§ I SUD D'EUROPA

LE SPINE NEL FIANCO




Ma. Bel.



Il processo di integrazione economica e monetaria della Cee si trova su un crinale critico. E' quanto dicono gli esperti; ed è quanto percepisce la collettività. Dopo Maastricht, l'Europa ha un risvolto più concreto; il rigore economico richiesto e la sostanziale perdita di autonomia nella determinazione della politica economica sono avvertiti come un prezzo alto che ciascun Paese deve pagare per "entrare in Europa". E' un messaggio molto più pressante dell'eco ripetuta, ma in fondo evanescente, relativa alla scadenza del '92, con la quale abbiamo vissuto negli ultimi anni. Non meraviglia che a fronte di una prospettiva di integrazione così pesante, perplessità e resistenze percorrano la pubblica opinione, e anche parte delle classi dirigenti nazionali.
Se il crinale dell'integrazione europea fatica ad essere lasciato alle spalle, ciò è dovuto, in primo luogo, agli incerti effetti ditale processo sugli equilibri economici di ciascun Paese partner. Sotto questo profilo il sistema dei dislivelli territoriali interni agli Stati membri acuisce i termini della questione e li divarica fino a creare polarità di complessa armonizzazione.
Prendiamo le mosse da questa constatazione. Alla già difficile convergenza degli interessi economici "medi" di ciascun Paese nel processo di integrazione europea si sovrappongono le esigenze di bilanciamento tra aree forti e aree deboli all'interno degli stessi Paesi. In un certo senso, questo secondo problema è di maggiore complessità rispetto al primo. Governare "i Sud d'Europa", intesi nell'accezione simbolica di "aree deboli", richiede oggi una forte presa di consapevolezza della questione territoriale europea a cui la Comunità si è avvicinata negli ultimi anni riformulando la propria politica di intervento, i cui effetti sono stati però, fino ad ora, piuttosto labili. Non si esagera se si afferma che mai come oggi l'ombra del sottosviluppo territoriale produce inquietudini e incertezze nei già delicati equilibri della Cee.
Eppure, le aree di debole sviluppo sono diffuse nel territorio comunitario, maggiormente presenti nei Paesi del bacino mediterraneo, ma non estranee al tessuto forte e compatto delle regioni industriali del Nord; e, fatto più preoccupante, i divari di crescita fra centro e periferia tendono ad allargarsi piuttosto che a ricomporsi, rimettendo in gioco l'essenza stessa, la ragione fondante della Comunità. Mutuando l'immagine classica dell'Europa a due velocità, e applicando i differenziali di sviluppo, non tra gli Stati, ma tra le singole regioni, si può dire che i Sud rappresentano oggi una "tenaglia" per l'Europa delle "grandi velocità"; una tenaglia che mentre ne rallenta e ne trattiene la corsa, chiama contestualmente in causa la responsabilità delle aree più sviluppate a far crescere armonicamente le diverse componenti territoriali dell'Europa.
E la tenaglia del Sud fa "presa" su una molteplicità di punti di lacerazione, effettivi o potenziali, dello sviluppo europeo:
- in primo luogo, c'è una grande lacerazione di principio tra il perseguimento dell'obiettivo di garantire la concorrenza, che tende ad eliminare tutti i meccanismi distorsivi di sostegno alle attività produttive, il perseguimento dell'obiettivo della coesione economica e sociale, ribadita nell'Atto Unico; entrambi i principi sono pilastri della costruzione comunitaria, ma mentre il primo accelera, il secondo perde colpi, come dimostra l'aumento dei divari di sviluppo regionale registrato negli ultimi anni;
- una seconda importante lacerazione, su cui la tenaglia del Sud fa presa, è l'incerto effetto dei processi di integrazione economica e monetaria. Pochi dubitano che nel lungo periodo la ricomposizione dell'economia europea produrrà un generale innalzamento di ricchezza di cui tutti beneficeranno; ma molti oggi avanzano perplessità sul fatto che nel breve e medio andare l'integrazione sarà capace di spingere lo sviluppo delle aree deboli, e diverse voci autorevoli mettono in guardia sul possibile effetto contrario di un ulteriore allargamento della forbice;
