§ I bambini e la famiglia

Decalogo per l'infanzia




Vincenzo Menichella



E' ancora la famiglia il luogo migliore per allevare i bambini?
La domanda è sicuramente provocatoria, specie per chi è legato alle tradizioni, alle frasi del tipo: è più valida la peggiore famiglia del migliore istituto.
La risposta naturalmente non è semplice e certamente non è valida per tutti i bambini e per tutte le età.
Lo studio va articolato tenendo conto dei seguenti elementi:
1) Evoluzione della famiglia dall'epoca preindustriale a quella industriale e post-industriale (struttura, ampiezza, funzioni, con particolare riguardo alla funzione assistenziale per i minori e gli anziani).
2) Struttura, funzioni, validità delle comunità o comunque delle istituzioni che si sono avvicendate nei tentativi di sostituire la famiglia.
3) Conclusioni in rapporto all'età, alla salute, alle condizioni sociali e familiari dei minori.

Evoluzione della famiglia
Notevole, anzi radicale, è il mutamento dell'ampiezza, della struttura e delle funzioni della famiglia dall'epoca pre-industriale ad oggi.
Anche se non si può fare (per la natura di questo intervento) una storia dell'istituto familiare, né delle teorie sulla genesi della famiglia occidentale pre-industriale, non si può però prescindere, per una esatta comprensione della storia delle istituzioni di consulenza e di assistenza alla famiglia, da una valutazione dell'evoluzione della famiglia nel corso dell'ultimo secolo.
La famiglia occidentale dell'epoca pre-industriale è caratterizzata dal racchiudere in sé, inscindibilmente, i valori della procreazione, della sessualità e del matrimonio.
Le sue origini sono nella famiglia agnatizia romana, nella famiglia ebraica, nel Cantico dei Cantici, ed in particolare nel modello della Sacra Famiglia; l'aspetto agnatizio è mitigato, specie nei popoli di cultura germanica, dai valori dei legami cognatizii, il che spiega, presso quei popoli, la maggiore autonomia della donna.


In questo tipo di famiglia la consultazione sui problemi familiari era svolta con la collaborazione del sacerdote, del medico di famiglia ma, in gran parte, nasceva dalla saggezza degli anziani (cioè il consultorio era nella famiglia).
Naturalmente i problemi che affioravano erano pochi e le soluzioni prevedibili e conformiste.

Epoca industriale
La società industriale è caratterizzata dalla migrazione dei nuclei verso le zone di attrazione; mentre nelle zone di fuga si ha depopulazione ed invecchiamento dei nuclei, nelle zone di attrazione i nuovi nuclei si caratterizzano così:


Si ha così una perdita di funzioni con trasferimento, a volte delle stesse a strutture pubbliche e, a volte, con vera e propria scomparsa della funzione.


Si modificano di conseguenza anche i valori gerarchici.


E cambiano la condizione e i ruoli dei membri. Vediamo in particolare quello della donna.


Ma all'epoca industriale fa seguito un'epoca post-industriale, caratterizzata oltre che dalla preminenza delle attività terziarie e cioè dei servizi anche da:


Numerose sono in tale epoca le cause di fragilità familiare.


Di particolare interesse è la trasformazione dei concetti relativi alla procreazione e alla sessualità:


