Tra
l'aprile e il maggio del 1797 la città di Lecce visse giorni
fausti e festosi. Le cose andarono così. Era previsto che le
nozze tra Francesco I di Borbone, figlio del re Ferdinando I, e Clementina,
arciduchessa d'Austria, fossero celebrate a Foggia; e proprio in questa
città la Maestà del Re aveva preso dimora, in attesa del
felice avvenimento. Ma siccome il viaggio dell'arciduchessa era lunghissimo
e disagevole, e i preparativi andavano per le lunghe (era, infatti,
il mese di aprile, e il matrimonio fu poi contratto solo nel mese di
giugno), il buon re pensò di fare un salto nella relativamente
vicina Terra d'Otranto, qui da noi, insomma, a Lecce e nel Salento,
regione che gli era sempre stata più cara di altre. Era il 23
aprile (1797), quando Ferdinando entrò in Lecce, seguìto
nientemeno che dal ministro John Francis Edward Acton e da quattro solenni
maggiordomi, nonché da numeroso sèguito subalterno. Non
è difficile immaginare le entusiastiche accoglienze della città,
Vescovo, Sindaco, Autorità varie, nobili e popolazione intera;
e queste accoglienze furono con altrettanto entusiasmo reiterate una
decina di giorni dopo, quando a Lecce giunsero la regina Carolina e
il figlio Francesco, il promesso sposo, richiamati dall'affettuosa cordialità
del re. Il quale, per suo conto, aveva già reso visita ai Celestini,
alle monache di San Giovanni, al monastero di San Niccolò e Cataldo;
e aveva partecipato a una battuta di caccia, toccando poi anche San
Cesario, Mesagne e Brindisi. E proprio a Brindisi, il 9 di maggio, lo
raggiunse la sua augusta consorte col figlio; la quale aveva lasciato
dietro di sé un profumo di signorilità cordialmente cortese
e generosa: "I leccesi - scrive a questo proposito Pietro Palumbo
nella sua amabile Storia di Lecce (Stabilimento Tipografico Giurdignano,
1910, p. 277; ristampa anastatica, 1974) - ammirarono la sua bellezza
e la squisita cortesia, per cui facilmente si faceva baciare la mano
e donava largamente".
Le Loro Maestà si recarono poi insieme a Taranto, dove insieme
giunsero il 10 maggio. Certo furono giorni memorabili per tutta la città
di Lecce, e specialmente - è ovvio - per la nobiltà e
l'alta borghesia; si ballò, si cantò, si svolsero "accademie"
di poesia, si suonò, furono sparati fuochi pirotecnici "accesi
da un bolognese", ci informa ancora il Palumbo; e, a memoria, furono
anche coniati quattro medaglioni d'oro e offerti all'amata e ammirata
regina.
Non è improbabile che proprio in questo periodo fosse venuta
a Lecce una compagnia di commedianti, a collocarsi opportunamente nel
quadro della generale allegria e ad offrire ai bravi leccesi l'ipotesi
di una goduria teatrale e scenografica. Ed abbiamo notizia che in questa
compagnia spiccava, per bellezza e per competenza d'arte, quella che
comunemente viene qualificata (o veniva) la "Prima Donna".
Non si smentì, in quella occasione, la ben nota sensibilità
dei leccesi ai potenti richiami della bellezza muliebre, o meglio del
fascino femminino; perché, effettivamente, ci fu un tale - purtroppo
non ne conosciamo il nome, ma in fondo questo ha un'importanza molto
relativa! -, che tentò l'approccio alla bella signora (donna
di teatro, poi!), usando la sempre affilata arma del denaro. Ne ho trovato
il documento no, ma la indiscutibile testimonianza in un manoscritto
della nostra Biblioteca Provinciale, il n. 23; nel quale, in una delle
ultime carte non numerate, si legge la seguente didascalia: "Nel
1797 arrivò in Lecce una compagnia di comedianti. Da una persona
fu offerto alla Prima Donna oncie otto, affinché condiscendesse
alle sue voglia; la quale ricuso una tale offerta, per cui uscì
il presente sonetto". Il manoscritto, che contiene le cronache
leccesi, credo autografe (ma la questione va approfondita), del Buccarelli,
è press'a poco coevo; e dunque la testimonianza, riportata qui
con qualche minima, insignificante modificazione grafica e interpuntoria,
può essere senz'altro considerata fededegna. Ad essa segue immediatamente
il sonetto annunziato, in dialetto leccese (siamo, si noti, nel 1797),
che giova qui riprodurre con assoluta fedeltà, diplomaticamente:
Caza, ca è
mutu autu lu scannieddu,
Donna Teresa mia, sì male nnata
èberdate lu mieru è muscatieddu
Ma lu priezzu ciai pustu è scuppettata.