- il terzo punto critico, questa volta di scenario più ampio, chiama in causa il ruolo concorrenziale che sempre più sarà esercitato dai Paesi ex comunisti, i quali si propongono come formidabili attrattori di capitali, di imprenditorialità, di commesse per sub-forniture; la geografia delle convenienze economiche per investimenti e decentramenti produttivi sarà rivoluzionata da qui a qualche anno con ricadute penalizzanti per le aree deboli dell'Europa occidentale di cui non è facile prevedere l'impatto;
- la quarta tenaglia è la scarsa permeabilità dei sistemi nazionali a corrispondere efficacemente i principi e il metodo introdotti dalla riforma dei Fondi strutturali della Cee, attraverso la quale la Comunità ha inteso dare nuovo impulso agli interventi a favore delle aree deboli (facendo così propria la preoccupazione di un rimbalzo negativo su queste regioni del processo di integrazione economica e monetaria). Tale debole corresponsione, insieme ad alcuni punti discutibili della riforma, hanno fino ad ora vanificato parte dell'impegno di risorse destinate al primo obiettivo dei fondi strutturali;
- infine, la quinta tenaglia traduce la difficoltà di governare lo sviluppo di un'Europa del sottosviluppo che al suo interno si presenta estremamente frammentata. La rappresentazione geografica dello sviluppo economico europeo mette in evidenza che mentre il cuore produttivo del Vecchio Continente, che raccoglie oltre il 50 per cento della popolazione comunitaria, presenta caratteri di forte omogeneità e compattezza, le aree deboli (non più del 25 per cento della popolazione totale) si frastagliano in almeno cinque diversi raggruppamenti, ciascuno con caratteri delineati (dalla perifericità rurale di Grecia e Portogallo al Nord emergente della Spagna, fino alla lunga deriva del sottosviluppo che distingue il nostro Mezzogiorno). Governare una simile frammentazione è evidentemente esercizio di elevata complessità.
L'immagine della tenaglia - quale metafora congiunta sia della volontà del Sud d'Europa di non sganciarsi dai circuiti dello sviluppo economico, sia del rallentamento prodotto nella corsa verso l'integrazione delle aree più sviluppate - e un immagine volutamente provocatoria.
Infatti, stando così le cose, se le tenaglie vengono rimosse, i processi di lacerazione di cui si è detto finiranno quasi inevitabilmente per separare i Sud dal corpo forte dell'Europa; se, viceversa, la presa rimarrà salda, lo stesso percorso dell'integrazione europea sconterà un ritardo non quantificabile senza che peraltro ne debba conseguire, simmetricamente, un miglioramento delle posizioni relative delle aree meno sviluppate.
Il vero punto è che bisogna cercare di rimuovere la tenaglia (anzi, le tante tenaglie), salvaguardando tuttavia un principio fondamentale: l'appartenenza a pieno diritto del Sud alla cittadinanza economica europea. Ci sembra che su questo aspetto la scelta politica sia delicata e al tempo stesso dirimente.
La questione del "fardello" del Sud, a livello comunitario e in misura ancora maggiore nei singoli Paesi, lascia oggi ampiamente aperta l'ipotesi di un accesso limitato e condizionato ai diritti di chi è più sviluppato. Va invece ribadito che l'esistenza di una parte debole del corpo produttivo non può essere rimossa; essa è una delle tante strutture invarianti del sistema, ripropostasi nel tempo seppure in forme e con modelli differenti. Oggi come ieri, allora, bisogna assumersi il carico di questa marginalità invariante, accompagnandola lungo un processo di trasformazione e modernizzazione che solo può consentirne un duraturo riscatto.
E' questo certamente lo sforzo di più difficile articolazione, poichè richiede rigore e fantasia al tempo stesso. La scommessa per una positiva evoluzione di una struttura invariante del sistema economico e sociale, qual è il sottosviluppo territoriale, esige infatti la ricerca di alcune discontinuità (o di asimmetrie di sistema) che ridiano carica innovativa ad una componente altrimenti statica e arroccata nella sua nicchia di arretratezza. Ma da dove partire per riprodurre nuove asimmetrie?
La proposta di riflessione comincia dalla constatazione che alcuni mutamenti, più o meno focalizzati, sono in atto nel modello tradizionale di sviluppo del Mezzogiorno.