Nell'epoca preindustriale, in sintesi all'inizio del secolo, la famiglia era agnatizia, patriarcale, plurinucleare (convivenza di più generazioni) con unità tra luogo di lavoro ed abitazione, i figli erano una fonte di ricchezza e di prestigio, le funzioni familiari molteplici:
a) trasmissione di religione e riti, patrimonio e risparmio familiare;
b) assistenza ai membri incapaci (bambini, vecchi, minorati);
c) attività pedagogica (modelli familiari, apprendistato);
d) difesa del nucleo.
Con l'epoca industriale, mentre nelle zone di fuga si ha una depopulazione ed un invecchiamento dei nuclei, nelle zone di attrazione migratoria i nuovi nuclei cedono allo Stato e comunque a strutture extrafamiliari i compiti relativi al capitale di lavoro, al risparmio, alla previdenza, all'assistenza ai membri incapaci, all'istruzione e di conseguenza vengono sbiaditi anche i modelli materno e paterno perché i genitori vivono con i figli, nel migliore dei casi, solo i momenti di riposo e non quelli significativi del lavoro. i figli divengono responsabilità e non investimento.
Nascono, specie per il lavoro extradomestico della donna, necessità di nidi e di ospizi per vecchi. Le cause di fragilità della famiglia nella nostra epoca sono nella esiguità delle sue strutture, nella mancanza di funzioni, nelle scarse capacità assistenziali, nella svalorizzazione della gerarchia, nelle motivazioni solo affettive e sessuali delle unioni, e nella idealizzazione, da parte di forze politiche e mass media, dei ruoli sociali extradomestici. Vengono allontanati dalla famiglia anche i membri normali in condizioni di bisogno (nidi di infanzia, ospizi per vecchi); vengono rifiutati anche i futuri membri perché bisognosi di assistenza (contraccezione, aborto).
Le previsioni sull'avvenire della struttura e dell'ampiezza della famiglia sono state elaborate dall'ISTAT. Si parte da una fecondità bassissima in Italia, la più bassa di tutto il mondo (1,32 figli a donna) scavalcando in circa 35 anni i Paesi tradizionalmente a più bassa natalità (Inghilterra, Svezia, Germania, Austria, Svizzera) e si fanno 3 previsioni: la media, la massima e la minima:


Una visione mondiale del fenomeno, secondo una previsione media (medium variant) può essere la seguente:


I primi dati tendono però a smentire le previsioni dell'OMS; si è toccata in Italia nel 1991 la cifra record di 1,27 figli a donna e, a mio parere, il dato tenderà ad abbassarsi ulteriormente, perché è un dato molto composito; vi sono regioni con valori sotto 0,8 (Liguria) e regioni ancora al di sopra di 2-2,2 (Campania, Puglia); vi sarà, come è avvenuto per tutti i fenomeni, una assimilazione del Sud alle regioni più ricche; pertanto, non solo siamo ora la regione a più bassa natalità del mondo, ma ci staccheremo molto dagli inseguitori. Il Nord Italia fa ora circa la metà dei figli degli altri Paesi europei e degli Usa. Come è avvenuto altrove, alla lunga il fenomeno si invertirà, ma pensare che nel prossimo futuro ci possa essere un bambino con un fratello èuna illusione.
In complesso, nei popoli ad elevato sviluppo, il tasso di fecondità è circa una volta e mezzo quello italiano e circa due volte quello dell'Italia del Nord. L'allarme è stato già lanciato dall'Accademia dei Lincei, dalla Fondazione Agnelli nel 1990 e ultimamente dai vescovi italiani, in occasione della giornata per la vita. I vescovi propongono una politica della famiglia con revisione degli assegni familiari, facilitazioni di accesso alla casa, tutela della donna lavoratrice e provvedimenti a favore delle casalinghe e delle famiglie monoreddito, con sgravi fiscali.
La ricerca delle cause di questa particolare denatalità italiana è molto difficile. Non può trattarsi di infertilità o di sterilità, perché il numero dei matrimoni senza alcun figlio è di circa il 15% sul totale dei matrimoni (273 mila primogeniti su 321 mila matrimoni); sempre dell'85% era nel 1960 ed era addirittura dell'80% nel 1932 (Tagliacarne).
L'indice di nuzialità è sceso verticalmente in Italia dal 1960 al 1991 (da 7,7 a 5,3 / 1000 abitanti), così come in Francia ed ancor più in Germania (dal 9,5 a 5,7), ma tale fenomeno può, in parte, spiegare la diminuzione del numero dei nati nel Paese, ma non la diminuzione del numero di figli a coppia, che è il fenomeno più appariscente italiano.
L'Italia è tra i Paesi con discreto livello di provvidenze per la donna lavoratrice; si pensi che solo ora, sotto l'amministrazione Clinton, negli Stati Uniti una madre può godere della conservazione del posto per tre mesi di assenza post-partum e senza retribuzione; da noi da molti decenni (nelle forme attuali dal 1971) tale diritto esiste e con retribuzione. Più favorevole della nostra è solo la legislazione inglese, con 40 settimane complessive di riposo di maternità, di cui 30 post-partum. Non altrettanto favorevole è da noi l'assistenza economica alla maternità e alla famiglia (calcolata in potere di acquisto standard, l'Italia elargisce per la maternità e l'allevamento di figli inferiori a 15 anni una somma che è circa un terzo di Danimarca, Inghilterra e meno della metà di Germania e Francia; i risultati si potrebbero vedere in un confronto tra Italia ed Inghilterra in rapporto alla percentuale di primogeniti sul totale dei figli:


L'età media delle spose è aumentata di un anno dal 1960 al 1990 (da 25,1 a 26,1), altrettanto si è innalzata (da anni 25,8 a 26,7) l'età di primiparità, ma nel complesso il picco di maternità complessiva (tasso di fecondità in rapporto all'età) è più spostato (circa 29 anni).
Si potrebbe pensare che con il diffondersi delle tecniche contraccettive il numero dei figli risponda al desiderio di autolimitazione della coppia, ma una indagine multiscopo sulle famiglie dell'ISTAT svolta attraverso un questionario somministrato a donne da 15 a 44 anni mostra che almeno per le donne si ha realmente un numero di figli inferiore al numero considerato ideale, al numero desiderato e al numero concretamente programmabile.


Vi è corrispondenza tra il numero di figli che si hanno nella realtà e il numero di figli ritenuto ideale, desiderato e ritenuto programmabile per quel che riguarda gli aspetti regionali; in pratica le regioni dove si fanno meno figli sono anche quelle in cui meno si ama e si idealizza la maternità e sono anche quelle a maggior lavoro extradomestico della donna, ma in ogni caso sia nelle regioni con meno figli sia in quelle con più figli (gli estremi sono Liguria e Campania) si finisce con l'avere molti meno figli di quanti siano ritenuti ideali, desiderati e programmabili. Certamente le difficoltà di allevamento del primo figlio giocano successivamente un ruolo negativo.
In sintesi, il 44,3% delle donne interpellate ha meno di 2 figli, mentre solo il 21,5% desiderava averne così pochi.


Bisogna però pensare che non abbiamo un numero di lavoratrici extradomestiche maggiore di altri Paesi occidentali, anche se il lavoro nell'industria e nel commercio da noi è molto più recente (le grandi migrazioni interne sono tra gli anni '50 e '70) e l'organizzazione sociale della nuova famiglia è ancora incerta.
Da noi gioca anche sfavorevolmente la rigidità degli orari di lavoro. Il part-time è stato a lungo avversato da imprenditori e sindacati, cosicché nel 1989, mentre a part-time in Europa era il 28,8% delle lavoratrici, con punte del 58,3% in Olanda, del 43% in Gran Bretagna e del 40,6% in Danimarca, in Italia la quota era del 10%. Sembrerebbe da questi dati che la percentuale di part-time sia in rapporto con il maggior avanzamento della legislazione sociale.
E' anche sfavorevole la rigidità del mercato del lavoro, specie nell'impiego comunale, statale, parastatale, bancario; qui si conquista un posto per tutta la vita e se lo si lascia per 2-3 anni per fare la madre non lo si afferra più! In sintesi, o si fa la madre o si mantiene il posto.
Dovrebbe giocare un certo ruolo anche la diffusione in Italia del lavoro nero, che non è accompagnato da provvidenze sociali; si tratta di donne che debbono tornare a lavorare appena dopo il parto!
Le separazioni personali sono circa il 22% dei matrimoni nel Centro-Nord ed il 9% nel Mezzogiorno e per circa il 75% sono separazioni che avvengono nell'età feconda della donna (sotto 39 anni), ma si tratta di problema comune ad altri Paesi (Inghilterra, Germania, Olanda, Danimarca, Francia ed anche, nel suo complesso, l'Europa, hanno più interruzioni di matrimoni dell'Italia); i procedimenti sono però molto più frequenti, in Italia, nelle regioni a più bassa natalità e comunque sono circa raddoppiati negli ultimi 10 anni.
Una certa influenza sulla denatalità può avere una legislazione sulla interruzione volontaria della maternità tra le più liberali; ma non è affatto detto che i circa 160.000 aborti legali l'anno sarebbero stati dei neonati, e comunque negli ultimi 10 anni il fenomeno è in diminuzione, mentre la denatalità è aumentata. il tasso di aborti è ugualmente elevato in Inghilterra, Olanda e Francia, mentre la spiccata denatalità è la nostra (tasso di fecondità di 1,26 contro 1,7 medio di questi tre Paesi).
Anche se, come medico, ho in orrore l'aborto volontario, non intendo approfittare della denatalità per appoggiare le mie tesi!
Certo, una famiglia nucleare, come la nostra, per povertà di rapporti e problemi logistici svolge con estrema difficoltà i compiti di allevamento ed istruzione dei figli. Unico vantaggio è che forse si potranno meglio recuperare i nonni, trattandosi di nonni con un solo nipote, sempre che vi sia una idonea ubicazione delle abitazioni; le nostre città tendono a disperdere le famiglie e non ad aggregarle. Se le due abitazioni sono vicine, una figlia unica, a sua volta con un figlio solo, per di più avuto in relativamente tarda età, potrà meglio assicurarsi l'assistenza dei nonni.