Lu maazenu è nu picca larghiceddu
La cantina, se dice, ca è spundata;
e poi, se usta nquai lu spuntatieddu
Chu de quiddu ci dae de lu buccata.
Se campa a Lecce nnu picca strittuliddu
e se siecuti tie dè stà manera
Nu sacciu se nde indi squarche nziddu
Szomma sienti à mie, se oj faci fera
Cumenzalu a nu priezzu ducicieddu
e minti allegramente la pandera.
Tale e quale.
Avvertirò subito che il puntino soscritto alla consonante d
per rendere il tipico e particolare suono cacuminale esistente in
Lecce e nel Salento del Sud sostituisce il taglio della stessa consonante
(nella sua gambina verso l'alto), qui, nel manoscritto, complicato
nel sistematico svolazzo. Informo inoltre che al v. 9 nella parola
strittuliddu la seconda i è corretta su un precedente ie (cioè,
prima si leggeva strittulieddu); e che al v. 14 l'incredibile Szomma
è parola di difficile lettura al suo inizio, risultato di un
tentativo di correzione andato a male per macchia. Questo ci servirà
poi per restituire la lezione filologicamente più legittima
e corretta.
Ma l'episodio non si esaurisce con questo solo sonetto, che or ora
è qui stato diplomaticamente trascritto, ma continua e si chiude
con un altro (che pure trascriviamo con fedeltà assoluta),
preceduto da questa didascalia: "Risposta all'anzidetto sonetto".
Eccolo, tutt'intero.
L'aj scarrata:
n'è bautu lu scannieddu
No: nu su stata mai la mmalennata.
Ciucciu; senza cu saj se è muscatieddu,
Dici ca lu sta binddu à scuppettata
Sienti: se lu Maazenu è larghiceddu
Nu mporta. La cantina n'è spundata;
Ustate comu ulivi spuntatieddu,
Marituma lu je de la buccata
Stescia Lecce quant'ole strittuliddu,
Marituma lu je de na manera,
Ca nu nde resta maj pè bui nu nziddu
Nzomma nu su benuta ffazzu fera,
Ncigna lu mieru tou chiù duciuliddu,
e scaffate de retu la Pandera.
Il sonetto è
tutto leggibilissimo, ed è certo in condizioni migliori del
precedente, per una oggettiva lettura. Preciserò soltanto che
al v. 7 la parola Ustate è di lettura difficoltosa; ed ha aiutato
alla sicura decifrazione l'equivalente del precedente sonetto (e cioè,
al v. 7 se usta). Così tocchiamo il principale carattere che
lega questi due componimenti, rimasti finora pochissimo noti, se non
inediti, a prescindere dal soggetto, unico.
Ed è la rispondenza per le rime, anzi delle parole-rima; si
sarà infatti notato che tutti i versi finiscono, rispettivamente
nei due sonetti, con le stesse parole, ad eccezione del v. 13; sicché
l'uno è in strettissima "tenzone" con l'altro, non
solo di contenuto - si diceva - ma anche di metrica e di stile, che,
in qualche misura, ne sono lo specchio tecnico. Qui è Donna
Teresa che risponde per le rime, appunto; e rintuzza colpo per colpo,
usando la stessa struttura dinamica, interna e lessicale, che sostiene
il sonetto di "proposta". Questo andamento tecnico è
facilmente rilevabile, e perciò non insisto; non senza sottolineare,
tuttavia, che esso determina in modo decisivo la collocazione della
tenzone entro la luminosa e divertente tradizione letteraria delle
tenzoni nel genere giocoso, tante e poi tante, felici e ridenti, su
su fino al Berni, e via ancora fino all'Angiolieri e compagni.
