§ GLI IMPRENDITORI DALL'OTTOCENTO AD OGGI

CAPITANI INCOMPRESI?




R. Canziani, G. Ravel, A. Arcuri



E' falso che la Magna Charta abbia segnato l'atto di nascita delle libertà moderne. Con quel documento, strappato a un re imbelle, Giovanni Senza Terra, i baroni inglesi sancirono, nel XIII secolo, soltanto la libertà di instaurare una tirannide feroce e incontrollata nei propri feudi, senza alcun contrappeso da parte del potere legale. L'autentica libertà sopraggiunse molto tempo dopo, quando si ricostituì un potere centrale e si ristabilirono equilibri sempre più complicati e sempre più larghi tra il pubblico e il privato: tra i re, i baroni, i sudditi dei re, i vassalli dei baroni e i servi degni degli uni e degli altri.
In Francia ed in Inghilterra, che furono i Paesi europei nei quali si svilupparono meglio lo Stato e la democrazia moderni, la libertà nacque insieme con la classe dirigente borghese, che sostituì l'aristocrazia e in parte la rilevò. L'aristocrazia non dirigeva: comandava. E, assai più dei re, comandava non in vista degli interessi generali, ma degli interessi propri. Non si può neppure sostenere che l'aristocrazia feudale facesse i propri interessi come classe.
E' vero semmai il contrario: ogni feudatario mirava a imporre la propria forza e il proprio arbitrio non solo al monarca, ma anche agli altri feudatari, in un regime di tendenziale e permanente anarchia. Si possono dunque capire i re, che dal Medioevo in poi cercarono di tenere a bada la nobiltà appoggiandosi al Terzo Stato, vale a dire alla borghesia. Là dove questa alleanza riuscì ad imporsi (Francia e Inghilterra), .nacquero le istituzioni moderne. Là dove l'aristocrazia riuscì a preservare i suoi riottosi privilegi (Spagna, Russia, Germania), si sviluppò un torbido guazzabuglio, che per molto tempo oscillò tra l'assolutismo e il disordine.
Con ogni probabilità, la conoscenza della storia non serve a modificare il presente. Ma può aiutarci a comprenderlo. Sapere che cosa è successo in Francia e in Inghilterra ci fa capire meglio quel che non è successo da noi, e dunque ciò che manca all'Italia.
Un ceto politico separato dal suo substrato sociale è un'anomalia tipicamente italiana, di cui verifichiamo ogni giorno le conseguenze negative. All'Italia manca una vera classe dirigente. O, almeno, alla classe dirigente italiana mancano alcune prerogative di carattere e di cultura: quelle che di una classe economicamente egemone fanno una classe dirigente sociale e politica, vale a dire la più autentica spina dorsale di un Paese.
La prima di queste qualità è la percezione degli interessi generali e la volontà di rappresentarli (facendo naturalmente fino in fondo i propri); e dunque la volontà e la capacità di costruire uno Stato a propria immagine e somiglianza. Una classe dirigente non lascia che altri, intorno, le facciano lo Stato, per potersi poi sentire estranea al potere centrale e covare nell'ombra le proprie uova, come i baroni di Giovanni Senza Terra o i Mercadores indiani. Capisce che oggi lo Stato è un indispensabile prolungamento dell'economia e della società, ed è interessata a farlo funzionare. Non baratta favori con il sottogoverno. Accetta i suoi rischi, ma esige che i servizi funzionino, e considera tutto quanto le sta intorno, vale a dire gli affari pubblici, come un complemento, una proiezione e una necessaria dilatazione degli affari privati.
La molla del profitto non è necessariamente cieca. Un ceto industriale può perseguire la massimizzazione del profitto sia attraverso la spoliazione della società e dello Stato, trovandosi ben presto senza più niente da spolpare, sia attraverso la costruzione ordinata ed efficiente di un'amministrazione pubblica, che moltiplichi le occasioni e le possibilità del suo sviluppo. Si possono fare i propri interessi (tanto per fare un esempio italiano) sia difendendo il porto di Genova, rinnovandolo e appoggiando gli sforzi di chi cerca disperatamente di salvarlo dal ricatto di una medioevale e degenere corporazione, sia lasciando solo chi lavora in questa direzione, barattando il suo fallimento con vantaggi obliqui e collaterali, infischiandosi del porto, della città, del futuro di antiche prerogative mercantili e armatoriali. Nel primo caso si fanno i propri interessi, ma anche quelli della città e del Paese: e dunque si è classe dirigente; nel secondo caso si fanno sempre i propri interessi (ma a breve), ma si rimane un'accozzaglia di uomini d'affari senza un progetto e senza una funzione civile. La molla del profitto (o del guadagno) può agire in un senso o nell'altro, a seconda della cultura o anche delle ambizioni di un ceto.