LE COMUNITA'
A parte le tradizionali comunità religiose, che partivano comunque anche esse da un rifiuto della struttura sociale e della famiglia, che ne era il perno, comunità di sostituzione della famiglia si sono tentate (Fourier e Owen) nel secolo scorso nel Nord America. Analogamente nella Russia, nei periodi rivoluzionari, accanto ad una codificazione libera dell'istituto familiare (Codice della donna, della famiglia, del matrimonio del 1917 ed analogo del 1927) si sono tentate delle esperienze comunitarie (le dom Kommuna). Sempre in periodi rivoluzionari, in Cina vi sono state le comunità dei villaggi ed in Israele le ben più note esperienze dei Kibbutz.
Nel complesso le comunità possono essere così suddivise:
1) Comunità di alcune popolazioni (studi antropologici ed etnologici), in cui i figli sono allevati in comune da tutti i genitori (Mead). L'ambiente è troppo diverso dal nostro per trarne insegnamenti e confronti.
2) Comunità basate sul desiderio di rottura con il sistema capitalistico in una vaga aspirazione ecologica, spesso basata su nuovi sistemi di agricoltura o di un vago ritorno all'artigianato. Interessano poco il nostro studio perché non necessariamente mettono in discussione la coppia o il gruppo familiare, che viene integrato e non annullato dalla comunità. in genere i figli vengono allevati dai genitori.
3) Comunità "culturali", di attori ambulanti, di scrittori, di pittori. Esperienze particolari.
4) Comunità di religiosi (conventi, monasteri), in genere con voto di castità e perciò senza problemi per l'allevamento dei figli; altre comunità ad impronta mistica o comunque religiosa in cui predominano spesso gli influssi orientali; a volte con rifiuto dell'attività sessuale, della coppia e della famiglia.
5) Comunità per la libera sessualità (anche omosessualità), rifiuto della coppia, della famiglia e di figli.
6) Comunità assistenziali. Si tratta di istituzioni che nascono in contrapposizione con brefotrofi ed orfanotrofi tradizionali e che cercano di imitare la famiglia, creando gruppi pseudo familiari in una struttura comunitaria, con padri e madri putativi (comunità di Don Zeno, gruppi famiglia di Descovich, gruppi famiglia di Narni, etc.). La famiglia non viene qui negata, viene imitata. Nella mia attività assistenziale mi sono trovato spesso a dover scegliere per un bambino tra una di queste comunità ed una famiglia affidataria ed ho deciso in base all'età del bambino ed al prevedibile tempo della carenza del nucleo familiare originario. La comunità integra più facilmente, crea distacchi meno traumatici, permette un maggiore fiancheggiamento e controllo da parte dei pubblici servizi, ma ha una maggiore fragilità e la necessità di forti motivazioni oblative da parte di chi vi si dedica.
Le comunità terapeutiche (ad es. per tossicodipendenti) non interessano il nostro studio perché si occupano di problemi di soggetti al di là del periodo infantile.
7) Comunità nate da preoccupazioni sociali ed educative, basate più sulla creazione di servizi comuni per le varie famiglie che su negazione della famiglia; sono comunità che ricercano la collaborazione delle autorità locali.
8) Comunità con rifiuto della società che vogliono creare un mondo diverso con mitizzazione della vita del fanciullo (ad es. Hippies). Sono comunità che si spingono avanti nella ricerca di nuove forme di vita; le loro esperienze che appaiono "utopie vissute" sono sicuramente interessanti.
9) Comunità a chiara impronta politica, spesso rivoluzionaria. Si tratta ad esempio delle "dom Kommuna" o dei Kibbutz, di cui in premessa abbiamo accennato, e che forse rappresentano gli esempi più realizzati della sostituzione dell'istituto familiare. Però la persona (Bartolehmy) che più autorevolmente si occupò delle Maisons des Enfants dei Kibbutz, pur confermando le esperienze positive, sottolinea che la "Maison des Enfants" del Kibbutz ha senso solo nel Kibbutz ed è in certa misura valida solo nella prospettiva di vita dello stesso.
Ora i Kibbutz non si sono ulteriormente estesi in Israele; persino nel settore agricolo, culla del Kibbutz, vi sono ben altre quattro forme di organizzazione (Moshab obedim, Moshab, Moshab shitufi, Moshabad), tutte pianificate, ma con ruoli familiari molto più conservati. Neppure l'alta spiritualità di dette forme associative e gli aspetti della vita collettiva alla fine hanno teso a sostituire la famiglia. Se poi si guarda al Kibbutz, si deve riconoscere che la famiglia non viene negata, ma anzi esaltata; i bambini sono tenuti in comune dalle anziane della comunità, alla sera però al ritorno dei genitori si svolge il momento più significativo della giornata; la figura dei genitori viene perciò esaltata: avviene cioè la sostituzione di alcune funzioni della famiglia, non la negazione della famiglia.
Naturalmente ho del tutto trascurato di parlare di quelle forme di comunità tradizionali che sono i collegi e gli orfanotrofi per il ben noto fallimento di dette istituzioni nel compito di sostituzioni integrali delle famiglie, mentre una certa funzione possono avere se usate in aiuto di famiglie bisognose e scarsamente integrate.
Nel complesso, le comunità (anche quelle elencate al comma 9) non si sono dimostrate in grado di sostituire la famiglia e di corrispondere ai desideri dei genitori.

