§ Fra Salento e Firenze in libertà di scrittura

Racconti inediti di Oreste Macrì/Simeone (v)




Gino Pisanò



Una costante delle prose di Macrì è la rivisitazione che egli compie della sua vita alla luce di una sempre più insistente ironia. Nella solitudine esistenziale di ogni giorno, l'Autore sembra aver trovato esclusivamente nel suo doppio (Simeone) l'interlocutore 'possibile', grazie al quale si drammatizzano (sia nella forma dialogica, sia nel processo di autoanalisi lucidamente demistificante) i contenuti di una riflessione protesa a scandagliare il consuntivo di un'intera esistenza.
Insomma, nell'animo 'sveviano' del protagonista di questi racconti non sembra esserci pace, ossia appagamento statico, compiacimento definitivo e assolutorio circa quanto da lui realizzato nel corso degli anni, così come non sembra possibile all'autore prescindere dalla situazione presente e viva che delimita lo scavo impietoso nelle zone più remote e rimosse della sua -anima. La stessa frenetica attività della penna ci appare speculare ad una frenetica, incoercibile tensione speculativa che convoca il mondo, la storia, l'esserci, la poesia come corde di un ring all'interno del quale lo scrittore si sente imprigionato e costretto a lottare contro i suoi fantasmi, compresa la letteratura cui ha dedicato tutto se stesso.
Ma dal fondo di amare e dissacrate soluzioni emerge, talora, un passato lontano nel tempo e nello spazio. E' il mondo irremeabile dei Lari, tenue eppure incombente, sicché il padre, la madre, il fratello sembrano chinarsi, pietosi del suo dolore, su quell'eterno fanciullo che a lui parla dentro. E gli ricorda il largo Alogne a Cursi (1) e le sassate ai pini del suo bel Calamuri (2), più bello, forse, di quel lustrale "S. Giovanni" (3) alla cui ombra ha trascorso e trascorre la sua vita. La nostalgia è, però, bandita, anche quando sembra sormontare ogni resistenza e ridurre l'antagonista alle corde. Proprio allora l'orgoglio di Simeone si fa tono sprezzante e cinico, perfino beffarda apostrofe (Un fil di fumo) (4) all'indirizzo della Morte, la cui 'idea' lo accompagna segretamente in ogni istante. Eppure, sotto l'apparente titanismo, si insinua un sentimento sororale nei confronti della "reina" dal "virgineo seno", sacralizzata e idoleggiata come "pura" in Mister Trascendental. Ma non c'è spazio per il patetico in questo suo accarezzamento dell'idea o in questa convivenza esistenziale col mistero-verità più grande dell'essere. Signoreggia, invece, la vocazione al divertimento, già palazzeschiana ("E lasciatemi divertire"), del saltimbanco dell'anima.
Simeone, in realtà, non complica, ma semplifica il discorso. Egli, in più luoghi dei 'racconti', ha qualcosa da rimproverare al suo trascrittore. E' lo specchio virtuale dell'anima, impietoso e severo, sicché il dissidio interiore si visualizza e si materializza nella parola raddoppiata che scardina, anziché consolidare, ogni certezza, scarnifica e sfronda, perciò semplifica e riduce a vanità la complessità del mondo e della vita. E nell'orizzonte di una umanità che si muove senza Iddii e valori, che non ha più cieli né turiboli, sepolta sotto le macerie del suo egoismo, si consuma (e brucia) la saggezza dell'anarchia o, se si vuole, della 'follia' schizogena di Simeone. Il suo ribellismo, ora profetico (Schibalopoli) ora scanzonato, ma sempre satirico e distopico, non risparmia la letteratura che, quasi camicia di Nesso, ne ha imprigionato la vita ("rivedere la cara Terra, sia pure per qualche istante: quell'azzurro del cielo di Dante senza Dante" (5) ecc.) fino a farsi è idolon theatri. Ora è detronizzata, ridotta da Simeone a grande scherzo, o a nobile menzogna.
Nella prosa che qui presentiamo (La mano paterna), l'Autore intende saldare un debito: quello alle memorie 'vitali', nella fattispecie alla memoria paterna. Questa volta Simeone tace, come già era accaduto in Leggenda familiare (6). Siamo di fronte a un racconto in 'presa diretta', autobiografico, ma nel senso di una discesa nel... regno delle Madri, ritorno allo stadio prenatale (come nella citata Leggenda) e alle sorgenti della vita, ossia alla separazione dall'uroboro, stadio complesso di fine ed inizio. in quel momento di crisi, già il discrimen, il pericolo della morte cui lo sottrae, provvida e rude, la mano patema:

Accadde che all'alba del 10 febbraio 1913 io sortii dal grembo materno con il corpiccino paonazzo o quasi nero e i polmoncini asfittici. La levatrice, mammana del Reame, si mise a urlare chiamando a gran voce mio padre [ ... ]. Mio padre si precipitò sgomento con le braccia spalancate [ ... ], mi afferrò per il piedino destro [ ... ], mi scrollò finché io emisi il grido esistenziale.

Ma è, questa, una prima versione (o verità) del racconto in cui si notano agevolmente i toni gravi (il "grido esistenziale") e gli arcaismi ("sortii", "Reame") impiegati a solennizzare ironicamente l'evento. Le frequenti digressioni (l'"abitante cursiota", i "Sefarditi espulsi dalle Spagne", l'"origine spagnola" della nonna materna), mentre testimoniano dell'insofferenza al giogo strutturale, assolvono alla funzione di inserti fàtici di-vertenti, anarchici e schizoidi rispetto al nomos narrativo, afferenti a una zona extratestuale in perenne dialettica con il testo, grazie a un susseguirsi di pause e di azione (stop and go), di 'pieni' e di 'vuoti' che disorientano il lettore, allontanando o ravvicinando il bandolo del racconto. Insomma, il gioco delle tre carte applicato alla letteratura. Ma, come il lettore potrà osservare, oggetto di codesto illusionismo è, pirandellianamente, la verità. La soluzione, infatti, è 'aperta'. Sarà come ci pare. A pilotare in una sorta di videogame il malcapitato lettore o l'interlocutore (reale-fittizio), in questo caso l'intervistatrice canadese (miss Elisabeth), è il puro, ebbro arbitrio del locutore che apre e chiude a suo piacimento il canale della comunicazione. Abrupte acrobazie diegetiche semantizzano il procedere libero, eslege, asistematico della fantasia e della memoria di un incoercibile fanciullo il quale gioca col destinatario del suo messaggio, sempre spiazzato e sospeso fra il serio, l'epico-tragico e il comico. Double face non solo stilistica, ma anche argomentativa.
Ecco, infatti, la seconda 'versione'. Miss Elisabeth, che si propone di intervistare il noto (e un po' matto) ispanista Macrí, non riesce a cavare un ragno dal buco, ossia a cogliere il nesso fra la sua domanda e la risposta che le rende l'Autore:

Sì, l'accontenterò. Mi stia a sentire, anzi abbia la cortesia di toccarmi il cranio [ ... ]. Ecco, si metta in piedi dietro di me e posi le due mani sulla sommità della mia testa [ ... ]. Avverte qualcosa di notevole, anzi di strano?

Il gioco è fatto. Catturata Miss Elisabeth, il narratore-fool incalza:

No, no, doña Isabel, deve tastare premendo abbastanza.

Risultato (è la donna che parla):

Nella parte destra avverto un affossamento [ ... ]. Strano! Che cosa significa? E' cascato?