Non si può dire che in Italia manchino gli imprenditori, grandi e piccoli, né che gli imprenditori italiani non siano bravi. Sotto certi aspetti, anzi, sono bravissimi. Tuttavia non si può dire neppure che siano una classe dirigente. Tra i tanti problemi italiani (questione meridionale compresa), questo è anzi il principale. E configura una questione settentrionale.
Se, al momento dell'unificazione del Paese, esisteva una classe che, per funzioni, preparazione, potenza, rapporti con gli Stati più evoluti d'Europa, era destinata ad assumere il bastone di comando della società e dunque a guidarla come classe dirigente, questa era la media e grande borghesia lombarda. Purtroppo, era anche un ceto abituato da secoli a farsi fare lo Stato da altri (spagnoli o austriaci), poco attento alle complicazioni politiche dell'economia, sostanzialmente renitente alle responsabilità generali, incline a contemplare il proprio cortile e a passare direttamente alla contemplazione del cosmo senza fermarsi sulla società nazionale e soprattutto senza occuparsi dello Stato. Strano destino delle "due Italie": di quella del Nord, che disponeva di un ceto imprenditoriale, ma balbettava politicamente con le visioni universalistiche di Cesare Cantù; e di quella meridionale, che non disponeva di un vasto ceto imprenditoriale, ma metteva in campo la robusta realpolitik di Pietro Colletta! E infatti la classe dirigente lombarda, l'unica autentica che avessimo, non fece il suo dovere e affidò la costruzione e la gestione del nuovo Stato un po' ai burocrati piemontesi e molto alla piccola borghesia meridionale.
Che adesso questa classe rimpianga l'Austria non è una prova di civiltà né di cultura europea. Anche la borghesia indiana rimpiange l'Inghilterra, confermando la propria collocazione nel Terzo Mondo sia con la sua nostalgia per i vecchi dominatori sia con l'incapacità a rimpiazzarli.
Molti dei nostri guai sono dipesi da questa sproporzione tra le qualità imprenditoriali, spesso eccellenti, della nostra borghesia e la sua singolare, pervicace, cieca ignoranza politica. Che è perdurata nel tempo. E potrebbe perdurare. Un esempio di questa strana proporzione è stata la gestione della Confindustria all'epoca del conflitto sulla scala mobile. Lucchini si comportò come se la battaglia non riguardasse né il ceto imprenditoriale né il Paese né lui stesso. Sebbene dall'esito di quello scontro (che poteva avere nell'immediato una marginale importanza economica) dipendessero l'orientamento generale della società e gli indirizzi più o meno favorevoli ad uno sviluppo ordinato delle relazioni sociali e dei rapporti di lavoro, l'allora presidente della Confindustria si tenne fuori, con fare sprezzante, come se la cosa riguardasse solo il governo e i sindacati, preparandosi come al solito a lamentare l'incompetenza dei politici e a chiedere al momento opportuno qualche favore come contropartita al malgoverno.
Nell'atteggiamento del bresciano Lucchini in quel particolare momento si poteva vedere un'anticipazione delle Leghe, che non a caso riscuotevano un largo seguito tra gli industriali del Nord. Le Leghe reagivano alla palese degenerazione dei partiti ed alla pessima gestione politica del Paese non già proponendo una soluzione per tutti, ma intensificando il richiamo al cortile di casa, restringendo cioè l'orizzonte culturale e politico. E occorre dire che da questo punto di vista gli industriali rivelavano una tendenza ancora più marcatamente miope delle Leghe, visto che Bossi si mostrava almeno interessato ai progetti di riforma istituzionale, che non godevano invece di alcun credito presso gli imprenditori.
Ancora una volta, si doveva constatare l'estraneità ai problemi dello Stato in una classe che avrebbe dovuto sentirsi la spina dorsale del Paese. L'abitudine a usare il proprio contropotere per trattare non con i governi (che è più comodo disprezzare) ma con i sottogoverni (che è più comodo strumentalizzare) aveva finito col creare anche negli industriali, non solo lombardi, la propensione a fondere il lamento - molto italiano, arlecchinesco e plebeo - contro i padroni del vapore con la gelosa difesa delle prerogative feudali di quei baroni inglesi che ottennero la libertà per sé soltanto a patto di togliere la terra e il potere al re e dunque la libertà al Paese.