Servizi d'integrazione della famiglia: i nidi
Oggi il sistema più comune di assistere durante il giorno (specie durante le ore in cui i genitori, ed in particolare la madre, sono addetti al lavoro extradomestico) i bambini al di sotto dei 3 anni è il nido. Naturalmente non si pone affatto in questa nostra relazione il problema delle necessità per bambini al di sopra di 3 anni di socializzare con coetanei e di acculturarsi, sia per la disponibilità e la tradizionale validità di questi servizi. Indipendentemente dall'esistenza o meno di un nucleo familiare valido, nessuno penserebbe mai di non mandare i bambini a scuola!
Tornando ai nidi, dobbiamo dire che in Italia, già una trentina di anni fa, l'ONMI ne aveva creato circa 500, ma si era sempre trattato di nidi assistenziali, utilizzati cioè per particolari situazioni di emergenza. I movimenti politici hanno teso invece al nido per tutti, al nido come servizio sociale; il piano quinquennale di sviluppo 1963-68 e l'UDI facevano programmi per molte centinaia di migliaia di bambini nei nidi, al di sopra del numero dei bambini delle stesse madri lavoratrici extradomestiche. Il nido veniva concepito come una tappa obbligata della socializzazione del bambino, e tra l'altro, liberando la madre, era fattore determinante anche della socializzazione materna! Iniziai una campagna nel 1967, sul periodico dell'ONMI, contro tali tesi, ma nel 1971 venne la legge per il contributo pubblico per la costruzione e la gestione degli asili nido.
Quello che era più sconcertante, sia nel piano UDI sia nel piano quinquennale di sviluppo, sia nella legge del 1971, erano le previsioni di spesa di gestione, assolutamente ridicole, da una decima parte ad una quinta parte della realtà.

