Una
costante delle prose di Macrì è la rivisitazione che egli
compie della sua vita alla luce di una sempre più insistente
ironia. Nella solitudine esistenziale di ogni giorno, l'Autore sembra
aver trovato esclusivamente nel suo doppio (Simeone) l'interlocutore
'possibile', grazie al quale si drammatizzano (sia nella forma dialogica,
sia nel processo di autoanalisi lucidamente demistificante) i contenuti
di una riflessione protesa a scandagliare il consuntivo di un'intera
esistenza.
Insomma, nell'animo 'sveviano' del protagonista di questi racconti non
sembra esserci pace, ossia appagamento statico, compiacimento definitivo
e assolutorio circa quanto da lui realizzato nel corso degli anni, così
come non sembra possibile all'autore prescindere dalla situazione presente
e viva che delimita lo scavo impietoso nelle zone più remote
e rimosse della sua -anima. La stessa frenetica attività della
penna ci appare speculare ad una frenetica, incoercibile tensione speculativa
che convoca il mondo, la storia, l'esserci, la poesia come corde di
un ring all'interno del quale lo scrittore si sente imprigionato e costretto
a lottare contro i suoi fantasmi, compresa la letteratura cui ha dedicato
tutto se stesso.
Ma dal fondo di amare e dissacrate soluzioni emerge, talora, un passato
lontano nel tempo e nello spazio. E' il mondo irremeabile dei Lari,
tenue eppure incombente, sicché il padre, la madre, il fratello
sembrano chinarsi, pietosi del suo dolore, su quell'eterno fanciullo
che a lui parla dentro. E gli ricorda il largo Alogne a Cursi (1) e
le sassate ai pini del suo bel Calamuri (2), più bello, forse,
di quel lustrale "S. Giovanni" (3) alla cui ombra ha trascorso
e trascorre la sua vita. La nostalgia è, però, bandita,
anche quando sembra sormontare ogni resistenza e ridurre l'antagonista
alle corde. Proprio allora l'orgoglio di Simeone si fa tono sprezzante
e cinico, perfino beffarda apostrofe (Un fil di fumo) (4) all'indirizzo
della Morte, la cui 'idea' lo accompagna segretamente in ogni istante.
Eppure, sotto l'apparente titanismo, si insinua un sentimento sororale
nei confronti della "reina" dal "virgineo seno",
sacralizzata e idoleggiata come "pura" in Mister Trascendental.
Ma non c'è spazio per il patetico in questo suo accarezzamento
dell'idea o in questa convivenza esistenziale col mistero-verità
più grande dell'essere. Signoreggia, invece, la vocazione al
divertimento, già palazzeschiana ("E lasciatemi divertire"),
del saltimbanco dell'anima.
Simeone, in realtà, non complica, ma semplifica il discorso.
Egli, in più luoghi dei 'racconti', ha qualcosa da rimproverare
al suo trascrittore. E' lo specchio virtuale dell'anima, impietoso e
severo, sicché il dissidio interiore si visualizza e si materializza
nella parola raddoppiata che scardina, anziché consolidare, ogni
certezza, scarnifica e sfronda, perciò semplifica e riduce a
vanità la complessità del mondo e della vita. E nell'orizzonte
di una umanità che si muove senza Iddii e valori, che non ha
più cieli né turiboli, sepolta sotto le macerie del suo
egoismo, si consuma (e brucia) la saggezza dell'anarchia o, se si vuole,
della 'follia' schizogena di Simeone. Il suo ribellismo, ora profetico
(Schibalopoli) ora scanzonato, ma sempre satirico e distopico, non risparmia
la letteratura che, quasi camicia di Nesso, ne ha imprigionato la vita
("rivedere la cara Terra, sia pure per qualche istante: quell'azzurro
del cielo di Dante senza Dante" (5) ecc.) fino a farsi è
idolon theatri. Ora è detronizzata, ridotta da Simeone a grande
scherzo, o a nobile menzogna.