L'industrializzazione in Italia è processo avviatosi circa un secolo e mezzo fa e gli industriali sono entrati a pieno titolo a far parte delle élites del Paese ormai da cento anni. Durante questa non breve fase della nostra storia contemporanea il regime politico è cambiato più volte, da quello liberale al Ventennio, alla Repubblica, con un succedersi significativo di ceti politici e di leader di governo, da Giolitti a Mussolini, a De Gasperi, ai governi variamente composti e organizzati dell'ultimo mezzo secolo, con formule e con alleati diversi, a volte anche in posizioni conflittuali, smussate o ricomposte in nome del potere.
Certo, è pericoloso sintetizzare in formule rigide i rapporti tra industriali e politica in un periodo così lungo, nel contesto di profonde trasformazioni della società italiana; ma si può quanto meno individuare una continuità di comportamenti. Di fatto, la borghesia industriale si è attestata nel tempo su un particolare scambio con il ceto politico di governo, al di là di pur evidenti differenze. Gli imprenditori hanno rinunciato a farsi consapevole carico di innovazioni modernizzatrici anche del sistema politico, della fisionomia istituzionale dello Stato e dei suoi apparati, non hanno espresso e fatto pesare valori e interessi davvero antitetici a quelli dei ceti dominanti tradizionali e delle élites politiche di governo, in cui si sono semmai riconosciuti. In cambio di questa rinuncia più o meno strategica, hanno sempre chiesto e ottenuto dallo Stato la rigida tutela degli interessi più immediati di categoria sotto varie forme.
Ovviamente, non sono mancati nel tempo frizioni e conflitti con settori delle forze politiche governative e il sostegno ad alcuni piuttosto che ad altri, né il fronte imprenditoriale dell'industria si è schierato sempre e comunque in modo omogeneo. Basti pensare all'insoddisfazione nei confronti di Giolitti già prima della guerra mondiale, e anche dopo, durante il "biennio rosso 1919-20", o alle resistenze a Mussolini, pur ampiamente sostenuto, per la rivalutazione della lira a "quota novanta" nel 1927, o ancora alla battaglia per il centro-sinistra e la nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Ma i contrasti, a volte anche duri, non hanno mai incrinato nella sostanza quel "ministerialismo di professione" indicato come norma di comportamento prioritaria per gli imprenditori da un industriale di razza, come Giovanni Agnelli, (ci riferiamo al primo, non all'attuale Gianni), che pure in varie situazioni non mancava di sostenere tesi e posizioni per nulla conformiste.
A mettere sotto accusa la patologia del sistema capitalistico italiano, auspicandone fra le righe la squalifica in campo internazionale, è stata anzitutto "Moody's", prestigiosa agenzia americana, il cui referto clinico sui bilanci di Stati e di grandi imprese è vangelo fra gli operatori finanziari. Poi è venuto di rincalzo il Governatore della Banca Centrale tedesca, amministratore della seconda valuta di riferimento sui mercati mondiali. Infine, è arrivato il colpo di grazia del Fondo monetario internazionale, che a suo tempo aveva già decretato l'agonia economica della Jugoslavia e della Polonia. Secondo il consulto delle tre istituzioni, il "male italiano", senza urgenti e concreti correttivi, sarebbe prossimo al punto di rottura: potrebbe andare di mezzo la stessa permanenza dell'Italia in Europa e nel sistema occidentale.
A questi autorevoli interventi stranieri si erano aggiunte alcune autorevolissime voci indigene, altrettanto allarmate. In particolare, quelle di Romano Prodi e di Franco Reviglio. Il monito di Reviglio era tecnico e circostanziato: "Nel 1990 la spesa pubblica ha valicato un ammontare record per il nostro Paese, pari al 53 per cento del prodotto interno lordo, facendoci registrare un disavanzo più che doppio rispetto a quello della Comunità europea. Oggi siamo ad oltre il 60 per cento, mentre la pressione fiscale è asfissiante: in media, pari al 43 per cento".