Frequenza dei bambini nei nidi
Abbiamo a disposizione il numero degli assistiti e le giornate di presenza degli stessi. La prima osservazione che possiamo fare è che le assenze sono frequentissime; se si calcola che i nidi hanno un minimo di 250 ad un massimo di 310 giorni l'anno di apertura, in Italia le giornate di frequenza di un assistito sono in media 128,8 e cioè meno della metà comunque delle giornate di apertura del nido. Le assenze sono dovute in gran parte a ragioni di salute del bambino (possono esservi alcuni casi dovuti a ragioni di salute delle madri, a permessi della stessa dal lavoro, a turni di lavoro notturni al di fuori degli orari di apertura del nido). Nei nidi delle regioni molto fredde sia per la maggiore frequenza delle malattie dell'apparato respiratorio, sia per non far uscire il bambino in condizioni climatiche sfavorevoli, la frequenza è più bassa. Alcuni esempi:


Le altre regioni hanno frequenza più elevata:


Al Sud la sola Campania ha frequenze pari alle regioni fredde (circa 102), forse per lavoro saltuario delle madri.
Stando ai bilanci ufficiali dei Comuni, la spesa per ogni posto nei nidi dovrebbe essere di circa 10 milioni, che divengono 20 se si calcola in rapporto ad un bambino effettivamente presente (date le assenze di cui abbiamo parlato). Poiché appena due anni prima (nel 1985) la spesa era di 6.239.000 dovremmo ritenere che nel 1993 la spesa non possa essere assolutamente inferiore a 16-18 milioni a posto e cioè oltre 30 milioni a bambino presente (sia negli ospedali che negli istituti assistenziali la retta si calcola a bambino effettivamente presente). Le spese sono diverse a seconda delle varie regioni; più basse in Emilia-Romagna, massime a Roma. A carico dell'utente vi è spesso una quota che difficilmente supera il 10% della spesa reale.
Se il nido dovesse divenire un servizio per i figli della maggior parte delle donne lavoratrici, converrebbe lasciare i figli con le madri a casa continuando a pagare gli stipendi e non facendo ammalare i bambini!
Torniamo alla salute dei bambini. Le ultime ricerche avvalorano sempre più l'importanza dei nidi per una patologia infettiva: frequenti circa 3 volte rispetto ai bambini allevati a domicilio sono le affezioni faringee, bronchiali, broncopolmonari, 5 volte maggiori le infezioni da hemophilus (causa tra l'altro anche di meningiti); diffusissimi il citomegalovirus e la giardiasi; sembra siano anche molto più rappresentate le affezioni asmatiche.
Per ciò che concerne l'aspetto psicologico, i difensori del nido parlano di socializzazione precoce; non ho mai visto una socializzazione tra le culle, perciò fino ad un anno e mezzo non vi può essere vantaggio dalla frequenza in un nido. Dopo il 18° mese dipende dalla validità relativa dell'istituzione e dell'ambiente familiare: il nido potrebbe essere valido se la famiglia non lo è! E' solo a 3 anni che domina l'esigenza di socializzazione. Da quanto detto si evince che non dovrebbero esistere nidi per bambini sotto 18 mesi, salvo che per gravi e transitorie emergenze assistenziali (altro che il nido per tutti!); ve ne dovrebbero essere pochi e ben fatti, sempre per prevalenti ragioni assistenziali da 18 mesi a 3 anni e vi dovrebbe essere la scuola materna per tutti!
Oltre ai prolungati sussidi di maternità (12-18 mesi), si dovrebbero valorizzare le nonne (spesso non si vogliono affidar loro i bambini perché li ... viziano! Mai un atto di cattiveria più crudele è stato fatto nei confronti dei figli e dei vecchi!). Si potranno poi fare dei cauti esperimenti di nidi di palazzo: una famiglia controllata dai servizi sociali può tenere 3-4 bambini a costi sicuramente inferiori a quelli dei nidi, a tasso di infezioni molto ridotto rispetto a questi e con rapporti affettivi sicuramente più personalizzati.