Nella prosa che qui presentiamo (La mano paterna), l'Autore intende
saldare un debito: quello alle memorie 'vitali', nella fattispecie alla
memoria paterna. Questa volta Simeone tace, come già era accaduto
in Leggenda familiare (6). Siamo di fronte a un racconto in 'presa diretta',
autobiografico, ma nel senso di una discesa nel... regno delle Madri,
ritorno allo stadio prenatale (come nella citata Leggenda) e alle sorgenti
della vita, ossia alla separazione dall'uroboro, stadio complesso di
fine ed inizio. in quel momento di crisi, già il discrimen, il
pericolo della morte cui lo sottrae, provvida e rude, la mano patema:
Accadde che all'alba
del 10 febbraio 1913 io sortii dal grembo materno con il corpiccino
paonazzo o quasi nero e i polmoncini asfittici. La levatrice, mammana
del Reame, si mise a urlare chiamando a gran voce mio padre [ ...
]. Mio padre si precipitò sgomento con le braccia spalancate
[ ... ], mi afferrò per il piedino destro [ ... ], mi scrollò
finché io emisi il grido esistenziale.
Ma è, questa,
una prima versione (o verità) del racconto in cui si notano
agevolmente i toni gravi (il "grido esistenziale") e gli
arcaismi ("sortii", "Reame") impiegati a solennizzare
ironicamente l'evento. Le frequenti digressioni (l'"abitante
cursiota", i "Sefarditi espulsi dalle Spagne", l'"origine
spagnola" della nonna materna), mentre testimoniano dell'insofferenza
al giogo strutturale, assolvono alla funzione di inserti fàtici
di-vertenti, anarchici e schizoidi rispetto al nomos narrativo, afferenti
a una zona extratestuale in perenne dialettica con il testo, grazie
a un susseguirsi di pause e di azione (stop and go), di 'pieni' e
di 'vuoti' che disorientano il lettore, allontanando o ravvicinando
il bandolo del racconto. Insomma, il gioco delle tre carte applicato
alla letteratura. Ma, come il lettore potrà osservare, oggetto
di codesto illusionismo è, pirandellianamente, la verità.
La soluzione, infatti, è 'aperta'. Sarà come ci pare.
A pilotare in una sorta di videogame il malcapitato lettore o l'interlocutore
(reale-fittizio), in questo caso l'intervistatrice canadese (miss
Elisabeth), è il puro, ebbro arbitrio del locutore che apre
e chiude a suo piacimento il canale della comunicazione. Abrupte acrobazie
diegetiche semantizzano il procedere libero, eslege, asistematico
della fantasia e della memoria di un incoercibile fanciullo il quale
gioca col destinatario del suo messaggio, sempre spiazzato e sospeso
fra il serio, l'epico-tragico e il comico. Double face non solo stilistica,
ma anche argomentativa.
Ecco, infatti, la seconda 'versione'. Miss Elisabeth, che si propone
di intervistare il noto (e un po' matto) ispanista Macrí, non
riesce a cavare un ragno dal buco, ossia a cogliere il nesso fra la
sua domanda e la risposta che le rende l'Autore:
Sì, l'accontenterò.
Mi stia a sentire, anzi abbia la cortesia di toccarmi il cranio [
... ]. Ecco, si metta in piedi dietro di me e posi le due mani sulla
sommità della mia testa [ ... ]. Avverte qualcosa di notevole,
anzi di strano?
Il gioco è
fatto. Catturata Miss Elisabeth, il narratore-fool incalza:
No, no, doña
Isabel, deve tastare premendo abbastanza.
Risultato (è
la donna che parla):
Nella parte destra
avverto un affossamento [ ... ]. Strano! Che cosa significa? E' cascato?
Insomma la situazione
è grottesca. Pirandelliana. Imprevedibile la conclusione del
ragionamento. Anomala la logica che presiede allo sviluppo narrativo.
Segue la prima (e già esibita) versione, ma testa e piedi sono
estremità opposte. E allora? Smarrimento ancora maggiore nella
vittima (sempre lei, l'intervistatrice), irretita e allo sbando, come
il lettore cui è speculare.
