a)
Il paradosso dell'invarianza
Elemento centrale
della narrativa macriana è il doppiaggio attraverso il quale
il narratore si duplica nel suo sosia (Simeone), responsabile, quest'ultimo,
di una visione straniata delle cose, pot-pourri di anacronìe
e discronìe, di recuperi memoriali e "confusioni"
fra realtà e immaginazione, fra verità e menzogna, donde
il carattere surreale oltreché ironico, satirico, filosofico,
fantastico della sua scrittura.
In questo codice che sembra omologare su di un unico piano orizzontale
ludo letterario ed esperienza esistenziale, in realtà il falso
e il vero rappresentano due zone epistemologiche separate, ossia due
livelli di realtà fra loro complementari e reciproci. Si fissa,
insomma, un punto trigonometrico dal quale la prospettiva risulta
deformata eppure, paradossalmente, reale. Poligona e, insieme, unitaria.
Nascono, così, più piani affabulativi, dinamicamente
contrapposti o intercambiabili senza che risulti alterato il messaggio
ideologico talvolta affidato ad abrupti rimandi extratestuali, quasi
a chiamare in gioco l'autorità di questo o quel filosofo, storico,
sociologo che sia, all'ombra del quale Simeone protegge il bizzarro,
eccentrico, inusuale discorso sulle cose, ossia quell'insieme di paradossi
cui è deputata una funzione straniante. Discorso sulle cose,
dunque, ma, più propriamente, discorso sulla vita. In questa
Lebensphilosophie si esercita, ora dispiegandosi nel gioco letterario,
ora querelandosi sotto la specie dell'ironia, ora tingendosi di paradossale
umorismo, il giudizio dello scrittore, non latente una costante biografica:
la solitudine o l'esilio. Da qui quel suo intermittente rifugiarsi
sul pianeta Marte, osservatorio 'calviniano', ma già swiftiano,
dal quale il "discorso" sul mondo sembra giungere epurato
da ogni coinvolgimento sentimentale. Funzionali a questo carattere
di , presenza distante, in cui si copulano dolore e ironia, reale
e fiabesco, registri linguistici illustri e vernacolari, sono le due
prose che presentiamo: Sulla compassione e Intorno alla gratitudine.
Brevi come un apologo, ne hanno anche il tono, fermo restando lo specifico
orizzonte del fictional world macriano.
La disciplina fantastica, infatti, cui si sottopone la riflessione
dell'autore (in questo caso Simeone) alleggerisce e libera da ogni
scoria moralistica il ragionamento (adotto il lemma a ricalco semantico
dei gelliani Ragionamenti di Giusto Bottaio) sulla compassione e sulla
gratitudine, sentimenti contigui, i quali postulano, però,
due posizioni diverse circa l'oggetto di essi.
Nell'uno e nell'altro apologo, come spesso avviene nei 'racconti'
di Simeone, l'input è dato da un riferimento extratestuale,
sicché testo ed extratesto convergono in una sorta di co-testualità,
dove il secondo elemento risulta legato al primo in chiave contrappuntistica,
determinando un andamento biplanare e dialettico. In questo caso è
Nietzsche a introdurre il discorso. A ben guardare, si noterà
che la chiamata in causa del filosofo tedesco non solo attiene all'economia,
per così dire, contenutistica, ma anche tende ad associare,
nella mente del destinatario, il carattere asistematico, diaristico,
apoftegmatico della riflessione 'simeonica' a quella nicciana. Stabilita
questa lunghezza d'onda sul canale della comunicazione, il lettore
si ritrova introdotto nella canonicità di un'espressione tutt'altro
che ludica, sicché lo spettro della kantiana 'ragion pratica'
si parcellizza nella brevità arguta, nel tono 'occasionale',
nella puntualità circoscritta e leggera, specifica dell'apologo.
Nel primo, il serioso andamento della riflessione iniziale sullo stoicismo
cede il passo ad una esemplificazione a metà strada fra il
tono asseverativo ("Certo, è bella cosa") e quello
straniante che capovolge la prospettiva comune, sicché il "premio
della Protezione Civile per un'azione cosiddetta coraggiosa"
risulta una condanna da evitare, una sanzione, per aver danneggiato
"colui che ha bisogno di essere salvato, dato che l'esistenza
è per sé amara e detestabile".
Segue, poi, la dissacrazione di quell'aura sovraumana, circonfusa
intorno allo stoico, il quale, in fondo, ama se stesso al di là
di ogni misura, rifiutando persino la consolazione di un Dio pietoso
che si curi di lui. Un Dio qui metaforizzato nel ruolo dell'infermiere
"maggior testimone del nostro fallimento", donde la "neutralizzazione
dei segni positivi e negativi intercambiabili dell'umano troppo umano",
ossia della morale superomistica. Infine due 'vignette' esegetiche,
le quali daranno al lettore la misura dell'egoismo umano, anche quando
si paludi di pietà.