L'ambiente familiare è ancora il più sicuro?
E' chiaro che i soggetti cui si riferisce l'esigenza di sicurezza siano i bambini, anche se la sicurezza degli adulti è a sua volta un elemento della sicurezza del bambino.
Quanto alla definizione di sicurezza non vi è dubbio che dobbiamo riferirci all'esigenza di impedire danni al bambino di qualunque tipo. Esemplificando:
- prevenzione delle malattie, specie se invalidanti;
- prevenzione degli incidenti;
- prevenzione dei maltrattamenti (abuse child);
- prevenzione dell'abbandono e della trascuratezza affettiva (neglect child) e comunque prevenzione dei danni sulla psiche, l'affettività, il carattere.
Per quanto riguarda la prevenzione delle malattie la famiglia è stata finora il luogo più idoneo e si deve presumere che lo sarà ancora; persino il bambino che prima si ricoverava in ospedale si tende ora a curare a casa o in day hospital.
L'elevata patologia dei nidi contrasta anche con la finalità del nido, che è spesso quella di permettere alle madri il lavoro extradomestico. Per quanto riguarda la prevenzione degli incidenti la famiglia non mostra avere una vera azione protettiva. Lo scarso interesse che, fino a qualche anno fa, hanno destato gli oltre 10.000 morti l'anno in Italia per incidente domestico e del tempo libero, di cui oltre 6.000 proprio fra le pareti di casa, deriva principalmente dalla mancanza di contenzioso assicurativo e giudiziario. Gli incidenti stradali causano un po' meno morti (circa 9.000) e quelli del lavoro da 2.000 a 8.000, ma questi e quelli hanno sempre un ente tenuto a risarcire: investitore, assicurazione, datore di lavoro; sono interessati sindacati, avvocati e stampa. L'incidente domestico non ha responsabili, oltre la vittima o, in caso di minori, i familiari della vittima, che dovrebbero perciò, come esercenti la patria potestà, fare causa a se stessi: l'incidente perciò avviene (come un magistrato concluse in una istruttoria per la morte di un bambino) per colpa della vittima!
Solo recentemente l'incidente causato da prodotti difettosi ha trovato interesse con la direttiva CEE (1985) sulla responsabilità oggettiva del produttore (recepita in Italia nel 1988), ma riguarda unicamente la difesa del consumatore; la quasi totalità degli incidenti domestici rimane priva di contenzioso e di copertura assicurativa.
L'esperienza degli altri popoli dimostra che le vie principali della prevenzione sono due: la legislazione adeguata e l'educazione della popolazione attraverso i mass media e la scuola.
Due sono le considerazioni che permettono di essere ottimisti sui risultati di un'opera di prevenzione ben organizzata: i risultati degli altri Paesi e la tipicità della gran parte degli incidenti.
I mass media non dovrebbero limitarsi ad agitare il problema, ma programmare degli spots ripetitivi, organizzando annualmente campagne su singoli problemi (ustioni, pericoli da cadute, annegamenti) e verificandone con osservazione epidemiologica i risultati; la scuola, in attesa che si possa giungere ad un insegnamento "salute e sicurezza" nelle scuole di ogni ordine e grado, dovrebbe dare spazio al problema, sia nei programmi e nei libri di testo, sia in attività parascolastiche ed in incontri con i genitori. Si hanno ora dei dati incoraggianti. Le morti per incidenti domestici, che erano state 1.673 tra 1 e 14 anni, e cioè a tasso molto elevato (14,7 su 100.000) nel 1951, si erano attestate negli anni '60-'80 ad un tasso di 7-9 per centomila; una rapida diminuzione hanno subito in questi ultimi anni fino ad un tasso di 2,8 nel 1988, con 273 morti. La situazione attuale colma in larga misura il gap che avevamo nei confronti di Paesi come l'Inghilterra, la Svezia, l'Olanda, la Danimarca. La diminuzione va attribuita in parte alla notevole attività di informazione fatta in questi ultimi 10 anni, per iniziativa dell'I.S.S., di molte Regioni ed in questi ultimi tre anni dalla Commissione per la prevenzione degli incidenti domestici, presieduta dal sottoscritto, presso il ministero Affari Sociali; ha influito anche un certo fermento legislativo, sia italiano che comunitario, ma probabilmente il maggior beneficio si è avuto per la diminuzione di figli per le singole coppie (attualmente 1,3), che rende più agevole la sorveglianza dei bambini.
Nonostante tali notizie incoraggianti, bisogna però dire che gli incidenti rimangono la più elevata causa di morte da i a 14 anni, e meritano la massima attenzione da parte di medici, genitori, educatori, dirigenti politici ed operatori dell'informazione. Si tenga conto che gli incidenti per ogni decesso provocano circa 3 invalidi permanenti, il che moltiplica ancora l'impatto sociale di questi eventi.
I maltrattamenti in casa sono purtroppo frequenti. Negli Stati Uniti circa 2.000 bambini l'anno muoiono e 6.000 rimangono invalidi per maltrattamenti gravi da parte dei genitori; la sindrome di Kempe è conosciuta dal 1962. Anche in Italia la cronaca registra numerosi casi e la gran parte sfugge ad ogni censimento perché la caratteristica della famiglia è di chiudere nel suo interno ogni problema; l'abuso sessuale a carico di minori per il 50 per cento avviene in casa e per un altro 45% ad opera di parenti o amici della famiglia. Però mettere i bambini nelle istituzioni non li preserva certamente. La cronaca è piena di episodi terribili nelle istituzioni per l'infanzia ed in particolare negli istituti per subnormali.
L'abbandono, una volta molto più frequente, viene curato con l'adozione, cioè con un'altra famiglia o con l'affidamento familiare. E' sintomatico che, nonostante le difficoltà dell'istituto familiare, gli esperti trattino questi casi limite proprio con un'altra famiglia, non essendovi tuttora niente di meglio. Salvo casi di grave patologia familiare, l'igiene mentale (conformemente al parere degli esperti OMS) viene garantita in famiglia.