Più teorica, ma non più allegra, la presa di posizione di Prodi: è proprio questo Stato imprenditore, lottizzato dagli apparati e dalle clientele dei partiti, la maggiore zavorra di un capitalismo perdente. Un capitalismo senza volto e senza cultura industriale, destinato, se sordo ai correttivi, a soccombere in tutti i campi nella sfida con gli altri due classici modelli capitalisti noti all'universo economico dell'Occidente: quello anglosassone, basato sull'azionariato anonimo delle imprese, che prevale in Inghilterra, in Canada, negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda, e quello tedesco, basato soprattutto sul potere finanziario e gestionale delle banche, che segna ogni giorno dei punti a suo vantaggio in Germania, in Giappone, in Svizzera, in Olanda e nei Paesi Scandinavi.
Ecco, secondo Prodi, le piaghe che nutrono e infettano l'originalità negativa dell'incompiuto capitalismo italiano rispetto agli altri due modelli vincenti: la fragilità della struttura proprietaria, aggravata dalla mancanza di regole e di tradizioni manageriali; il vuoto o l'ambiguità proprietari riempiti dall'invadenza sempre più diretta del potere politico, che finisce col sottomettere la spontaneità creativa del gioco economico al puro volere di una complicata coalizione oligopolistica di Principi; l'ipertrofia del settore pubblico che comprende la quasi totalità del sistema bancario e oltre un terzo delle imprese di maggiori dimensioni. Insomma, al di là di faticose "dismissioni" degli ultimi mesi, è un quadro saturo di contraddizioni esotiche, che fa del capitalismo italiano un semicapitalismo di frontiera, in precario equilibrio, o peggio, squilibrio fra le competitive e dinamiche società dell'Ovest e le depresse e fallimentari economie del Sud e dell'Est.
Al cospetto di queste analisi, chi ricorda più gli squilli di tromba dei profeti del "Nuovo Rinascimento" alla Alberoni, degli ottimisti statistici alla De Rita, dei precipitosi aedi dell'Italia quinta potenza industriale?
La "anonima partiti" aveva finito col dare vita in Italia a quella che i russi chiamano italjanskaja salat e che poi, invertendo il gioco di parole, potremmo chiamare anche insalata russa. Cioè un sistema ibrido, a mezza via tra assistenzialismo socialistoide e capitalismo, che imponeva alla nostra società la massima nomenklatura del mondo occidentale, la nomenklatura più simile a quella sovietica, con tutte le sconcertanti e nefaste similitudini del caso: un debito pubblico senza esempi in Occidente, un debito netto verso l'estero di dimensioni macroscopiche, un prodotto interno lordo schiacciato da queste cifre mostruose, un'inefficienza da paese centroafricano nei grandi servizi di massa, dai trasporti agli ospedali, un fisco predone tra i più esosi e al tempo stesso più vacui d'Europa, una cronica debolezza produttiva e competitiva del Mezzogiorno, uno sfacelo di intere regioni sotto la pressione dei cartelli del crimine incontrastati o incontrollati dalle autorità allo sbando anche per via di leggi supergarantiste.
A corollario di tutto questo, una borghesia di Stato corrotta, ovvero la nomenklatura nepotistica di uno Stato affetto da bulimia ipertrofica che ormai confiscava e divorava ogni bene economico, dal metallo primario come l'acciaio, al bene di consumo secondario, come il panettone. Quella nomenklatura iperburocratizzata e sostanzialmente stalinista ci faceva volare male e ad altissimi costi, ci faceva morire spesso prematuramente fra le strutture della sua disastrata assistenza sanitaria, continuava ad esprimere a getto ininterrotto governi confusionari e parolai, che per quantità di poltrone e per incompetenza di funzioni assomigliavano più agli idropici governi di Breznev che agli asciutti gabinetti di lavoro in uso a Londra, a Parigi o a Bonn. Ad un certo punto abbiamo avuto sulla testa un governo di 33 ministri, contro i coevi 19 della Germania, 20 della Francia, 21 dell'Inghilterra, con in più un'inflazione di 69 viceministri (i cosiddetti "sottosegretari"), cinque dei quali solo per il Tesoro! Se si cercheranno mai gli affossatori del "miracolo italiano" sapremo dove trovarli: nel rifiuto del ceto imprenditoriale italiano a farsi classe dirigente egemone, e nel coacervo di professionisti del governo e del sottogoverno, cultori delle mazzette più che del buongoverno, che hanno gettato sul lastrico il Paese.
Si dice: ma il nostro è pur sempre un Paese inserito saldamente negli scenari occidentali. E si aggiunge: l'economia di mercato non è solo una festa dell'abbondanza, dopo tutto il mercato esiste anche in Bolivia. Ed è vero. Ma sarebbe davvero triste che l'Italia si ritrovasse in Bolivia, nello stesso momento in cui la Spagna e il Portogallo e le ultime Scandinavie si ritrovano in Europa.