Queste trasformazioni sono rilevanti nella misura in cui indicono nuovi principi e nuove politiche di intervento e, soprattutto, nella misura in cui trovano eco, anche solo parziale, nell'esperienza degli altri Paesi europei; se c'è un filo comune che unisce le dinamiche di mutamento del Sud d'Europa, da questo filo comune si deve partire per rifare strategia globale d'intervento: cioè, in ultima analisi, per ricreare quelle discontinuità e asimmetrie che aprono una diversa prospettiva di sviluppo per le aree deboli europee. Il ragionamento deve perciò svilupparsi sulle fenomenologie emergenti del Mezzogiorno, che possono così sintetizzarsi:
- la crescita delle forbici Nord-Sud, accentuatasi in modo specifico negli ultimi anni, con parallele forbici interne al Sud;
- l'emergere di un modello di sviluppo per contiguità territoriale, che a partire dalla positiva esperienza di alcune aree emblematiche (come l'Abruzzo) innesca meccanismi di crescita latitudinali da Nord verso Sud e progressivamente sostituisce la tradizionale immagine della "pelle di leopardo" nella rappresentazione dello sviluppo meridionale;
- il parallelo, e conseguente, rimpicciolimento dei punti di vitalità, fino a configurare, quasi in contrapposizione alla territorialità (sistemi produttivi) dei processi di crescita, una atomizzazione dello sviluppo sostenuto da singole aziende che operano in contesti ambientali del tutto inadeguati;
- la tendenza alla segmentazione del corpo imprenditoriale, secondo logiche di gerarchizzazione, che per un verso portano all'individuazione di una punta avanzata, moderna e innovativa, ma per un altro spingono sulla frontiera marginale una parti cospicua del sistema produttivo, in precario equilibrio tra "emersione" e "sommersione".
- il consolidarsi di un benessere senza sviluppo, che sul versante del sociale riequilibra, attraverso elevati livelli di consumo i stili di vita omologati, la debolezza dei meccanismi di produzione di reddito e ricchezza tipica del Mezzogiorno.
La deriva di questi fenomeni trova origine nella più generale veicolazione di chiari e di scuri, di fermenti e di tensioni, che è caratteristica delle contraddizioni interne al nostro sistema capitalistico; la presenza di tensioni (prevalenti) e di fermenti (più discontinui) all'interno di ogni dinamica di trasformazione nel Sud è dunque anche in questo caso una chiave di lettura centrale per render conto della complessità dei fenomeni enucleati.
Ma riconoscere il percorso parallelo delle lacerazioni e delle tensioni da una parte, e delle vitalità e dei fermenti dall'altra, quali elementi determinanti della complessità della questione meridionale, significa anche sottolineare un ulteriore fondamentale aspetto. Al di là delle innumerevoli contrapposizioni a cui la dialettica meridionalistica ci ha abituati, in particolare in questi ultimi anni, l'esigenza più pressante che oggi va corrisposta è quella di tornare alla "fisiologia" dello sviluppo anche nel Mezzogiorno; e anche a fronte di fenomeni di indubbia eccezionalità che, senza per questo essere sminuiti, non devono tuttavia far perdere quel senso della "normalità" (fatta di tensioni e di fermenti, di strutture funzionanti e di inefficienze, di ritardi e di accelerazioni, e via dicendo) a cui le risorse migliori del Mezzogiorno guardano oggi lavorando nella quotidianità, senza fughe in avanti, ma anche senza parassitismi.
Si può ben dire allora che la prima grande asimmetria da ricercare per il nostro Mezzogiorno è, a rovescio, l'uscita da quell'evocazione continua e ripetuta dell'emergenza e del fatto eccezionale da cui sempre meno si può trarre una corretta rappresentazione della realtà economica e dell'anima sociale del Sud.
Si deve prendere atto che, tra aspettative deluse e facili semplificazioni, i modelli di sviluppo del Sud cambiano progressivamente direzione di marcia esaltando i meccanismi di crescita del benessere senza produzione di reddito, ma non riescono ad imprimere adeguata accelerazione alle dinamiche economiche, né a garantire una significativa discontinuità di ritmo nello sviluppo.
