, ma ne è una imprescindibile condizione, raggiungibile da gran parte dei Paesi poveri con le loro sole forze. Diversamente, si verificheranno fenomeni di ritorno - come la nuova diffusione di epidemie di colera o il reingresso in vari Paesi della tbc - che minacciano anche i confini di Paesi in cui tutto questo è solo memoria del passato, e sia pure di un passato recente.


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