Nel secondo, medesima movenza esordiale: un apoftegma dal nicciano
Zarathustra ("Grandi favori non rendono riconoscenti, bensì
vendicativi"). Assunto che, in altri tempi, sarebbe stato oggetto
di suasoriae e di controversiae, di esercitazioni e di dialoghi, tanto
appare paradossale e negativo: "il beneficiato non vede l'ora
di vendicarsi di essere grato [ ... ]. Il beneficiante coatto ad essere
riverito e a dover domare l'istinto naturale di criminale aggressività".
Il lettore si chiederà perché. La risposta di Simeone
non tarda: "La gratitudine è un conto aperto, che il beneficiato
non riuscirà mai a saldare, giacché il beneficiante
[ ... ], non richiedente né richiesto [ ... ], non saprebbe
stabilire l'entità di tale conto, altrimenti si volatilizzerebbe
la gratuità del beneficio". Segue una sorta di esemplificazione
("Il superiore" ecc.) cui consegue una sillogistica conclusione
legata alla logica del paradosso: "Sappia, dunque, chi fa del
bene, il peso e il rischio inevitabile della gratitudine, il quale
non si può alleggerire in nessun modo".
L'ottica tradizionale, che mi sembra perfettamente espressa da un
pensiero del Guicciardini ("Non c'è cosa più labile
della memoria di un beneficio ricevuto") è così
capovolta.
Ma resta l'amaro pessimismo dello storico rinascimentale. Solo che
il cruccio qui latita, come latita ogni presunzione di moralismo.
La responsabilità di tale scelta è, però, tutta
di Simeone.
b) I racconti di Simeone / Oreste Macrì
SULLA COMPASSIONE
Sarei d'accordo con Nietzsche (Aurora, 137) sulla eccellenza (apparente)
della condotta morale (cioè, non morale) dello stoico kantiano,
che si guarda bene dal buttarsi in acqua per salvare uno che sta per
affogare, se avessi la sicurezza che lo stoico potrebbe e saprebbe
gettarsi in acqua per salvare quel disgraziato. Mi resta il dubbio
sulla libertà dello stoico di fare o non fare. A furia di mettersi
in testa di non fare si necessita interiormente ed è costretto
a non fare.
Certo, è bella cosa farsi i fatti propri, non impicciarsi,
al fine di non inorgoglirsi ed evitare di essere lodato e magari avere
un premio dalla Protezione Civile per un'azione cosiddetta coraggiosa;
e anche al fine di non danneggiare oltre colui che ha bisogno di essere
salvato, dato che l'esistenza è per sé amara e detestabile.
Ma non è fugabile il sospetto del calcolo sottile - a parte
la viltà - di far parte della setta degli stoici, i quali non
sfuggono essi stessi al fatale orgoglio umano. Il gioco nicciano sui
sentimenti è uno spettacolo deprimente. Nietzsche di certo
aveva paura e orrore di essere amato per eccessivo e smodato desiderio
di essere amato; era gelosissimo di se stesso, con il dente avvelenato
di perenne neonato. Rifiutava la compassione per orrore della malattia,
in quanto colui che ci assiste nell'infermità è considerato
il maggior testimone del nostro fallimento, il quale si intensifica
e si fissa in noi, se l'infermiere si agita e soffre e piange con
noi; riproduzione figurale della matercula che ci assistette esagitata
quando avemmo il morbillo o la varicella. Perciò l'infermo
nicciano è senza infermiere, in che consiste il suo cosiddetto
ateismo. Del resto, a Nietzsche non va bene neppure la condotta degli
stoici, parificata in definitiva a quella dei cristiani schopenhauriani
nella consueta neutralizzazione dei segni positivi e negativi intercambiabili
dell'umano troppo umano.
Immaginate due vignette. Nella prima si vede un cieco (falso) che,
assiso per terra, chiede l'elemosina; la gente passa indifferente
o quasi; qualcuno di quando in quando svogliatamente getta una moneta
nel cappello capovolto. Nella seconda vignetta lo stesso falso cieco
appare ben vedente con lo stesso cappello in terra capovolto. Questa
volta al suo fianco sta lo stesso canino ritto sulle zampe, applicati
sul naso occhiali scuri a simulare la cecità e apposita dicitura
sul petto ("Cieco"). La gente si ferma, anzi s'affolla e
il cappello accoglie belle monete e qualche banconota.
Trovare la pietà. Nessuna, naturalmente nell'aspetto circense
della scenetta; l'elemosina nella seconda vignetta corrisponde al
biglietto d'ingresso nel Circo Krone; equazione commerciale: divertimento-pagamento.
Nella prima non c'è nulla da divertirsi, anzi il passante sente
possibile per sé quella sciagura della cecità e s'infastidisce;
magari dà qualcosa, ma come offa al Maligno che lo risparmi.