Eppure questa sorta di vaudeville è contestualizzata entro
confini storici, geografici, antropologici (Maglie, Cursi, il Salento)
precisi, supportati dall'inferenza di un codice linguistico indiziale
(il vernacolo magliese cui fanno pendant lessemi spagnoli disseminati
nel testo) che rimanda, insieme con gli informanti (età, funzione,
carattere dei personaggi), ad un'atmosfera 'caratterizzata' e vitale.
E il plurilinguismo è un segno ulteriore di una scrittura sperimentale
e insofferente.
Per buona parte del racconto non se ne intravede l'esito o l'intenzione
germinale:
Mi scusi, don
Oreste, ma che cosa c'entra questa faccenda dei suoi piedi con il
cranio?
Quando la confusione
della donna raggiunge l'apice, solo allora la seconda, e più
congrua, versione:
Questa che le
ho raccontato è una delle due versioni del mio ingresso nel
cronotopo dell'esistenza.
Parodiato il linguaggio
letterario ("cronotopo dell'esistenza") attraverso un frequente
processo di straniamento, ecco, finalmente lo striscione d'arrivo:
Versione podica
perfettamente equivalente dell'altra cranica che ora le racconterò.
Segue una nuova
di-strazione (il "numero" delle scarpe), quindi la ripresa
ironica:
Restò un
segreto di famiglia.
Lo 'spazio' familiare
ricorre spesso nelle più recenti prose di Macrí. L'istinto
delle radici si era manifestato, ad esempio, in Libido pecuniae, (7)
ossia nella chiamata a raccolta di una gens connotata da ascendenze
mediterranee (lo diciamo a dispetto del senatore Miglio che vuol fare
di Macrí un 'etrusco'), greco-ispaniche. Qui, detto istinto
si incarna nell'idoleggiamento della salvifica e buona figura paterna,
vitale al pari della 'dimora', vero epicentro e cardine di questa
prosa che possiamo articolare in tre tempi: prologo diegetico; sviluppo
tematico dalla struttura prevalentemente mimetica; conclusione-chiave
che anticipiamo al lettore:
Tornato a Maglie
per breve visita l'anno scorso, una vicina di casa, mia coetanea,
che fu fanciulla da me ammirata, ebbe a dirmi stupita: "Don Oreste,
comu ssimiji a ton Custau" (8).
Sussultai, in quanto avevo preveduto tale impressione. Rientrai subito
in casa, che fu la nostra, restato solo mio fratello con i suoi; e
mi contemplai nello specchio dell'armadio grande della camera da letto
genitoriale; e in me vidi mio padre, anzi senza di me, che ritornava
dalla campagna percorsa a gran passi divaricati (9); non la sua caricatura
filiale, ma lui stesso, curvo e a gambe aperte, sorridente; poi col
suo bicchiere d'acqua fresca e un dito di caffè contro la polmonite,
tracannato. E così desino in me ipso, giacché nessun
figlio maggiore (deve essere maggiore) sarà mia caricatura,
e un figlio del figlio in saecula saeculorum. Señorita, mi
scusi il ridicolo bozzetto familiare; nessuno, purtroppo, è
padre e figlio di se stesso.
Miss Elisabeth apparve nuovamente cambiata di umore; appariva molto
divertita senza accorgersi che mi ero rattristato.
Segnaliamo, infine,
alcuni esponenti referenziali, sul piano 'ideologico', dell'Autore;
Esemplari del sentimento poetico contemporaneo è l'opera di
Macrì che ne segna ufficialmente l'esordio 10 come critico
(1941), poiché, grazie ad essa, egli si impose all'attenzione
di Croce e di Russo in particolare. Perciò non è da
escludere un inconscio o voluto collegamento fra l'evento biologico
narrato (nascita reale e salvezza) e quello referenziale-metaforico
indicato dal libro in parola. A chiamarlo in causa nel corso del racconto,
con segreta allusione reciproca (il "corpicciattolo" è
il fondamento dell'esistenza nell'"ora cotidiana" e, pertanto,
essenziale alla creazione poetica, tesi esposta in Esemplari), è
un inserto metadiegetico dalle movenze tonali che resuscitano inabissati
echi leopardiani:
Sì, nell'"hic
et nunc" sta e si aggira il somàtion degli stoici, piccolo
corpo, corpicciattolo, corpicino [ ... ], giacché si rimpicciolisce
vieppiù con l'età e si secca nella morte.
