§ OSSERVATORIO OCCUPAZIONE

LAVORO PIU' LIBERO




Felice Mortillaro



Nella storia del giornalismo è notissimo il caso del "mostro" del lago di Loch Ness di cui un giornale scozzese a corto di informazioni pubblicò nell'estate di molti anni fa la notizia della comparsa in quelle acque. Era certo che tutto era un parto della fantasia e della penuria di novità, eppure i visitatori cominciarono ad affollare la località, alcuni affermarono di averlo visto e lo descrissero come un animale preistorico dal collo lungo e dalla testa piccola; e cominciarono a circolare fotografie più o meno truccate, finché non essendosi spenta neppure ai nostri giorni l'eco di quel lontano scoop, fu organizzata la spedizione di un piccolo sommergibile che doveva esplorare le torbide profondità del lago per svelare il mistero. Che tuttora permane, perché la notizia originaria era falsa.
Lo stesso ragionamento si può seguire per le ricorrenti proposte di riduzione d'orario per contenere la disoccupazione strutturale. Senza voler attribuire loro ascendenti troppo antichi - la polemica Agnelli-Einaudi nei primi anni Trenta, ad esempio, con Agnelli a favore della riduzione - esse sono figlie legittime del "lavorare meno per lavorare tutti" lanciato da Carniti nel 1976 più per provocazione che per convinzione di poter avviare il circolo virtuoso della "creazione" di posti di lavoro, ripreso negli anni successivi dai gruppuscoli di estrema sinistra, con qualche sconfinamento nell'estrema destra, sempre come slogan murale, piuttosto che quale ipotesi di reale politica economica. Ci fu soltanto un economista, Paolo Leon, che cercò di passare dallo slogan a un modello suscettibile di sviluppi, ma la ripresa dell'occupazione degli anni Ottanta tolse interesse all'argomento.
Ora la questione è stata riproposta da interviste incrociate, in forma sicuramente meno rozza rispetto alle ipotesi primitive, che si traducevano in riduzioni d'orario a parità di salario e in contratti di solidarietà finanziati dallo Stato, perché si immaginano meccanismi incentrati su contratti di lavoro atipici di durata variabile nel tempo, per cui il lavoratore perderebbe la stabilità relativa che finora ha caratterizzato il contratto di prestazione subordinato a beneficio del suo ingresso nel mercato del lavoro legale da cui, a situazione invariata, potrebbe rimanere escluso perfino vita natural durante.
Che nel nostro Paese la disoccupazione cominci a pesare troppo sulla struttura economico-sociale nazionale è ormai sotto gli occhi di tutti. L'indagine del Cerp di Londra ci assegna un +1% fra posti creati e posti perduti nel periodo '84-'92 (mentre il Regno Unito in piena cura Thatcher ha raggiunto quasi il 4%), con il 58% di disoccupati di lungo periodo sul totale dei senza lavoro nel 1993.
E' molto probabile che oggi i suddetti dati siano peggiorati. E' altrettanto certo che la nostra disoccupazione strutturale è influenzata da altre due variabili: la prima è geografica, perché si concentra in alcune aree del Paese-Mezzogiorno e, in particolare, Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna e nelle zone che hanno subìto una violenta deindustrializzazione, come la Liguria, il Friuli-Venezia Giulia - non rilevandosi né negli uni, né negli altri dei territori suddetti, segni d'inversione di tendenza. La seconda è per età e per sesso, e si intreccia naturalmente con quella geografica, per cui il più alto tasso di disoccupazione si ritrova fra soggetti giovani, di sesso femminile, residenti nel Mezzogiorno, muniti di una cultura di norma a orientamento genericamente umanistico che li porta ad accettare lunghissime attese di prima occupazione, pur di soddisfare l'aspettativa di una posizione di lavoro che dovrebbe possedere caratteristiche spesso agli antipodi con la natura stessa dei contratti atipici citati poco sopra, e cioè stabilità, sicurezza, progressione di carriera, protezione sindacale, e via dicendo. Così si spiega l'affluenza ai concorsi banditi dalla Pubblica Amministrazione, la sperequazione fra numero di candidati - enorme - e posti in palio - pochi - e questo per tutti i tipi di concorsi, da quelli "difficili", come la magistratura, a quelli "facili", come la Polizia o i Carabinieri, con il fenomeno di candidati che tentano gli uni e gli altri indifferentemente, con l'altrettanto preoccupante fenomeno dei concorsi "inferiori" invasi da concorrenti con titoli di studio superiore.
Non è difficile comprendere come l'economia reale chieda, secondo le migliori tradizioni, rapporti di lavoro su misura, il che non significa necessariamente precari, mentre le nuove leve chiedono posti fissi e garantiti al pari dei loro predecessori, fatte salve piccole categorie di lavoratori professionali, più autonomi che subordinati, che traggono dalla rarità del loro mestiere la forza contrattuale per non temere la dura legge del mercato. Nel contempo non si può neppure passare sotto silenzio che molti lavori pesanti ritenuti di basso apprezzamento sociale sono rifiutati e lasciati agli immigrati, trovandosi così la conferma che le risorse familiari sono in grado di sostenere le attese dei disoccupati.
I sindacati - la Cgil in particolare - sono nella scomoda posizione dell'asino di Buridano, perché si rendono conto che milioni di persone premono ai cancelli dei luoghi di lavoro, i quali sarebbero pronti in molti casi ad aprirsi qualora ci fosse la ragionevole certezza che potrebbero dischiudersi in senso opposto qualora la congiuntura economica si invertisse o anche, più semplicemente, ci fosse l'urgenza di sostituire quei lavoratori con altri dalle diverse caratteristiche professionali. La vicenda tutto sommato secondaria del lavoro temporaneo che è applicato in Europa da decenni e che in Italia non riesce a trovare una disciplina che porterebbe occupazione ad almeno 50 mila persone la dice lunga sulle contraddizioni della nostra politica del lavoro, che in questo come in altri casi vorrebbe "mangiare la torta e serbarla per il giorno dopo", e cioè vorrebbe il lavoro temporaneo con le stesse garanzie di quello fisso.
Ma il contrasto non è insanabile, solo che la questione non venga affrontata con gli stessi criteri e le stesse persone che hanno costruito negli anni Settanta la gabbia che ancora imprigiona il mercato del lavoro italiano.
Basterebbe forse una liberalizzazione sperimentale, limitata ai nuovi assunti, come fu tentato, positivamente, con i contratti a finalità formative nel 1983. Si lascino da parte le costruzioni immaginarie tese a cercare una impossibile perfezione garantistica e si ripristini per questi contratti e per un periodo limitato di tempo, due o tre anni, la facoltà di licenziamento con preavviso già prevista dal Codice Civile. E poi si veda che cosa accade: e cioè se le aziende riprendono ad assumere, come dicono Abete e Riello; se, il che non è escluso, ci sarà ancora domanda di lavoro superiore all'offerta; se il fascino del posto fisso, meglio se statale, continuerà ad averla vinta su tutto il resto. Dopo di che, non ci saranno più alibi per nessuno, sindacati e imprenditori, governi e partiti.


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