§ OSSERVATORIO OCCUPAZIONE

BABELE DEI NUMERI




Enzo de Francovich



La produzione fila, l'occupazione crolla. La lettura comparata degli indici Istat sull'attività e i posti di lavoro nelle grandi imprese del settore industriale dipinge una realtà virtuale schizofrenica. E costringe, per evitare di prendere abbagli, gli utenti a una lettura certosina e da iniziati dei comunicati stampa e dei numeri sfornati dall'Istituto.
Sia chiaro: le cifre sono corrette. Ma un'aderenza forse eccessiva agli aspetti formali e legali, da ufficio anagrafico più che da istituto statistico, non fa emergere immediatamente l'evoluzione della situazione economica; anzi, può ingannare.
Sotto accusa è la rilevazione sul lavoro nelle grandi imprese (ossia con più di 500 addetti). Per l'industria, nelle tabelle si legge che l'occupazione è scesa del 5,9 per cento, le ore lavorate sono salite del 9,9 per cento, le ore Cig sono precipitate del 64,8 per cento, i guadagni lordi per dipendente sono saliti del 9,5 per cento, e il costo del lavoro è balzato del 19,9 per cento.
Ma non è in corso una forte ripresa produttiva che ha spinto già alcune grandi aziende a fare annunci di imminenti e ampie assunzioni? E poi, l'aumento delle ore lavorate è un succedaneo dell'ampliamento della manodopera occupata, ma mal si concilia con un suo restringimento. Mentre il balzo dei guadagni e del costo del lavoro sembra suggerire che è già crollata la diga all'inflazione eretta con l'accordo sul costo del lavoro.
Alcuni di questi dubbi vengono sciolti nelle stesse comunicazioni dell'Istat, sebbene con qualche barocchismo lessicale ("misure tabellari", "compensi continuativi"). Le buste paga sono state gonfiate dal pagamento a gennaio di arretrati, senza i quali avrebbero avuto un aumento annuo del 5,5% (comunque reso più ampio dal rientro a paga piena dei cassintegrati, oltre che dai maggiori straordinari).
Il costo del lavoro include le liquidazioni dei dipendenti che hanno lasciato l'azienda; liquidazioni che non sono un aggravio permanente dei costi e i cui oneri in bilancio erano già stati assorbiti, perciò rappresentano solo un aumento delle uscite di cassa.
La prima domanda rivolta all'Istat, quindi, è perché non si diffondono i dati già depurati da queste componenti, anziché costringere ogni volta a leggere spiegazioni arzigogolate e persino criptiche, con il rischio che si prendano abbagli. E non sarebbe la prima volta, è già accaduto in altre circostanze, in passato.
Su un altro punto cruciale, quello dell'occupazione, lungi dal dissipare le nebbie, l'Istat perpetua l'errore in cui fanno cadere i numeri. Si legge infatti che "il calo tendenziale è pari al 5,9% a conferma del perdurare di una situazione negativa protrattasi per l'intero 1994". In realtà, l'Istat considera formalmente occupati i lavoratori in Cig, anche se a zero-ore. Legalmente ineccepibile, ma economicamente fuorviante.
Perché, come dimostra una analisi del Centro Studi Confindustria, al netto della Cassa integrazione guadagni il profilo dell'occupazione nelle grandi imprese industriali muta drasticamente nell'ultimo anno, anziché declinare resta sostanzialmente piatto.
Allora, perché cala l'occupazione, secondo l'Istat? Perché una parte dei cassintegrati non rientra in azienda e finisce in mobilità: cioè si interrompe il rapporto di lavoro e quindi l'Istat li toglie via. Ma quelli che rientrano in fabbrica ipercompensano questa espulsione "ufficiale", cosicché la situazione occupazionale effettiva rimane invariata e semmai tende al miglioramento. Ed è quest'ultima tendenza che conta per le analisi del mercato del lavoro e per la valutazione della congiuntura.
Negli ultimi anni l'Istat ha fatto enormi progressi nelle elaborazioni e nella diffusione di molti indicatori. Un piccolo sforzo potrebbe far diventare molto più interessante e significativa, perché di immediata e facile lettura, anche la rilevazione nelle grandi imprese.
Dalla macro alla micro-impresa. La piccola impresa italiana deve recuperare al più presto il "gap" che la separa dal resto dell'Europa. I nodi da affrontare: dalla competitività al costo del denaro passando dalla mancanza di flessibilità nel mercato del lavoro. Per il presidente di una Piccola Industria sempre più forte e rappresentativa, sembra non ci siano dubbi: "In assenza di interventi strutturali urgenti la componente più dinamica del mondo produttivo italiano, una volta esauritasi la spinta oggi assicurata dalla svalutazione, rischia di essere travolta dai costi che non colpiscono i concorrenti dell'Unione europea. Se finora il sistema italiano è riuscito a reggere, è perché i piccoli imprenditori hanno fatto fino in fondo la loro parte. Senza questi ostacoli, oggi ci saremmo senz'altro trovati al posto dei giapponesi ... ".