Il sistema politico ha trattato l'industria come una voce contributiva del Welfare State italiano. Gli industriali non dovevano soltanto produrre, rinnovare gli impianti, tenere il passo con la concorrenza internazionale, garantire la sicurezza in fabbrica, tutelare l'ambiente, pagare le tasse. Dovevano assicurare occupazione, assistere il Mezzogiorno, finanziare la previdenza, trattare il sindacato come un "partner sociale". Dovevano insomma "riscattare" la colpa del profitto. All'inizio, forse, le motivazioni erano nobilmente solidaristiche. Col passare degli anni sono diventate schiettamente e sfacciatamente clientelari ed elettorali.
Alle malefatte dei governi corrispondono le malefatte del mondo economico. Per tradizione, amor di patria, conoscenza della fragilità del Paese, calcolo economico e quieto vivere, gli industriali hanno finito per addossarsi un sovraccarico di impegni sociali e clientelari che altri, in nazioni di più antica tradizione liberista, avrebbero seccamente rifiutato; ma li hanno negoziati contro un largo campionario di premi, privilegi, sussidi, casse integrazioni e lassismo legislativo nei settori in cui lo Stato avrebbe dovuto invece affermare la propria autorità. E' stato questo il vero compromesso storico, che ha marcato la vita economica italiana, è stato questo il patto antieconomico al quale si deve l'affanno con cui il Paese continua a inseguire l'Europa senza riuscire a raggiungerla. Se nell'applicazione delle direttive comunitarie l'Italia è un socio sistematicamente moroso, la ragione non è soltanto burocratica. Va ricercata nelle cause prime: nell'aver fornito non servizi e infrastrutture, non classi dirigenti, non mani pulite, ma sussidi e pensioni, boiardi obbedienti e passivi, economisti al servizio del Principe di turno, mani sporche. Nell'aver trasformato Roma in Bisanzio.
In tema di modernizzazione della società italiana, tra il dibattito politico, la nostra memoria collettiva e le scienze sociali, circolano convinzioni che, oltre ad avere carattere di idee ricevute, sono fra loro contraddittorie. Quando ci si compiace perché l'Italia è giunta in questi anni ad occupare il quinto posto nel novero delle potenze industriali del mondo, ci si dimentica che nel lontano 1914 essa occupava già il settimo posto: insomma, ha impiegato quasi tre quarti di secolo per scalarne due. E' un'idea ricevuta pure che gli imprenditori italiani abbiano formato sino ai primi lustri del secondo dopoguerra almeno, se si eccettuano poche grandi figure (Valletta, Adriano Olivetti), un ceto così sparuto e inabile da dover essere necessariamente in parte sorretto, in parte direttamente surrogato dallo Stato nel ruolo di attore primario della modernizzazione.
La prima, vera rivoluzione industriale in Italia si ebbe tra il 1896 e il 1913. Una lunga galleria di figure popolò il periodo tra le due guerre mondiali. Poi ci fu il secondo dopoguerra. Se ne può parlare seguendo diversi itinerari. Un primo percorso è quello delle occasioni perdute, specie nel campo della politica energetica e dell'informatica. Se la discussione sulle fonti di energia si è sviluppata in questi ultimi anni nel modo insipiente che conosciamo, fino a un referendum sul nucleare condotto all'insegna di opposte miopie più che di un reale conflitto di idee, è agevole dimostrare che quell'insipienza veniva da lontano.
Negli anni '30 essa si rifletté nei goffi tentativi dell'Agip, ingabbiata da troppe ingerenze politiche, di reperire massicce quantità di petrolio in Val Padana, e al tempo stesso di stabilire grandiosi quanto improbabili accordi con Paesi dell'Est, come la Romania. Poi nell'immediato dopoguerra la sua sopravvivenza, e il suo inserimento in un organismo finanziario e industriale più ampio, come l'Eni, dipesero dalla furbizia e da vischiosi giochi politici, tra i quali ebbe a destreggiarsi Mattei, più che da una chiara visione strategica dei problemi che la crescente dipendenza dall'estero per l'approvvigionamento dell'energia andava preparando al Paese.
Allo stesso modo, eravamo secondi al mondo per la ricerca scientifica nel settore nucleare, condotta dai gruppi guidati dal professor Ippolito. Un'oscura regia, forse neanche italiana, mandò a picco il Cnen, il Comitato nazionale per l'energia nucleare, che aveva nella Casaccia, il centro di ricerca alle porte di Roma, uno dei massimi punti di riferimento. Ippolito fu costretto a gettare la spugna e ad emigrare in un'università brasiliana, e il nostro nucleare arretrò a livello di serie mediocre.