Conclusioni
La famiglia è ora molto contestata, anzi non è mai stata così radicalmente contestata, ma è ancora il luogo di rifugio affettivo e di mantenimento subconscio di alcune realtà tradizionali, anche se la gran parte delle sue funzioni è perduta; il matrimonio resiste anche se è mutato nei rapporti gerarchici.
Il problema è di sapere se, nonostante la perdita di funzioni, la famiglia rimarrà il posto in cui si trovano riuniti procreazione, sessualità ed amore. Se la famiglia in quanto istituzione sociale tenta di controllare rigidamente la coppia diviene impossibile la scoperta di nuovi rapporti necessari a vitalizzare l'istituto. Naturalmente questa famiglia dovrà attenuare la sua funzione stabilizzatrice sociale, eliminare la gerarchia nel rapporto maschio-femmina e nei rapporti generazionali.
Sul fronte assistenziale per i bambini, si dovranno trovare delle soluzioni, a spese, almeno parziali, della comunità, per consentire un allevamento dei figli senza annullare (ma solo deprimendo in maniera accettabile) il desiderio di realizzazione extradomestica dei genitori ed in particolare della madre. Senza sacrifici nulla si fa!
i padri dovranno dare sempre di più la loro opera per l'allevamento dei figli, come già comincia ad avvenire, le madri dovranno contentarsi che sia loro conservato un lavoro extradomestico, specie ad "orario parziale", la società dovrà porre a suo costo un lungo periodo di allontanamento della madre dal lavoro a parziale retribuzione. Dovranno essere favorite forme di associazioni comunitarie, ma tra famiglie, rivalorizzato il ruolo degli anziani nella custodia dei nipoti e favoriti dei micronidi di palazzo.
Sarà necessario portare nelle scuole un corso di salute e sicurezza che prepari il cittadino e perciò i genitori nei problemi di puericultura, di psicologia ed educazione dei figli, nella prevenzione delle malattie infettive e sessuali, nella prevenzione dei tumori, delle tossicodipendenze, del tabagismo e dell'alcolismo, nella prevenzione degli incidenti domestici e stradali.
Sarà altresì indispensabile fiancheggiare le famiglie (si ricordi che sono tutte famiglie inesperte quasi sempre al primo ed unico figlio).
In altri Paesi la natalità è ripresa; forse avverrà anche da noi con provvedimenti sociali ed urbanistici intelligenti e con una diversa cultura per quel che riguarda l'aborto ed una nuova politica del lavoro.
Non va abolito lo stato sociale, va trasformato; bisogna spendere meglio di quanto si faccia oggi con i servizi di sostituzione della famiglia (rette dei nidi, degli istituti, degli asili per vecchi) e creare invece un aiuto economico e consultoriale per la coppia e servizi di aiuto familiare per handicappati, anziani e bambini.
De iure condendo, dovremmo adeguarci all'Inghilterra e alla Danimarca per quel che riguarda le spese di protezione della famiglia.
Da J. Bowbly abbiamo imparato che si spende molto meno e si ottiene molto di più aiutando direttamente chi ha bisogno e non creando istituzioni.


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