Insomma la situazione è grottesca. Pirandelliana. Imprevedibile la conclusione del ragionamento. Anomala la logica che presiede allo sviluppo narrativo. Segue la prima (e già esibita) versione, ma testa e piedi sono estremità opposte. E allora? Smarrimento ancora maggiore nella vittima (sempre lei, l'intervistatrice), irretita e allo sbando, come il lettore cui è speculare.
Eppure questa sorta di vaudeville è contestualizzata entro confini storici, geografici, antropologici (Maglie, Cursi, il Salento) precisi, supportati dall'inferenza di un codice linguistico indiziale (il vernacolo magliese cui fanno pendant lessemi spagnoli disseminati nel testo) che rimanda, insieme con gli informanti (età, funzione, carattere dei personaggi), ad un'atmosfera 'caratterizzata' e vitale. E il plurilinguismo è un segno ulteriore di una scrittura sperimentale e insofferente.
Per buona parte del racconto non se ne intravede l'esito o l'intenzione germinale:

Mi scusi, don Oreste, ma che cosa c'entra questa faccenda dei suoi piedi con il cranio?

Quando la confusione della donna raggiunge l'apice, solo allora la seconda, e più congrua, versione:

Questa che le ho raccontato è una delle due versioni del mio ingresso nel cronotopo dell'esistenza.

Parodiato il linguaggio letterario ("cronotopo dell'esistenza") attraverso un frequente processo di straniamento, ecco, finalmente lo striscione d'arrivo:

Versione podica perfettamente equivalente dell'altra cranica che ora le racconterò.

Segue una nuova di-strazione (il "numero" delle scarpe), quindi la ripresa ironica:

Restò un segreto di famiglia.

Lo 'spazio' familiare ricorre spesso nelle più recenti prose di Macrí. L'istinto delle radici si era manifestato, ad esempio, in Libido pecuniae, (7) ossia nella chiamata a raccolta di una gens connotata da ascendenze mediterranee (lo diciamo a dispetto del senatore Miglio che vuol fare di Macrí un 'etrusco'), greco-ispaniche. Qui, detto istinto si incarna nell'idoleggiamento della salvifica e buona figura paterna, vitale al pari della 'dimora', vero epicentro e cardine di questa prosa che possiamo articolare in tre tempi: prologo diegetico; sviluppo tematico dalla struttura prevalentemente mimetica; conclusione-chiave che anticipiamo al lettore:

Tornato a Maglie per breve visita l'anno scorso, una vicina di casa, mia coetanea, che fu fanciulla da me ammirata, ebbe a dirmi stupita: "Don Oreste, comu ssimiji a ton Custau" (8).
Sussultai, in quanto avevo preveduto tale impressione. Rientrai subito in casa, che fu la nostra, restato solo mio fratello con i suoi; e mi contemplai nello specchio dell'armadio grande della camera da letto genitoriale; e in me vidi mio padre, anzi senza di me, che ritornava dalla campagna percorsa a gran passi divaricati (9); non la sua caricatura filiale, ma lui stesso, curvo e a gambe aperte, sorridente; poi col suo bicchiere d'acqua fresca e un dito di caffè contro la polmonite, tracannato. E così desino in me ipso, giacché nessun figlio maggiore (deve essere maggiore) sarà mia caricatura, e un figlio del figlio in saecula saeculorum. Señorita, mi scusi il ridicolo bozzetto familiare; nessuno, purtroppo, è padre e figlio di se stesso.
Miss Elisabeth apparve nuovamente cambiata di umore; appariva molto divertita senza accorgersi che mi ero rattristato.

Segnaliamo, infine, alcuni esponenti referenziali, sul piano 'ideologico', dell'Autore; Esemplari del sentimento poetico contemporaneo è l'opera di Macrì che ne segna ufficialmente l'esordio 10 come critico (1941), poiché, grazie ad essa, egli si impose all'attenzione di Croce e di Russo in particolare. Perciò non è da escludere un inconscio o voluto collegamento fra l'evento biologico narrato (nascita reale e salvezza) e quello referenziale-metaforico indicato dal libro in parola. A chiamarlo in causa nel corso del racconto, con segreta allusione reciproca (il "corpicciattolo" è il fondamento dell'esistenza nell'"ora cotidiana" e, pertanto, essenziale alla creazione poetica, tesi esposta in Esemplari), è un inserto metadiegetico dalle movenze tonali che resuscitano inabissati echi leopardiani:

Sì, nell'"hic et nunc" sta e si aggira il somàtion degli stoici, piccolo corpo, corpicciattolo, corpicino [ ... ], giacché si rimpicciolisce vieppiù con l'età e si secca nella morte.