Non meno grave, e per certi versi anche questa volta scandalosa, fu la perdita, si può dire voluta, dell'autobus informatico. All'inizio degli anni '60, dopo aver conosciuto un periodo di eccezionale sviluppo sotto la guida di Adriano Olivetti, l'azienda di Ivrea stava entrando con ottime premesse tecnologiche e organizzative nella produzione di grandi calcolatori. Era però finanziariamente stremata dal tentativo (quello stesso che tutti proclamano essere l'unica ricetta per sopravvivere nell'economia contemporanea) di allargare il proprio spazio produttivo e commerciale al di là degli angusti confini italiani ed europei.
Olivetti avrebbe avuto bisogno di sostegni economici e politici adeguati, nell'interesse di tutta l'industria nazionale e della collettività, ma i privati non seppero trovare una formula efficace per fornirglieli. Quanto allo Stato e al governo, sbrigarono in poche settimane l'intera vicenda, rifiutando di intervenire in qualsiasi modo, quasi avessero loro proposto di salvare una fabbrichetta di giocattoli. Così l'Italia uscì oggi si deve dire definitivamente - dalla produzione dei grandi calcolatori, con incalcolabili danni per la propria economia, per la ricerca scientifica, per la propria posizione politica e strategica nel mondo contemporaneo.
Un altro percorso è rappresentato dall'esplorazione della faticosa formazione di un sistema di fabbrica, espressione di una cultura industriale, che negli ultimi decenni dell'800 era un patrimonio ormai acquisito nel resto dell'Europa occidentale, mentre in Italia rimaneva in gran parte da inventare. In tali condizioni, era inevitabile che gli imprenditori italiani guardassero anzitutto alle esperienze straniere e pensassero un po' tutti, a cominciare da Giovanni Agnelli, di "fare come Ford".
Ma fare come Ford, costruire fabbriche che una severa disciplina del lavoro rendeva simili a grandi macchine, non era agevole, nell'Italia del primo decennio del secolo. Da un lato, la voce del sindacalismo rivoluzionario andava trovando consensi maggiori che non il gradualismo dei socialisti riformisti, i quali scorgevano nel pieno sviluppo del capitalismo uno stadio preliminare necessario per ogni successiva trasformazione del sistema politico. Dall'altro, la cultura umanistica dominante, in parte per il suo intimo orientamento e dinamica, in parte come espressione delle classi medie che vedevano minacciato il proprio status tanto dallo sviluppo dell'industria, quanto dall'espansione numerica e dal nuovo peso politico delle masse operaie, coltivava una marcata ostilità nei confronti dell'industria e delle trasformazioni sociali e culturali che essa induceva e rappresentava.
Il risultato storico fu che le fabbriche vennero ugualmente costruite; milioni di contadini si mutarono in operai dell'industria; la vita delle città e delle campagne venne rivoluzionata dalla diffusione del nuovo modo di produzione, analogamente a quanto era già avvenuto in altre società europee. Ma, diversamente da quelle, l'intero processo ricevette una legittimazione culturale e politica scarsa quanto reticente. Agli imprenditori fu consentito di contribuire in buona misura al processo di modernizzazione del Paese, ma senza riconoscere loro il diritto di farlo; senza ammettere - come in fondo aveva fatto persino Marx - che la modernizzazione capitalistica comporta grandi costi sociali, ma una società priva di modernizzazione capitalistica deve affrontare, in genere, costi diversi e maggiori.
Gli effetti di questa mancata legittimazione della pratica e della cultura industriale - legittimazione che non significava sminuire la rilevanza del conflitto sociale e la critica dei lati negativi dell'industrializzazione - si fanno sentire ancora oggi. Ad esempio, il gran parlare di società post-industriale, mentre in realtà ogni fremito degli indici della produzione industriale fa sobbalzare il mondo dell'economia e della politica, rappresenta pur esso un modo per non fare i conti con il fatto che un modo di produzione riesce a sviluppare tutte le proprie potenzialità positive, e a contenere quelle negative, soltanto se è oggetto di un processo di convinta legittimazione sociale.
Pretendere di godere delle suddette potenzialità, senza d'altra parte fare apertamente fronte agli oneri personali e collettivi di tale processo, risulta essere una mediocre ricetta economica, non meno che politica e culturale.