In un contesto più ampio in cui si acuiscono i punti di criticità negli equilibri Nord-Sud (allargamento dei gap reddituali, pressione concorrenziale dei Paesi dell'Est, pressione demografica, incerti effetti territoriali dell'integrazione europea, ecc.), è fin troppo naturale che la riflessione avanzi verso il nodo delle politiche da attuare per ricomporre tali divari e dare finalmente senso compiuto al principio della "coesione economica e sociale" ribadito in sede comunitaria. Non si può d'altra parte nascondere che i risultati fino ad oggi ottenuti non siano soddisfacenti per il nostro Mezzogiorno. In particolare, gli ultimi anni segnano un pericoloso regresso nella strada di avvicinamento Nord-Sud; alla riconosciuta inefficacia (almeno parziale) degli ultimi provvedimenti a favore delle aree meridionali si accompagna una sensazione diffusa di inefficienza, cioè di cattivo funzionamento della macchina dell'intervento straordinario, tale da generare uno spreco di risorse con il sospetto, peraltro, di una loro attrazione nei circuiti dell'economia criminale.
Sulle modalità di riformulazione dell'intervento nel Sud si è sviluppato un ricchissimo dibattito, che facendo perno su alcune polarità classiche (fare infrastrutture o incentivare attività produttive; ampliare o comprimere le risorse trasferite; diffondere o concentrare gli interventi; intervento ordinario o intervento straordinario; e così via) ha "ripettinato" i tanti nodi del sistema di intervento, dai principi generali alle procedure concrete di attuazione.
Queste contrapposizioni secche in parte aiutano a delineare i nuovi termini della questione meridionale e in parte però, se non si. introduce un principio ordinatore, rischiano di generare ulteriore confusione. Una strategia coerente di intervento devi comunque porsi l'obiettivo di "sciogliere' tali polarità, piegando verso l'uno o l'altro asse o trovando un efficace mix tra i due.
Rispetto a tali posizioni, l'obiettivo è dare un contributo in termini di orientamento. per la ridefinizione degli interventi a favori del Sud. Suscitare un ulteriore momento di confronto sul tema non significa pretendere di far risolvere il problema Mezzogiorno. La questione è ampia e complessa. Dunque, dall'enunciazione di una serie di principi possono scaturire suggerimenti e spunti per chi complessivamente quel problema (l'inadeguato sviluppo del Sud) deve affrontare.
Primo principio: ristabilire i circuiti dello sviluppo ("ordinarizzare" lo straordinario). Quando si parla di Sud raramente si esce dalla declaratoria dell'eccezionalità; nel senso che ogni fenomenologia, nell'economico o nel sociale, in positivo o in negativo, assume comunque i caratteri della "specialità" o della "straordinarietà", quasi che in ogni dinamica vi sia comunque un germe di patologia da denunciare ad alta voce.
Questa esasperazione favorisce il rafforzamento dei circuiti della lamentazione: di "chi riceve", il quale, reputandosi gravemente malato, sostiene di non ricevere abbastanza piuttosto che compiere uno sforzo di capitalizzazione delle risorse disponibili; e di "chi dà", che, incapace di cogliere i progressi reali del beneficiano e in attesa di un subitaneo e miracolistico recupero del ritardo, lamenta lo spreco delle risorse trasferite. Non mancano ovviamente in larghe aree del Mezzogiorno tratti di eccezionalità, a cominciare dal peso enorme giocato dalle mafie (che peraltro occupano direttamente molta meno "manodopera" locale di quanto comunemente si ritiene).
Ma riportare ogni dato socio-economico al carattere di eccezionalità, come pure leggere la patologia criminale in modo uniforme quando presenta segni evidenti di articolazione, appare fuorviante. In realtà, nel Sud convivono tensioni e fermenti di vario tipo, come in qualsiasi altro sistema territoriale. Certo le tensioni sono largamente prevalenti e questo segna la specificità del ritardo del Sud, ma non si deve dimenticare che anche nel Mezzogiorno operano imprese che, semplicemente, "funzionano" (non stanno cioè né al margine, né sulla frontiera avanzata del mercato), esistono fasce giovanili, seppure minoritarie, che vogliono scommettere su un'avventura imprenditoriale, esistono ospedali o università che hanno "normali" livelli di efficienza, ecc. E' insomma necessario partire da queste realtà già oggi presenti per fare in modo che l'uscita dall'emergenza o, se si vuole, il ritorno alla "fisiologia" divenga una nuova regola di sviluppo; prima che di nuove iniziative straordinarie il Sud ha bisogno di far funzionare al meglio quello che già c'è. Di conseguenza, rispetto all'irrisolto dilemma tra intervento straordinario (potenziato per il Sud) e intervento ordinario (con strutture proprie), si deve studiare l'ipotesi di restituire alle strutture ordinarie, centrali e locali, la definizione complessiva e la gestione delle politiche per il Sud, riservando all'eventuale "specialità" solo la gestione di progetti davvero "speciali": ad esempio, per la nuova imprenditorialità, per la formazione, per la ricerca, e via di seguito.