Ci pare risemantizzato,
in altro contesto, l'assunto del Recanatese (dal Dialogo di Torquato
Tasso e del suo genio familiare):
Sempre più
si ritira [quel primo uomo che egli era] Il verso il nostro intimo,
e ricade in maggior sonno di prima; finché, durando ancora
la nostra vita, esso muore.
(V - continua)
NOTE
1) Cfr. SIMEONE, Mister Trascendental, "La collina", VIII/IX,
n. 16/18, gennaio 1991 / giugno 1992, serie terza, p. 43
2) E' una pineta nei pressi di Otranto. Calamuri è il toponimo.
3) Il battistero di Firenze.
4) In "Sudpuglia", XIX, 2, giugno 1993, p. 105.
5) In Mister Trascendental, cit., ibidem.
6) O. MACRI', Leggenda familiare, "Quotidiano" del 7 febbraio
1993.
7) In "Sudpuglia", XX, 1, marzo 1994, pp. 120-129.
8) "Don Oreste, come somigli a don Gustavo". E' il padre
dell'Autore.
9) Gustavo Macrí era geometra e agrimensore.
10) Ma il reale anno d'inizio della sua attività letteraria
è il 1934 con Solidità di una metamorfosi, articolo
su F. Kafka, apparso in "Santa Milizia", 14.7.1934, p. 3.
11) Il fanciullino.
I racconti inediti di Simeone / Oreste Macrì
LA MANO PATERNA
Mi accadde, nei primi anni Sessanta, se non ricordo male, d'imbattermi
a Madrid in un'anziana signora canadese piccata d'ispanismo. La quale
era stata qualche anno a Roma poco dopo la guerra, quindi si era trasferita
in Spagna. Frequentava scrittori e inviava interviste, inchieste,
articoli vari di carattere biografico, ritrattistico, ambientale,
ecc., a effemeridi della sua terra. A Roma aveva acquistato il mio
primo libro, Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, e ne
era rimasta entusiasta, anzi "encantada", come mi disse
più volte, senza peraltro accennarmene il motivo, se non che
tale mio libro "estaba empapado", ossia 'fradicio, inzuppato'
di riverenza e amicizia verso gli scrittori esaminati, cominciando
dalla lettera iniziale a Carlo Bo. Ci esprimevamo un po' in italiano
e un po' in spagnolo.
Insomma, intervistatrice tipica, insinuante e implacabile, un po'
sanguisuga. Genìa che io ho sempre esecrato cordialmente, dato
che non sono mai stato un poeta; e ai poeti gente di tal fatta è
una manna dal cielo, esente da fastidiosi giudizi critici, epperò
tutta polpa, in blocco o tritata, di elogi, encomi, plausi ed applausi
sin dal primo intento intervistatorio. Il critico, avendo a che fare
con autori delle più svariate e anche contrarie ideologie,
generi letterari, metriche, epoche, vite, umori, ecc., ha la testa
in subbuglio, considerandosi in se stesso plurimo, vessato sbatacchiato,
esistente o troppo o per nulla. Potete immaginare lo smarrimento a
una semplice domanda: "Scusi, che cosa è per lei la poesia?".
Il filosofo è pronto alla risposta con la sua cartuscella in
tasca, comprensiva di ogni cosmo. Il poeta è pronto a parlare
della sua poesia. o meglio, se non peggio, delle circostanze, aneddoti,
compari o nemici dal condomino al contrattista di Nanchino.
Quanto all'intervistatore, costui pronunzia quattro domandine; l'intervistato
le raddrizza, risponde come può e vuole, e il gioco è
fatto. L'intervistatore si porta via il nastro magnetico, lo fa trascrivere,
mette la firma, lo fa stampare e ne è remunerato. Questo è
l'"articolo rubato", come fu definito da Longanesi.
La canadese tornò ad assaltarmi più volte finché
le dissi:
- Le do qualche mio libro, ad es. Poesia spagnola del Novecento o
Il Cimitero Marino di Valéry. Lei legge, ne ricava alcune domande
e le risposte le trova bell'e pronte.