Ci pare risemantizzato, in altro contesto, l'assunto del Recanatese (dal Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare):

Sempre più si ritira [quel primo uomo che egli era] Il verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché, durando ancora la nostra vita, esso muore.

(V - continua)


NOTE
1) Cfr. SIMEONE, Mister Trascendental, "La collina", VIII/IX, n. 16/18, gennaio 1991 / giugno 1992, serie terza, p. 43
2) E' una pineta nei pressi di Otranto. Calamuri è il toponimo.
3) Il battistero di Firenze.
4) In "Sudpuglia", XIX, 2, giugno 1993, p. 105.
5) In Mister Trascendental, cit., ibidem.
6) O. MACRI', Leggenda familiare, "Quotidiano" del 7 febbraio 1993.
7) In "Sudpuglia", XX, 1, marzo 1994, pp. 120-129.
8) "Don Oreste, come somigli a don Gustavo". E' il padre dell'Autore.
9) Gustavo Macrí era geometra e agrimensore.
10) Ma il reale anno d'inizio della sua attività letteraria è il 1934 con Solidità di una metamorfosi, articolo su F. Kafka, apparso in "Santa Milizia", 14.7.1934, p. 3.
11) Il fanciullino.


I racconti inediti di Simeone / Oreste Macrì

LA MANO PATERNA
Mi accadde, nei primi anni Sessanta, se non ricordo male, d'imbattermi a Madrid in un'anziana signora canadese piccata d'ispanismo. La quale era stata qualche anno a Roma poco dopo la guerra, quindi si era trasferita in Spagna. Frequentava scrittori e inviava interviste, inchieste, articoli vari di carattere biografico, ritrattistico, ambientale, ecc., a effemeridi della sua terra. A Roma aveva acquistato il mio primo libro, Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, e ne era rimasta entusiasta, anzi "encantada", come mi disse più volte, senza peraltro accennarmene il motivo, se non che tale mio libro "estaba empapado", ossia 'fradicio, inzuppato' di riverenza e amicizia verso gli scrittori esaminati, cominciando dalla lettera iniziale a Carlo Bo. Ci esprimevamo un po' in italiano e un po' in spagnolo.
Insomma, intervistatrice tipica, insinuante e implacabile, un po' sanguisuga. Genìa che io ho sempre esecrato cordialmente, dato che non sono mai stato un poeta; e ai poeti gente di tal fatta è una manna dal cielo, esente da fastidiosi giudizi critici, epperò tutta polpa, in blocco o tritata, di elogi, encomi, plausi ed applausi sin dal primo intento intervistatorio. Il critico, avendo a che fare con autori delle più svariate e anche contrarie ideologie, generi letterari, metriche, epoche, vite, umori, ecc., ha la testa in subbuglio, considerandosi in se stesso plurimo, vessato sbatacchiato, esistente o troppo o per nulla. Potete immaginare lo smarrimento a una semplice domanda: "Scusi, che cosa è per lei la poesia?". Il filosofo è pronto alla risposta con la sua cartuscella in tasca, comprensiva di ogni cosmo. Il poeta è pronto a parlare della sua poesia. o meglio, se non peggio, delle circostanze, aneddoti, compari o nemici dal condomino al contrattista di Nanchino.
Quanto all'intervistatore, costui pronunzia quattro domandine; l'intervistato le raddrizza, risponde come può e vuole, e il gioco è fatto. L'intervistatore si porta via il nastro magnetico, lo fa trascrivere, mette la firma, lo fa stampare e ne è remunerato. Questo è l'"articolo rubato", come fu definito da Longanesi.
La canadese tornò ad assaltarmi più volte finché le dissi:
- Le do qualche mio libro, ad es. Poesia spagnola del Novecento o Il Cimitero Marino di Valéry. Lei legge, ne ricava alcune domande e le risposte le trova bell'e pronte.
Mi parve sconfitta, così come se ne partì salutandomi appena. Ma, l'ultimo giorno della mia dimora madrilegna, ricomparve. Scesi nella hall dell'Hotel Inglés alquanto irritato:
- Don Oreste, mi perdoni. Non le chiederò impressioni e giudizi critici. Per questo mi arrangerò da me (me lo arreglaré por mi cuenta) leggendo i suoi scritti e trasformandoli in inchieste, come ella mi ha suggerito. Mi accontenti soltanto d'un suo ricordo autobiografico, ma che almeno sia importante, alquanto caratterizzante la di lei persona; di qualunque momento della sua vita. Mi accontenti, la prego e la lascerò in pace per sempre.
Confesso che rimasi toccato da tale richiesta inopinata; voglio dire solleticato nell'essere considerato uno scrittore, non un critico astratto, generico, vissuto e cresciuto a spese degli autori, specie i poeti, oggetto primo e unico d'ogni relazione del critico col mondo.
Insomma miss Elisabeth mi provocava la voglia di attestare alcunché di reale e positivo della mia persona che non fosse vissuta invano su questo pianeta e avesse lasciato una traccia fisica e concreta di carne e di senso, di quel "corpicciattolo" in quel mio primo libro degli Esemplari, che ella spesso mi citava, e che doveva averla colpita. Insomma, rimasi commosso, giacché nella richiesta riconoscevo come un'essenza d'anima femminile verso lo squallore e la paura contenuti in quel libro sul fondo della guerra.
- Sì, l'accontenterò. Mi stia a sentire, anzi abbia la cortesia di toccarmi il cranio. Miss Elisabeth rimase perplessa e anzi sconcertata.
- Come sarebbe a dire: toccarle il cranio?
- Ecco, si metta in piedi dietro di me seduto e posi le due mani sulla sommità della mia testa, o meglio, sugli ossi parietali, destro con la sua destra e sinistro con la sua sinistra. Avverte qualcosa di notevole, anzi di strano?
Eseguì docile e smarrita, ma con cura e delicatezza.
- No, no, doña Isabel; deve tastare premendo abbastanza.
- Ho capito, grazie. Nella parte destra avverto un affossamento lungo tutto l'osso. Strano! Che cosa significa? E' cascato? Ha urtato? Quando? Come? Immagino il dolore. Avrà avuto un ematoma.
- Niente di tutto questo, signorina. Accadde che all'alba del 10 febbraio 1913 io sortii dal grembo materno con il corpicino paonazzo o quasi nero, e i polmoncini asfittici. La levatrice, mammana del Reame, si mise a urlare chiamando a gran voce mio padre. La signora Rizzo era una possente matrona con una gran chiazza rossa sulla guancia destra, consorte di un produttore di gassose munite di pallina, premendo la quale schizzava l'acqua spumosa e gelida in quei pomeriggi bollenti del Salento. Sita la piccola fabbrica all'angolo nord-est della Piazza della Madonna delle Grazie, secentesca nel portale barocco della Chiesa, fiancheggiato da colonne tortili, ricco di pietra leccese, e poco lungi alta colonna con essa Madonna in cima. Non meno graziosa la parte sud-est della stessa piazza, incisa in acquaforte da un turista inglese innamorato della mia Maglie, che ricevette tale nome da un Manlius reduce centurione, etimologia peraltro contestata.
Miss Elisabeth mi stava ad ascoltare mentre parlavo volgendo la testa a lei sempre in piedi dietro di me. Intanto, annotava fuorisamente su un suo quaderno quanto le dicevo.
- Dunque la levatrice chiamò mio padre, don Gustavo Macrì, geometra, da Cursi, Curse o Curze in dialetto, l'abitante Cursiatu o Cursiotu e Cursiata la donna non suffissi greci, Cursiao in grico, forse da un reduce, pure lui un Cursius o Curtius; ma io credo stazione di posta, per dove passarono i Sefarditi espulsi dalle Spagne, donde in esso paese esistono una via Ghetto e un Largo Alogne, forse dallo spagnolo Alueñe. E di origine spagnola era la mia nonna materna donna Rosa Sances, così corrotto l'apellido Sanchez, defunta giovane, di polmonite; da Alezio. Mio padre, dunque, stanziava nella camera accanto in via Domenica Rosa Garzia, nobildonna magliese pure lei di origine spagnola. Scusi, mi sto confondendo; in quella via ci andammo dopo.