Secondo principio: riconoscere una nuova centralità allo sviluppo per vicinanza territoriale (sostenere una politica delle "porte del Sud").
La dinamica dello sviluppo del Sud ha sempre marciato, almeno in parte, sui binari della contiguità territoriale. Anche negli anni di più evidente formazione di "macchie" di concentrazione produttiva (anni '70 e primi anni '80), la continuità dello sviluppo territoriale del Sud era rappresentata dal sensibile irrobustimento della cosiddetta "direttrice adriatica", da Teramo al Sud Salento. Attualmente, alla linea adriatica, che va perdendo uniformità, si sovrappone una linea latitudinale che sembra "trasmettere" progressivamente lo sviluppo da Nord e Sud. In questo modello le aree-cerniera possono spendere una posizione baricentrica di grande rilevanza per lo sviluppo dell'intero Mezzogiorno; essere cioè delle vere e proprie "porte" in grado di canalizzare gli impulsi-chiave dello sviluppo (know-how tecnico e imprenditoriale, indotto produttivo, terziario, ecc.) dalle aree ricche del Nord a quelle marginali del Sud. Se una tale prospettiva è ragionevole, si può pensare ad un ruolo specifico da assegnare alle regioni-cerniera quali l'Abruzzo, il Molise, il sud del Lazio e delle Marche, accanto al tradizionale sostegno delle aree più marginalizzate, sostegno che non può essere obiettivo esclusivo, sotto il profilo strategico e della destinazione delle risorse, delle politiche di sviluppo del Sud.
Terzo principio: sostenere la nascita e lo "svezzamento" delle imprese (non si fa sviluppo con le sole infrastrutture).
La maggior parte degli osservatori e degli esperti del Sud sostiene oggi la necessità di destinare la quota più consistente degli aiuti di cui il Sud può disporre per colmare il gap infrastrutturale ora esistente nei confronti del Centro-Nord. Una opzione così chiara finirebbe con ogni probabilità per penalizzare il sostegno alla nascita di nuove imprese e al rafforzamento del tessuto produttivo già esistente. Ma il rimpicciolimento dei punti vitali del Sud pone un problema urgente di far sopravvivere e far "condensare" le aziende non interconnesse, le quali operano in contesti difficili per la carenza di sinergie produttive, di servizi di base, di risorse finanziarie, e spesso anche delle stesse aree di insediamento.
Questa esigenza è forse più interessante dello stesso potenziamento dell'armatura infrastrutturale del Sud, pure necessaria in un'ottica di superamento delle tradizionali diseconomie esterne del Mezzogiorno. E' allora questa una delle polarità per le quali è necessario pensare un mix equilibrato di aiuti eventualmente destinando, come viene proposto da taluni, risorse aggiuntive "ordinarie" per gli interventi infrastrutturali e risorse "straordinarie" per gli incentivi alle imprese.
Quarto principio: assumere la regola dell'intreccio tra solidarietà selettiva e responsabilità possibile per le aree più deboli (per un sociale "promozionale").
La recente forte contrapposizione tra fautori della redistribuzione delle risorse a favore delle aree deboli e sostenitori di una completa chiusura dei meccanismi compensativi deve trovare in futuro, ma in un futuro non troppo lontano, un nuovo punto di convergenza nel momento in cui si definisce una strategia di intervento. Questo momento di sintesi non può che esplicarsi nel contestuale riconoscimento dei due principi fondamentali della "solidarietà" (ribadito anche in sede comunitaria) e della "responsabilità". Perché la solidarietà non torni ad essere puro assistenzialismo è necessario che essa marci sui binari di regole e criteri selettivi: rispetto a chi deve usufruire dell'aiuto (graduazione degli interventi), rispetto alle modalità attraverso cui le risorse devono venire utilizzate dai beneficiari (monitoraggio delle spese), rispetto ai soggetti che devono istruire e gestire gli interventi (verifica di affidabilità dei soggetti locali).
