§ FERDINANDO IV DI BORBONE

MA A NAPOLI C'ERA UN "RE CAFONE"




A. P.



Chi promosse la "Reale Ricognizione" fu chiamato "Re Pulcinella" e persino "Re lazzarone". Eppure Ferdinando IV di Borbone, una micidiale miscela vivente di volgarità e di goliardia, finito sul trono napoletano nel 1759, nasceva più che bene. Era figlio di un insigne galantuomo, Carlo III di Spagna; e pronipote di Luigi XIV. Evidentemente, anche i cromosomi reali spesso tralignano. Ebbe modo di constatarlo personalmente, un paio di secoli fa, Giuseppe d'Absburgo. Correvano i primi giorni di marzo del 1769. Il futuro imperatore d'Austria, allora ventottenne, era in visita alla corte di Napoli. E da lì inviò a sua madre, Maria Teresa, una relazione disgustata su Ferdinando IV. In sintesi: siamo di fronte ad un regale idiota. Tanto bonaccione e tanto cafone. Punto e basta.
Quello di don Peppe, come i napoletani amavano chiamare Giuseppe d'Absburgo, non era un viaggio di piacere. Era venuto nella capitale del Reame in missione politica e familiare. Sua sorella, Maria Carolina, da un anno aveva sposato Ferdinando: ora era la regina del Mezzogiorno, e l'augusto fratello doveva riferire a Vienna se il matrimonio funzionava, e soprattutto se c'erano bambini in arrivo.
Un po' spia, un po' voyeur, il futuro Giuseppe II diede inizio a una diligente ispezione della coppia. Ne calcolava le carezze, ne esaminava gli amplessi. Si improvvisò persino ginecologo di sua sorella, spedendo alla madre un preciso quanto imbarazzante referto con annessi risultati di una personale prospezione. I seni, puntualizzava in tono burocratico, continuano a mantenersi "graziosi e ben sviluppati"; Ferdinando II amava a tal punto "da additarli a tutti, in pubblico". Maria Carolina, però, si mangiava le unghie, trascurava leggermente i denti ("e gliel'ho rimproverato") e si era purtroppo "avvezzata al dialetto napoletano".
Piccole cadute di stile, che nulla avevano a che fare con la trivialità plebea del consorte. Costui, il diciottenne Re di Napoli, apparve a Giuseppe esattamente come lo avrebbe descritto Giacomo Casanova nelle sue Memorie: un selvaggio con la parolaccia sempre pronta, che si circondava di dame di dubbia virtù e di scrocconi mascherati da gentiluomini.
Giuseppe era implacabile. Mio cognato, scriveva, "è un essere singolare e ridicolo". Aveva "una selva di capelli color caffellatte, che non incipria mai; un naso che sembra entrargli in bocca; denti discreti in quanto allo smalto ma molto irregolari", e soprattutto aveva "occhi da maialino". Le mani, inoltre, non emanavano alcun odore gradevole. Per di più, vestiva in maniera folle, prediligendo un'inquietante "accozzaglia di colori".
Giudizi eccessivi? In verità, fra don Peppe e il Re lazzarone - che il cognato aveva definito "un figuro" - le differenze di carattere e di educazione erano abissali. Da una parte un rampollo imperiale, che aveva assorbito fin dall'infanzia una morale rigida, quasi giansenista. Dall'altra, un giovane semianalfabeta e allergico alla politica. Che passava le giornate a distribuire scappellotti a cuochi e a stallieri; e poi a farsi rincorrere esultando, fra lazzi e capriole, lungo i corridoi della reggia di Portici; e infine a compiere raid in cucina, dove ingurgitava pantagrueliche quantità di cibo grondante grassi e spezie; e a praticare la caccia più con lo stile del bracconiere o del parvenu che dell'autentico gentiluomo; e persino a ricevere i suoi ministri assiso sulla "seggetta": una sedia-vaso da notte, circondata da cinque o sei valletti che celavano alla vista poco o nulla e all'olfatto il resto di niente.
Scene grottesche. Ma quel che preoccupava maggiormente Vienna e la più snob delle imperatrici, Maria Teresa, era "lo stato di ebete ignoranza" in cui viveva quel loro congiunto abituato al "turpiloquio più turpe" e alle "più insipide e sozze facezie". Lo si riteneva assolutamente "irrecuperabile". Quel degenerato, che "berciava" continuamente in dialetto "come un postiglione", non riusciva nemmeno a fare la distinzione "fra la Pasqua e il Venerdì Santo". A teatro si addormentava. A messa faceva il solletico ai vicini in preghiera. Quando giocava a moscacieca distribuiva "pugni e pacche sul didietro di tutte le dame". E da ultimo, somma incoscienza, durante le battute di caccia abbandonava la moglie alla mercé di paggi e scudieri: e alle loro "proposte a dir poco ardite".
Per fortuna, a dirigere il Regno - oltre al primo ministro Bernardo Tanucci, "abile, ambizioso, un vero Tartuffe" - ci pensava la "charmante" Maria Carolina. Una donna di polso. Fin troppo. Quando il marito le spruzzava in faccia l'acqua o la torturava con altre "bambinate", lei prudentemente e saggiamente taceva. Pagava di persona il costo dell'alleanza con quei Borboni. Ma si sa, con la Ragion di Stato non si ragiona. Neanche se si era costrette a tenersi accanto, in casa o fuori, un marito scugnizzo.


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