Mi parve sconfitta, così come se ne partì salutandomi
appena. Ma, l'ultimo giorno della mia dimora madrilegna, ricomparve.
Scesi nella hall dell'Hotel Inglés alquanto irritato:
- Don Oreste, mi perdoni. Non le chiederò impressioni e giudizi
critici. Per questo mi arrangerò da me (me lo arreglaré
por mi cuenta) leggendo i suoi scritti e trasformandoli in inchieste,
come ella mi ha suggerito. Mi accontenti soltanto d'un suo ricordo
autobiografico, ma che almeno sia importante, alquanto caratterizzante
la di lei persona; di qualunque momento della sua vita. Mi accontenti,
la prego e la lascerò in pace per sempre.
Confesso che rimasi toccato da tale richiesta inopinata; voglio dire
solleticato nell'essere considerato uno scrittore, non un critico
astratto, generico, vissuto e cresciuto a spese degli autori, specie
i poeti, oggetto primo e unico d'ogni relazione del critico col mondo.
Insomma miss Elisabeth mi provocava la voglia di attestare alcunché
di reale e positivo della mia persona che non fosse vissuta invano
su questo pianeta e avesse lasciato una traccia fisica e concreta
di carne e di senso, di quel "corpicciattolo" in quel mio
primo libro degli Esemplari, che ella spesso mi citava, e che doveva
averla colpita. Insomma, rimasi commosso, giacché nella richiesta
riconoscevo come un'essenza d'anima femminile verso lo squallore e
la paura contenuti in quel libro sul fondo della guerra.
- Sì, l'accontenterò. Mi stia a sentire, anzi abbia
la cortesia di toccarmi il cranio. Miss Elisabeth rimase perplessa
e anzi sconcertata.
- Come sarebbe a dire: toccarle il cranio?
- Ecco, si metta in piedi dietro di me seduto e posi le due mani sulla
sommità della mia testa, o meglio, sugli ossi parietali, destro
con la sua destra e sinistro con la sua sinistra. Avverte qualcosa
di notevole, anzi di strano?
Eseguì docile e smarrita, ma con cura e delicatezza.
- No, no, doña Isabel; deve tastare premendo abbastanza.
- Ho capito, grazie. Nella parte destra avverto un affossamento lungo
tutto l'osso. Strano! Che cosa significa? E' cascato? Ha urtato? Quando?
Come? Immagino il dolore. Avrà avuto un ematoma.
- Niente di tutto questo, signorina. Accadde che all'alba del 10 febbraio
1913 io sortii dal grembo materno con il corpicino paonazzo o quasi
nero, e i polmoncini asfittici. La levatrice, mammana del Reame, si
mise a urlare chiamando a gran voce mio padre. La signora Rizzo era
una possente matrona con una gran chiazza rossa sulla guancia destra,
consorte di un produttore di gassose munite di pallina, premendo la
quale schizzava l'acqua spumosa e gelida in quei pomeriggi bollenti
del Salento. Sita la piccola fabbrica all'angolo nord-est della Piazza
della Madonna delle Grazie, secentesca nel portale barocco della Chiesa,
fiancheggiato da colonne tortili, ricco di pietra leccese, e poco
lungi alta colonna con essa Madonna in cima. Non meno graziosa la
parte sud-est della stessa piazza, incisa in acquaforte da un turista
inglese innamorato della mia Maglie, che ricevette tale nome da un
Manlius reduce centurione, etimologia peraltro contestata.
Miss Elisabeth mi stava ad ascoltare mentre parlavo volgendo la testa
a lei sempre in piedi dietro di me. Intanto, annotava fuorisamente
su un suo quaderno quanto le dicevo.
- Dunque la levatrice chiamò mio padre, don Gustavo Macrì,
geometra, da Cursi, Curse o Curze in dialetto, l'abitante Cursiatu
o Cursiotu e Cursiata la donna non suffissi greci, Cursiao in grico,
forse da un reduce, pure lui un Cursius o Curtius; ma io credo stazione
di posta, per dove passarono i Sefarditi espulsi dalle Spagne, donde
in esso paese esistono una via Ghetto e un Largo Alogne, forse dallo
spagnolo Alueñe. E di origine spagnola era la mia nonna materna
donna Rosa Sances, così corrotto l'apellido Sanchez, defunta
giovane, di polmonite; da Alezio. Mio padre, dunque, stanziava nella
camera accanto in via Domenica Rosa Garzia, nobildonna magliese pure
lei di origine spagnola. Scusi, mi sto confondendo; in quella via
ci andammo dopo.