Specularmente, affinché la responsabilità non diventi "abbandono al proprio destino", è necessario che si introduca un principio di recupero delle risorse a livello locale che automaticamente ponga il plafond delle spese combinandole con risorse aggiuntive redistribuite dalle aree più ricche. L'applicazione di questo principio, estensibile in generale alle politiche per il Sud, acquista significato particolare per le aree maggiormente depresse (il "Sud del Sud") e per le situazioni di più elevato disagio sociale. Partendo dal presupposto, più volte ribadito, che il Sud non è un corpo estraneo al Paese, ma una struttura invariante del nostro sistema economico e sociale che va promossa e sostenuta, l'idea di far crescere i livelli di responsabilità delle aree più deboli, accompagnandoli adeguatamente con un'azione di solidarietà redistributiva, può essere un efficace metodo per fornire chances di riscatto senza creare alibi per la perpetuazione colpevole di una posizione di "rendita da sottosviluppo".
Quinto principio: saldare e potenziare i circuiti vitali dello sviluppo (agire su più livelli).
La vera difficoltà nell'affrontare la questione dello sviluppo del Sud risiede negli intrecci e nelle interrelazioni che si riscontrano tra debolezze del tessuto economico reale, dipendenza dai circuiti finanziari esterni e impatto dei problemi di ordine socio-culturale. Affrontare separatamente questi tre livelli (lo sviluppo reale, lo sviluppo finanziario e lo sviluppo socio-culturale), a fronte della complessità dei problemi che da ciascuno di essi deriva, non è oggi pensabile; il mancato decollo economico del Sud, così come di ciascuna area economica depressa al suo interno, trova alimento negli insufficienti equilibri sociali e nell'inadeguata qualità culturale che il tessuto civile è in grado di esprimere. Il vincolo ultimo alla crescita globale di un debole sistema sta proprio nella dinamica saldatura tra le diverse sfere dell'economico, del sociale, dell'istituzionale, del culturale che animano la convivenza collettiva. Si pensi in proposito, tra le tensioni ricordate, quanto la particolare cultura del lavoro presente oggi nel Sud, con la spinta debolissima all'iniziativa imprenditoriale e alla mobilità, condizionino l'apertura di una fase di rilancio di un modello autopropulsivo di sviluppo. Il principio di saldatura e potenziamento dei circuiti vitali dello sviluppo trova una concreta declinazione nel triplice obiettivo di:
- definire i modelli di riferimento verso cui si vuole far tendere il sistema e su questa base individuare i deficit funzionali in termini di risorse (questa è l'operazione tipica di "saldatura" dei circuiti);
- canalizzare e valorizzare le risorse latenti che sono già presenti nel sistema;
- attivare gli strumenti necessari per attrarre risorse qualificate esterne che contribuiscano alla ricomposizione dei divari strutturali dell'economia siciliana e sarda (con specifica attenzione all'efficacia e alla selettività degli strumenti stessi).
Sesto principio: applicare la regola della "semplificazione" (oltre la "sportellizzazione").
"Semplificare" deve diventare la regola aurea per uno sviluppo del Sud non distorto e trasparente. Semplificare significa:
- concentrare le risorse su pochi servizi strategici per le imprese, velocizzando le modalità di erogazione degli stessi;
- ridurre gli sportelli di erogazione dei servizi, nella misura in cui essi non risultano effettivamente funzionanti o perseguono finalità loro sovrapposte;
- dar corpo ad una ricostituzione di quei servizi "semplici", lo spazio attrezzato, il credito, le informazioni di base, l'assistenza al disbrigo delle pratiche burocratiche, ecc., chi sono l'ossigeno necessario per le imprese meridionali faticosamente aggrappate al mercato, molto di più di quanto non lo sia il "terziario consulenziale", sofisticato ed oneroso.
Il principio della semplificazione è, tra quelli indicati, uno dei criteri-guida per governare lo sviluppo europeo, nelle aree deboli come in quelle forti, con l'obiettivo di far crescere un sistema sempre più efficace nella corresponsione dei bisogni degli utenti e sempre più efficiente nella definizione degli strumenti e delle procedure.


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