Sentivo quasi di delirare e mi ero dimenticato della signora canadese, la quale mi richiamò:
- Scusi, signor Macrì, veniamo al sodo. Che cosa accadde?
- La mammana si mise a urlare: "Ton Custau, veni, veni, ca lu criaturu sta more. Mmanisciate". Mio padre si precipitò sgomento con le braccia spalancate come usano i soccorritori. "Timme cce ttocca cu fazzu. Ssignurìa sai l'arte". "PìjaIu pe lli peti e scotilu. Mena, mena". Mio padre mi afferrò per il piedino destro, mi scrollò finché io emisi il grido esistenziale d'ogni essere che dal mare viene questo mondo secco e euclideo, sì che mi salvai alla vita fino a questo momento.
Miss Elisabeth mi aveva ascoltato partecipe e trepidante, ma si riebbe dubitante:
- Mi scusi, don Oreste, ma che cosa c'entra questa faccenda dei suoi piedi con il suo cranio? Non capisco bene.
- Questa che le ho raccontato è una delle due versioni del mio ingresso nel cronotopo dell'esistenza... Mi interruppe: - Ha detto cronotopo? Aspetti che io annoti bene... - Faccia pure. Dicevo che quella che le ho narrato è la prima versione del mio primo respiro vitale, la conclusione del travaglio corporeo-animico di mia madre, donna Albina Bitonti da Montesano Salentino. Versione podica perfettamente equivalente dell'altra cranica che ora le racconterò, dato che entrambe riguardano le mie due estremità che si rigiravano indifferentemente nella placenta, almeno io credo. Per mostrarle l'effetto dello scotimento paterno io dovrei scalzarmi, ma mi creda sulla parola. A causa dello stiramento subìto da quella manaccia, pur benefica, di mio padre, la quale aveva afferrato il mio piedino sinistro, questo si allungò, sì che delle mie due scarpe la sinistra ha numero 43 e la destra 41; rispetto ai piedi reali, giacché nel cuoio sono entrambe 43 arrangiate all'uopo, predominando sempre il numero maggiore.
- Ma - ribatté miss Elisabeth, che ora appariva turbata e inquieta - qual è l'altra versione? Suppongo che riguarderà questa sua testa.
- Restò un segreto di famiglia, un mistero dentro il mito folcIorico Salentino e arcaico, della testa normale del neonato, e anzi piccola, ben formata, liscia e immune, senza ozzi, volevo dire bernoccoli, bubboni, enfiati ecc., peggio se sono incavi e scanalature. L'incidente al mio capo lo appresi, sotto giuramento di tacerlo, da una cugina di una mia zia. Riprendiamo la scena. La levatrice urla, don Gustavo accorre. Questa volta io mi affaccio dal ventre materno, non per i piedi, ma per il capino, che mio padre afferra con la sua destra e lo scuote, mentre il mio corpicino penzola e oscilla paurosamente. in tal guisa, il pollice, dito più grosso, lasciò immune la curvatura dell'osso parietale sinistro, laddove il dito medio, il più lungo ed energico, s'impresse sul molle osso parietale destro provocando l'affossamento che lei ha avvertito dianzi sotto la sua mano; per fortuna restò indenne la fontanella.
- Ma, signor Macrì, quale delle due versioni è la vera, dato che lei sarà uscito o per i piedi o per la testa, stando alla meccanica di tale estrazione?