Sentivo quasi di delirare e mi ero dimenticato della signora canadese,
la quale mi richiamò:
- Scusi, signor Macrì, veniamo al sodo. Che cosa accadde?
- La mammana si mise a urlare: "Ton Custau, veni, veni, ca lu
criaturu sta more. Mmanisciate". Mio padre si precipitò
sgomento con le braccia spalancate come usano i soccorritori. "Timme
cce ttocca cu fazzu. Ssignurìa sai l'arte". "PìjaIu
pe lli peti e scotilu. Mena, mena". Mio padre mi afferrò
per il piedino destro, mi scrollò finché io emisi il
grido esistenziale d'ogni essere che dal mare viene questo mondo secco
e euclideo, sì che mi salvai alla vita fino a questo momento.
Miss Elisabeth mi aveva ascoltato partecipe e trepidante, ma si riebbe
dubitante:
- Mi scusi, don Oreste, ma che cosa c'entra questa faccenda dei suoi
piedi con il suo cranio? Non capisco bene.
- Questa che le ho raccontato è una delle due versioni del
mio ingresso nel cronotopo dell'esistenza... Mi interruppe: - Ha detto
cronotopo? Aspetti che io annoti bene... - Faccia pure. Dicevo che
quella che le ho narrato è la prima versione del mio primo
respiro vitale, la conclusione del travaglio corporeo-animico di mia
madre, donna Albina Bitonti da Montesano Salentino. Versione podica
perfettamente equivalente dell'altra cranica che ora le racconterò,
dato che entrambe riguardano le mie due estremità che si rigiravano
indifferentemente nella placenta, almeno io credo. Per mostrarle l'effetto
dello scotimento paterno io dovrei scalzarmi, ma mi creda sulla parola.
A causa dello stiramento subìto da quella manaccia, pur benefica,
di mio padre, la quale aveva afferrato il mio piedino sinistro, questo
si allungò, sì che delle mie due scarpe la sinistra
ha numero 43 e la destra 41; rispetto ai piedi reali, giacché
nel cuoio sono entrambe 43 arrangiate all'uopo, predominando sempre
il numero maggiore.
- Ma - ribatté miss Elisabeth, che ora appariva turbata e inquieta
- qual è l'altra versione? Suppongo che riguarderà questa
sua testa.
- Restò un segreto di famiglia, un mistero dentro il mito folcIorico
Salentino e arcaico, della testa normale del neonato, e anzi piccola,
ben formata, liscia e immune, senza ozzi, volevo dire bernoccoli,
bubboni, enfiati ecc., peggio se sono incavi e scanalature. L'incidente
al mio capo lo appresi, sotto giuramento di tacerlo, da una cugina
di una mia zia. Riprendiamo la scena. La levatrice urla, don Gustavo
accorre. Questa volta io mi affaccio dal ventre materno, non per i
piedi, ma per il capino, che mio padre afferra con la sua destra e
lo scuote, mentre il mio corpicino penzola e oscilla paurosamente.
in tal guisa, il pollice, dito più grosso, lasciò immune
la curvatura dell'osso parietale sinistro, laddove il dito medio,
il più lungo ed energico, s'impresse sul molle osso parietale
destro provocando l'affossamento che lei ha avvertito dianzi sotto
la sua mano; per fortuna restò indenne la fontanella.
- Ma, signor Macrì, quale delle due versioni è la vera,
dato che lei sarà uscito o per i piedi o per la testa, stando
alla meccanica di tale estrazione?