A questo punto è legittimo procedere alla restituzione critica
dei due sonetti, intervenendo dove è indispensabile intervenire,
e ammodernando moderatamente la grafia in modo da rendere agevolmente
leggibile il sonetto anche a un comune lettore. L'intervento più
bisognoso di motivazione viene richiamato dalla mancanza di rima al
v. 13 del primo sonetto: ducicieddu, contro nziddu e strittuliddu.
Fortunatamente sovviene, in questo caso, la specifica tecnica delle
parole-rima in tenzone; e siccome al v. 13 del secondo sonetto compare
l'esatta rima duciuliddu, ne deriva di stretta conseguenza che la
parola-rima corrispondente al v. 13 del primo non può essere
ducicieddu, ma duciuliddu. Significativa infatti èanche la
sopra ricordata correzione al v. 9 del primo, dove un precedente (e
certamente sbagliato) strittulieddu è stato giustamente ridotto,
da mano coeva, a struttuliddu; e infatti, l'indiscutibile sicurezza
di qual fosse stata, e di quale sia, la vera e originaria rima ai
vv. 9, 11 e 13, nasce dalla parola nziddu, al v. 11, assolutamente
indeformabile (e questo, a prescindere dalla rispondenza con le parole-rima
dell'altro componimento). Notevole è che questo errore compaia
nel primo dei due sonetti, poiché ciò significa che
il manoscritto non è autografo e che verosimilmente è
copia effettuata da copista un po' frettoloso; infatti la rima sbagliata
al v. 13 (ducicieddu) e quella sbagliata e poi corretta (forse da
altra mano) al v. 9 (strittulieddu) sono dovute a automatica rispondenza
con la rima dei vv. 1, 3, 5 e 7 (anch'essi in -ieddu) e a inconsapevole
accoppiamento fonico, smentito palesemente dalla parola-rima nziddu,
indeformabile, al v. li. Più immediata e facile risulta, al
v. 12 del primo sonetto, la restituzione di Nzomma invece del pasticciato
Szomma, sulla base dell'identica parola al rispettivo v. 12 del secondo
sonetto: "Nzomma nu su benuta ecc.", secondo la già
rilevata tecnica strutturale di contrapposizione tenzonatoria battuta
contro battuta. Obbligatorio poi mutare il de lu buccata (v. 8, primo
componimento) in de la buccata. Ed ecco come, a mio giudizio, in grazia
dei suddetti interventi e dell'ammodernamento moderatamente grafico,
dovrebbero esser trascritti i due sonetti, che vengono anche corredati
di traduzione, necessaria per i non indigeni, ma forse anche per qualche
indigeno.
I SONETTO
Caza, ca è
mutu / àutu lu scannieddu,
donna Teresa mia sì 'malennata!
E' berdate, lu mieru è muscatieddu,
ma lu priezzu ci hai pustu è scuppettata!
Lu maazenu è nu picca larghicieddu,
la cantina se dice ca è spundata;
e poi, se / usta nquai lu spuntatieddu,
'chiù de quiddu ci dae de la buccata.
Se campa a Lecce nnu picca strittuliddu;
e se siècuti tie de sta manera,
nu 'sacciu se nde indi squarche nziddu.
Nzomma, sienti / a mie, se òi 'faci fera:
'cumenzalu a nu priezzu duciuliddu,
e minti allegramente la pandera.
II SONETTO
L'hai scarrata:
n'è bàutu lu scannieddu.
no, nu su' stata mai la mmalennata.
Ciucciu, senza cu 'sai se è muscatieddu,
dici ca lu sta 'bindu a scuppettata?
Sienti: se lu maazenu è larghicieddu,
nu mporta; la cantina n'è spundata;
ùstate, comu ulivi, spuntatieddu,
marìtuma lu jè de la buccata.