La stessa pietà apotropaica si potrebbe riscontrare nella seconda
vignetta del cane cieco, ma in questo caso è maggiore la pietà
assoluta, aggiunta la maggior tenerezza, che gli umani rivolgono agli
animali domestici rispetto ai propri simili sul modello della relazione
tra padrone assoluto e cane schiavo in detta scenetta. La falsa cecità
di entrambi serve solo al vignettista per legare le due vignette e
non c'entra coi sentimenti dei passanti.
Simeone
(p.c.c. Oreste Macrì)
INTORNO ALLA GRATITUDINE
Nel paragrafo Dei compassionevoli del nicciano Così parlò
Zarathustra si legge: "Grandi favori non rendono riconoscenti,
bensì vendicativi". La soluzione finale dei rapporti tra
beneficianti e beneficiato è giusta e fatale, dato l'altissimo
grado di tossicità psico-fisiologica della gratitudine come
valore sociale concordato. Col passare del tempo accadrà sempre
che il beneficiante, forse per inconscia pietà verso il suo
beneficiato obbligato alla riconoscenza, commetta una sciocchezza,
un passo falso verso detto beneficiato; ad es., un improvviso e assurdo
rifiuto o diniego dello stesso dono o beneficio, o qualche lieve pretesa,
che subito il beneficiato ingrandisce ed esaspera, togliendo pretesto
per smaltire il grave peso della gratitudine. Oppure il beneficiato
provoca il beneficiante negandogli un minimo favore con risibile pretesto,
si che il beneficiante s'incazza e il gioco è fatto.
In tal guisa la scintilla dei due comportamenti risolve il groppo
della gratitudine e le due alterezze si dividono per sempre, subentrando
benefica ruggine fino all'oblio. Insomma, il beneficiato non vede
l'ora di vendicarsi di essere grato, cieco e supino in alcunché
di ignoto e inerte. Il beneficiante, inoltre, si sente come una palla
al piede per quella faccia melensa, coatto a essere riverito e a dover
domare l'istinto naturale di criminale aggressività, il che,
naturalmente, è più incoercibile nel beneficiato.
Il motivo è semplice. La gratitudine è un conto aperto,
che il beneficiato non riuscirà mai a saldare, giacché
il beneficiante, d'altronde non richiedente né richiesto di
ciò, non saprebbe stabilire l'entità di tale conto,
altrimenti si volatilizzerebbe la gratuità del beneficio, la
quale, appunto, è causa della illimitatezza del conto e conseguente
insopportabilità.
Quanto finora osservato si riferisce al superiore, che si degna di
beneficiare l'inferiore con dono che non può essere se non
gratuito, si che ogni ossequio e servizio del beneficiato sono interminabili
quanto dovuti. Se il beneficiante è l'inferiore (ad es., salvataggio
in mare, soccorso autostradale), il superiore beneficiato estingue
il debito morale con immediato beneficio (in denaro, vestiario, raccomandazione
o semplice ringraziamento con effusiva stretta di mano). Anzi, il
superiore è seccato di essere beneficiato, giacché è
stato disturbato.
Sappia, dunque, chi fa del bene, il peso e il rischio inevitabile
della gratitudine, il quale non si può alleggerire in nessun
modo. In ciò stesso consiste la purezza d'animo nel fare del
bene alla radice del compimento del bene. Sappia che i beneficiati
bramano scaricarsi della gratitudine, perché più o meno
oscuramente pensano di non essere degni del beneficio ricevuto. Epperò
è stranamente positiva la loro ingratitudine repressa, quasi
segno di umiltà. Il modello del Cristo è lampante. Dentro
di noi pensiamo "Ma chi gliel'ha fatta fare a sacrificarsi per
noi? a caricarsi di questo eterno e incancellabile rimorso? Noi veniamo
prima di Lui dal caos del caso e del male. Ha voluto redimerci gratuitamente
con mimesi del nostro spirito criminale e malefico. Ed ora come faremo
a ricompensarlo?". Si che tentiamo di incolparlo delle nostre
colpe. Terremoto di Lisbona? La riedificammo nello stesso territorio!
Andiamo a cercare pretesti nella lettera testuale di antichi teologi,
dove pensiamo sia scritto che pochissimi di noi si salveranno, e così
ci scarichiamo del peso della gratitudine. Oscilliamo addannandoci
tra qualche particolare della nostra volontà e il rimetterci
totalmente alla di lui grazia; nel primo caso ci corresponsabilizziamo
per togliergli una parte del beneficio; nel secondo caso ci deresponsabilizziamo,
e forse è questo il segno peggiore della nostra incarnata ingratitudine.
Chiedo venia di questa sparata finale senza senso.
Simeone
(p.c.c. Oreste Macrì)