- Io ho sempre creduto che sono vere entrambe, come è vero che noi qui stiamo diritti e capovolti agli antipodi dove pure restiamo diritti, e viceversa. La prova sta nell'oblio da parte della levatrice, la quale, da me più volte interrogata, non ricordava i particolari di quel per lei tragico momento. Infatti, la dimenticanza neutralizza più esposizioni di una stessa verità, le quali pertanto son tutte vere. Certo, quella capitale (in senso etimologico), mi è più segreta e intima sentimentalmente. Quando mi tocco quest'incavo mi pare oscuramente di risentire forte e buona la mano paterna. Rammento che nelle grandi occasioni mio padre mi dava il viatico assestandomi benedicente un colpetto con la mano sulla testa; così quando diciassettenne partii per l'Università (era scoppiato un furioso temporale e mi mancò il respiro) o dopo aver detto di sì alle nozze in quel di Torino o quando scesi dalla cattedra terminata la prolusione, che egli chiamò profusione al suo ritorno a Maglie. Era la stessa mano che disegnava e illustrava con perfetta calligrafia i suoi progetti, piantine colorate e schizzi urbani e campestri, come le grandi volte a vela delle fresche cantine salentine; da cui traevo lezione dietetica e mentale di esattezza geometrica, con cui percepire e imprimere la forma ideale o archetipo delle cose, ch'io apprendevo da Dante e dal Ficino; donde il titolo Esemplari di quel mio primo libro, e mi basti il ristretto leopardiano in un pensiero: "La verità è nel centro del triangolo; ivi, sepolte in una quiete profonda, abitano le somiglianze e gli esemplari delle cose, che furono e che saranno". Lo ricordo a memoria. Eco della Trinità da Giacomo smarrita e del di essa occhio centrale.
Miss Elisabeth appariva commossa per qualche contagio:
- Ora mi ricordo e mi chiarisco un suo vocabolo negli Esemplari, in contrasto con l'idea suprema e perfetta, alla quale lei ha accennato: il "corpicciattolo", che esiste nella sua "ora cotidiana".
- Sì, nell'"hic et nunc" sta e si aggira il somàtion degli stoici, piccolo corpo, corpicciolo, corpicino, e in Plutarco anche cadavere, giacché si rimpicciolisce vieppiù con l'età e si secca nella morte.
Bene! noto che ha capito tutto. Fu la squallida e desolata filosofia esistenziale sottocutanea alla nostra letteratura di quei tempi d'inanizione e prigionia; per cui risalimmo all'innocenza e all'Eldorado della nostra infanzia, su su fino agli alimenti dei quali si erano nutrite le nostre madri. Albe vitali cantate dai nostri padri spirituali, come Rebora, Ungaretti, Montale. innocenza purtroppo anch'essa mutilata e deformata, insomma asimmetrica come i miei due piedi e le due zone del mio cranio, aggiunta la disimmetria di destra e sinistra fra cranio e piedi. Sono, ormai, non un anziano, ma un vecchio; procedo incurvato con le gambe e le braccia alquanto spalancate a equilibrarmi, scancatu, un po' ebete e un certo rictus ridentino. Tornato a Maglie per breve visita l'anno scorso, una vicina di casa, mia coetanea che fu fanciulla da me ammirata, ebbe a dirmi stupita: "Don Oreste, comu ssimiji a ton Custau!".
Sussultai, in quanto avevo preveduto tale impressione. Rientrai subito in casa, che fu la nostra, restato solo mio fratello con i suoi; e mi contemplai nello specchio dell'armadio grande della camera da letto genitoriale; e in me vidi mio padre, anzi senza di me, che ritornava dalla campagna percorsa a gran passi divaricati. Non la sua caricatura filiale, ma lui stesso, curvo e a gambe aperte, sorridente; poi col suo bicchiere d'acqua fresca e un dito di caffè contro la polmonite, tracannato. E così desino in me ipso, giacché nessun figlio maggiore (deve essere maggiore) sarà mia caricatura, e un figlio del figlio in saecula saeculorum. Señorita, mi scusi il ridicolo bozzetto familiare; nessuno, purtroppo, è padre e figlio di se stesso.
Miss Elisabeth apparve nuovamente cambiata di umore; appariva molto divertita senza accorgersi che mi ero rattristato.


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