I difficili rapporti con le pubbliche amministrazioni, la carenza dell'infrastruttura o le questioni ambientali sono solo alcuni dei problemi più noti che penalizzano le imprese italiane. Ma l'attenzione va puntata su altri due aspetti che a tutti gli effetti possono essere considerati centrali: la qualità e i sistemi di finanziamento.
Tutte le complesse questioni legate alla qualità vanno gestite in modo diverso, riconoscono i responsabili della piccola impresa. Nel senso che si deve ottenere una qualità vera, reale, senza avviare (come si sta facendo) un lucroso mercato delle certificazioni o porre una sorta di tassa aggiuntiva sulle imprese. Nel resto dell'Europa si fanno i controlli ogni 12 oppure ogni 18 mesi. Non si capisce in Italia li si debba fare ogni 6, una volta acquisita la necessaria certificazione.
I problemi della qualità e del finanziamento delle imprese possono essere risolti puntando con decisione (ma occorre che Parlamento e Consob si muovano con tempi celeri) su nuove formule, come il mercato telematico (per facilitare l'accesso a capitali di rischio) e la detassazione degli utili reinvestiti. Un provvedimento, quest'ultimo, per ora introdotto solo per un biennio, tanto che i produttori di macchine utensili temono che l'attuale concentrazione di ordini possa essere solo momentaneo, favorendo anche i concorrenti esteri.
Questi strumenti devono essere strettamente collegati fra di loro, per aumentare i rispettivi vantaggi. E a proposito dei ritardi con cui si muove l'Italia, va ricordato come una quarantina di medie aziende italiane di recente sono state quotate al telematico francese, mentre nel nostro Paese non è stato deciso ancora nulla.
Altro problema, le imprese nel Sud. In un intelligente commento a proposito degli eccessivi handicap che penalizzano le regioni meridionali, Nino Milazzo invitata a riflettere sul "costo" dell'essere meridionali in termini di carenza, ad esempio, di strutture sanitarie adeguate, di istituzioni culturali finalizzate all'alta formazione e ancora, per un imprenditore, di maggiori spese di trasporto qualora il suo mercato di riferimento non fosse esclusivamente quello locale.
Può essere opportuno raccoglierne lo spunto d'analisi e fare i conti in tasca, per così dire, a un normale operatore economico meridionale, provando a calcolare, approssimativamente, i differenziali dei suoi costi di produzione, oltre quelli, intuitivi, legati alla perifericità d'insediamento, dovuti all'operare in una regione del Mezzogiorno.
Il nostro imprenditore pagherà intanto il credito con una maggiorazione di due, forse anche tre punti rispetto al suo collega lombardo o veneto, anche se, ovviamente, sul tema non andrà giudicato esente da sue specifiche colpe: rischio per la banca finanziatrice approssimazione delle preventive ricerche di mercato, utilizzazione di strumenti di credito non ottimali, la cronica sottocapitalizzazione dell'impresa. Altra maggiorazione di costo (un punto simbolico?), per l'agire in un contesto caratterizzato dalla presenza della criminalità organizzata e di quella fisiologica, che identificano ambiente e clima socio-economico di alcune aree meridionali, comportando per banche e imprese rischi reali. Infine, rapporti con la burocrazia (quanti punti?), mai come oggi attestata su una linea di rigido formalismo e animata dalla deleteria "cultura del sospetto".
Uno sguardo ai differenziali di costo tradizionali: la più bassa produttività del lavoro (fino a un meno 30 per cento), l'essere distanti dalle sedi decisionali elettive (recarsi a Milano da Palermo o da Lecce costa assai più che andare da Roma in qualunque capitale europea), il non poter ricorrere a reti locali di manutenzione degli impianti, il dover fronteggiare "normali" disfunzioni di servizio come le "normali" microinterruzioni di energia elettrica (che, come è ben noto, fanno impazzire le macchine programmate in automatico).
Altri costi meno evidenti a uno sguardo superficiale: quelli derivanti dalle strategie pubblicitarie necessarie a recuperare un deterioramento dell'immagine (per un bene prodotto in Sicilia o in Salento) e delle relazioni di fiducia; e poi dal ricorso alla giustizia civile, i cui tempi di decisione sono assai più dilatati che nel resto del Paese per uno squilibrio probabilmente di organici indotto dall'assoluta urgenza di contrastare l'emergenza mafiosa.
Concludendo. Questa brevissima e forse fin troppo abborracciata rassegna sembra indicare, ma sulla materia sarebbero auspicabili ricerche assai più rigorose, un sovracosto di produzione per un imprenditore siciliano o reggino o salentino di gran lunga più elevato di quel 10 per cento in genere ricordato nella letteratura ricorrente.


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