- Io ho sempre creduto che sono vere entrambe, come è vero
che noi qui stiamo diritti e capovolti agli antipodi dove pure restiamo
diritti, e viceversa. La prova sta nell'oblio da parte della levatrice,
la quale, da me più volte interrogata, non ricordava i particolari
di quel per lei tragico momento. Infatti, la dimenticanza neutralizza
più esposizioni di una stessa verità, le quali pertanto
son tutte vere. Certo, quella capitale (in senso etimologico), mi
è più segreta e intima sentimentalmente. Quando mi tocco
quest'incavo mi pare oscuramente di risentire forte e buona la mano
paterna. Rammento che nelle grandi occasioni mio padre mi dava il
viatico assestandomi benedicente un colpetto con la mano sulla testa;
così quando diciassettenne partii per l'Università (era
scoppiato un furioso temporale e mi mancò il respiro) o dopo
aver detto di sì alle nozze in quel di Torino o quando scesi
dalla cattedra terminata la prolusione, che egli chiamò profusione
al suo ritorno a Maglie. Era la stessa mano che disegnava e illustrava
con perfetta calligrafia i suoi progetti, piantine colorate e schizzi
urbani e campestri, come le grandi volte a vela delle fresche cantine
salentine; da cui traevo lezione dietetica e mentale di esattezza
geometrica, con cui percepire e imprimere la forma ideale o archetipo
delle cose, ch'io apprendevo da Dante e dal Ficino; donde il titolo
Esemplari di quel mio primo libro, e mi basti il ristretto leopardiano
in un pensiero: "La verità è nel centro del triangolo;
ivi, sepolte in una quiete profonda, abitano le somiglianze e gli
esemplari delle cose, che furono e che saranno". Lo ricordo a
memoria. Eco della Trinità da Giacomo smarrita e del di essa
occhio centrale.
Miss Elisabeth appariva commossa per qualche contagio:
- Ora mi ricordo e mi chiarisco un suo vocabolo negli Esemplari, in
contrasto con l'idea suprema e perfetta, alla quale lei ha accennato:
il "corpicciattolo", che esiste nella sua "ora cotidiana".
- Sì, nell'"hic et nunc" sta e si aggira il somàtion
degli stoici, piccolo corpo, corpicciolo, corpicino, e in Plutarco
anche cadavere, giacché si rimpicciolisce vieppiù con
l'età e si secca nella morte.
Bene! noto che ha capito tutto. Fu la squallida e desolata filosofia
esistenziale sottocutanea alla nostra letteratura di quei tempi d'inanizione
e prigionia; per cui risalimmo all'innocenza e all'Eldorado della
nostra infanzia, su su fino agli alimenti dei quali si erano nutrite
le nostre madri. Albe vitali cantate dai nostri padri spirituali,
come Rebora, Ungaretti, Montale. innocenza purtroppo anch'essa mutilata
e deformata, insomma asimmetrica come i miei due piedi e le due zone
del mio cranio, aggiunta la disimmetria di destra e sinistra fra cranio
e piedi. Sono, ormai, non un anziano, ma un vecchio; procedo incurvato
con le gambe e le braccia alquanto spalancate a equilibrarmi, scancatu,
un po' ebete e un certo rictus ridentino. Tornato a Maglie per breve
visita l'anno scorso, una vicina di casa, mia coetanea che fu fanciulla
da me ammirata, ebbe a dirmi stupita: "Don Oreste, comu ssimiji
a ton Custau!".
Sussultai, in quanto avevo preveduto tale impressione. Rientrai subito
in casa, che fu la nostra, restato solo mio fratello con i suoi; e
mi contemplai nello specchio dell'armadio grande della camera da letto
genitoriale; e in me vidi mio padre, anzi senza di me, che ritornava
dalla campagna percorsa a gran passi divaricati. Non la sua caricatura
filiale, ma lui stesso, curvo e a gambe aperte, sorridente; poi col
suo bicchiere d'acqua fresca e un dito di caffè contro la polmonite,
tracannato. E così desino in me ipso, giacché nessun
figlio maggiore (deve essere maggiore) sarà mia caricatura,
e un figlio del figlio in saecula saeculorum. Señorita, mi
scusi il ridicolo bozzetto familiare; nessuno, purtroppo, è
padre e figlio di se stesso.
Miss Elisabeth apparve nuovamente cambiata di umore; appariva molto
divertita senza accorgersi che mi ero rattristato.