RISORGIMENTO A CARO PREZZO

E SOFFIÒ LA CRISI FINANZIARIA

Gli Stati italiani pre-unitari avevano sistemi monetari o a base argentea o a base bimetallica.
Tra questi ultimi c'era il Piemonte, che aveva mantenuto in vita tale sistema introdotto con la conquista napoleonica anche dopo la restaurazione per l'enorme importanza dei suoi rapporti economici e finanziari con la Francia. L'unificazione monetaria italiana si svolse quindi all'insegna dell'egemonia piemontese, e perciò di quella francese. Non avrebbe facilmente potuto essere altrimenti, dato l'assoluto prevalere della Francia del Secondo Impero negli affari politici ed economici italiani. Il sistema bimetallico era sì quello piemontese, ma era soprattutto quello francese.
La lira italiana nacque perciò bimetallica e liberamente convertibile. La Destra storica, che rimase al potere fino al 1876, prevedeva per l'Italia un futuro finanziario nel quale per lungo tempo le spese per gli investimenti sia pubblici sia privati avrebbero ampiamente ecceduto le disponibilità tanto delle entrate dello Stato quanto del quasi inesistente mercato italiano dei capitali. Era necessario perciò creare le condizioni più favorevoli all'ingresso e alla permanenza per un lungo periodo di capitali stranieri, che già si sapeva sarebbero stati in prevalenza francesi. Questo perché lo Stato sarebbe stato di gran lunga il maggior cliente dei finanzieri esteri, e nei prestiti a Stati le case specializzate erano quelle francesi, dominate dalla Maison Rothschild, che aveva abbondantemente assistito il Piemonte nella fase conclusiva del Risorgimento.
Bimetallismo e convertibilità furono dettati alla Destra storica dalle realtà dell'economia politica internazionale.
Dato che le entrate dello Stato coprivano sì e no la metà delle spese al momento dell'Unità, e che il permanere del territorio meridionale in condizioni di guerriglia rendeva necessario un dispiegamento massiccio in tale area dell'esercito, perpetuando nel tempo l'enorme pressione delle spese militari sul bilancio pubblico, se non si voleva sacrificare la costruzione di infrastrutture essenziali per modernizzare il Paese, bisognava reperire capitali all'estero, in particolare in Francia.
Anche perché l'altro grande mercato finanziario, quello inglese, non solo non prediligeva prestiti a Stati, ma aveva anche preso malissimo la preferenza mostrata per i francesi nell'ultima fase dell'unificazione italiana dalla nostra classe dirigente.
La convertibilità della lira fece affluire capitali nel nostro Paese per i sei anni durante i quali essa poté resistere. Mise tuttavia lo sviluppo italiano a rimorchio del ciclo finanziario internazionale. Il capitale straniero, e quindi i mezzi per mantenere la convertibilità, continuarono ad affluire fino a quando il ciclo finanziario internazionale non si ruppe, nei primi mesi del 1866, e non si verificò una di quelle tremende crisi che concludevano nel secolo scorso un boom finanziario internazionale.
A rendere inevitabile poi la fine dell'esperienza di convertibilità della lira venne, nel maggio dello stesso anno, lo scoppio della guerra austro-prussiana, della quale l'Italia approfittò, come era costume dei Savoia, per dichiarare guerra all'Austria e riprendersi un altro pezzo del territorio usurpato dallo straniero.
Le intenzioni bellicose italiane furono accompagnate da grandi spese militari, al di là di quelle necessarie per combattere il brigantaggio scatenato nel Sud dai fedeli del Borbone, e ciò causò l'ira e un vero e proprio ultimatum da parte di James Rothschild, principale finanziatore dello Stato italiano, ma anche della monarchia absburgica.
Quando si trattava di completare il Risorgimento la nostra classe dirigente si permetteva anche il lusso di sfidare i Rothschild. Il ritiro dei capitali internazionali, che si verificò ancor prima della dichiarazione di guerra all'Austria, rese inevitabile l'imposizione del corso forzoso dei biglietti delle banche di emissione italiane.
Dato l'enorme impatto della crisi finanziaria internazionale, che si verificava, allo stesso tempo, al corso forzoso ci si sarebbe probabilmente arrivati lo stesso e comunque. La decisione del governo italiano appare quindi tempestiva e appropriata. E' interessante ricordare che anche l'Austria dichiarò il corso forzoso nella stessa occasione.

OTTOCENTO E RISANAMENTO FINANZIARIO

QUANDO L'ITALIA SCOPRÌ LA PRESSIONE FISCALE

"Imposte, imposte e null'altro che imposte": era lo slogan di Quintino Sella che nel 1862 compiva la prima esperienza alla guida delle Finanze. In quell'anno, le entrate tributarie coprivano poco più della metà delle spese. Due terzi di queste ultime erano assorbite, in parti uguali, dal servizio del debito pubblico e dal mantenimento dell'esercito. Sella, che tornava brevemente a reggere il ministero delle Finanze nel 1864, era, con Minghetti, il fondatore del sistema tributario del nuovo Stato unitario. L'impegno di questi due uomini, e dell'intera "Destra", era caratterizzato da costanza e coerenza. E dalla consapevolezza che le riforme fiscali non potevano dare risultati che nel lungo periodo.
Il "risanamento finanziario", appena iniziato e per il quale si attendevano comunque tempi lunghi, subì una grave battuta d'arresto a causa di un fattore esogeno: la guerra con l'Austria (1866), che obbligò a un raddoppio delle spese militari. Il ministro Scialoja ricorse a un prestito redimibile forzoso accolto piuttosto bene, in un clima di acceso patriottismo.
Per una parte importante, il disavanzo di bilancio venne monetizzato con il "corso forzoso": espediente necessario, forse abile, probabilmente benefico; ma non certo un esempio di ortodossia di gestione. Esso era visto dagli stessi proponenti come un atto disperato dettato da una situazione disperata.
A guerra conclusa, la credibilità finanziaria del Regno d'Italia in Europa era assai bassa. La "rendita" veniva quotata a prezzi stracciati. Le conseguenze "disastrose" degli alti rendimenti dei titoli pubblici non sfuggivano a Sella: "Come volete che si trovino i capitali per l'industria, quando è aperto un mezzo di collocare con garanzia dello Stato capitali che danno tanto profitto?". Lo sviluppo del Paese richiedeva, pertanto, avanzi di bilancio che consentissero di ridurre lo stock del debito.
Tuttavia, lo stesso sviluppo postulava non solo investimenti in infrastrutture, soprattutto ferrovie, ma anche spese correnti, quali quelle per l'istruzione, destinate ad accrescere il capitale umano. In queste circostanze, appariva chiaro che la strada da percorrere per il "rientro" dall'eccessivo indebitamento passasse attraverso un aumento della pressione fiscale. Fu merito indubbio della "Destra storica" mantenere coerenza e continuità di programma, pur nella consapevolezza che si trattava di misure impopolari, con sicuri prezzi elettorali.
La liquidazione dell'asse ecclesiastico (equivalente ottocentesco delle odierne "privatizzazioni"), tra il 1868 e il 1880, procurò all'erario un'entrata non disprezzabile, anche se di molto inferiore alle previsioni.
Tornato alle Finanze nel dicembre del 1869, Quintino Sella potè vedere come il bilancio dello Stato traesse finalmente un consistente vantaggio dal funzionamento "a regime" dell'azione legislativa coraggiosa condotta dalla Destra, nel quinquennio precedente, per riformare il sistema fiscale ereditato dagli Stati pre-unitari. Il gettito dell'imposta di ricchezza mobile, la principale forma di imposizione diretta (introdotta nel 1864), raddoppiò tra il 1870 e il 1880. Anche le imposte indirette diedero un contributo crescente: tra queste, è restata particolarmente, e forse tristemente celebre, quella sul "macinato", cioè sul consumo di pane.
Tra il 1875 e il 1876 il bilancio dello Stato fu virtualmente in pareggio, anche al netto degli artifici contabili allora adottati per mostrare un saldo attivo.
Il 1876 fu anche l'anno della "rivoluzione parlamentare" degli uomini di Depretis con la quale venne posta fine alla cosiddetta "età della Destra". L'avvento della "Sinistra" al potere fu dovuto ai mutamenti di alleanze che riflettevano la maggiore compatibilità della società italiana. Tuttavia, la Destra fu chiamata a pagare anche il prezzo del proprio rigore fiscale: nessun ministro o partito politico che abbia accresciuto la pressione fiscale ha mai goduto di eccessiva popolarità. Ben pochi tra gli elettori, oggi come ieri, sono consapevoli di quanta verità vi era nell'autodifesa pronunciata da Quintino Sella alla Camera nel 1872: "lo credo che realmente si impongono aggravi ai contribuenti non quando si votano imposte, ma quando si votano spese".


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