Stescia Lecce quant'òle strittuliddu;
marìtuma lu jè de na manera,
ca me nde resta mai pe 'bui nu nziddu.
Nzomma, nu su' benuta ffazzu fera;
ncigna lu mieru tou chiù duciuliddu,
e scaffate de retu la pandera!
Càspita, che è molto alto lo sgabello, / donna Teresa
mia così carestosa! / E' vero, il vino è moscatello,
/ ma il prezzo che hai posto è una schioppettata! / Il magazzino
è un po' larghetto, / la cantina si dice che è sfondata;
/ e poi, si gusta qui lo spuntatello, / più di quello che dà
della boccata. / Si campa a Lecce un poco strettarello; / e se continui
tu in tal maniera, / non so se poi ne vendi qualche goccio. /Insomma,
senti a me, se vuoi far fiera: comincialo a un prezzo un po' più
dolce, e metti fuori allegramente l'insegna.
Sei fuori carreggiata:
non è alto lo sgabello; no, non sono stata mai la carestosa.
/ O ciuco, senza saper se è moscatello, / tu dici ch'io lo
vendo a schioppettata? / Senti: se il magazzino è larghicello,
/ non importa; la cantina non è sfondata; / gùstati,
come volevi, lo spuntatello, / mio marito lo è della boccata.
/ Stia Lecce strettarello quanto vuole, / mio marito lo è d'una
maniera, / che non ne resta mai per voi un goccio. / Insomma, non
son venuta per far fiera; / comincia il tuo vino più dolcetto,
/ e quell'insegna, schiaffatela dietro!
Un simpatico e
divertente episodio, anche se un po' banale; e certamente due sonetti
molto belli, scritti in una lingua fresca e viva ancora oggi, non
solo per forza di natura, ma anche per forza di un'arte, la quale
risulta eccellente alla prova, così sapiente e felice nelle
strutture giocose, così piccante e pirotecnica nell'esecuzione.
L'autore, chi sarà mai? perché sarebbe sciocco e ridicolo
credere che i due sonetti siano stati composti rispettivamente dai
due soggetti implicati nella vicenda: il primo dal "proponente",
subito dopo il rifiuto e comunicato a lei; il secondo dalla Prima
Donna, illecitamente appetita, in scherzosamente analoga difesa più
della propria condotta, che del proprio onore.
No, no; qui c'è una mano, e una mano sola, esperta di tecnica
letteraria e di tradizione giocosa, e un poeta, o sia pure verseggiatore,
di notevoli capacità. Chi sarà mai? Nicola Bernardini,
il quale s'è occupato di sfuggita di questi due sonetti nella
introduzione al suo Francescantonio D'Amelio, i suoi tempi e le sue
poesie (Lecce, Stabilimento Tipografico Giurdignano, 1909, pp. 22-24),
fa il nome di quel grande poeta dialettale leccese, coprendosi tuttavia
le spalle sotto l'autorevole nome di Vittorio Imbriani; ma prudentemente
e saggiamente aggiungendo: "Elementi per dire che la satira sia
del D'Amelio, io non ho, meno l'asserzione dell'Imbriani, che la ripeteva,
ritengo, dal Castromediano" (p. 24).
Ora, all'Imbriani le notizie sul D'Amelio furono fornite da Sigismondo
Castromediano e da Luigi De Simone per una recensione, che egli avrebbe
scritto sulla Nuova Antologia, della seconda edizione delle Puesei
(1868); e la recensione infatti uscì in quello stesso anno
1868 (vol. IX, pp. 628-629). Però il De Simone ci fa sapere,
fortunatamente, come effettivamente andarono le cose: "Io fornii
- egli afferma - a Vittorio Imbriani notizie del D'Amelio, pella sua
pubblicazione riguardante il dialetto leccese, nel suo bel lavoro
dell'Organismo letterario (Lecce e i suoi monumenti, nuova edizione
postillata da N. Vacca; Lecce, Centro Studi Salentini, 1964, p. 282);
anche informando: "Io ho fatto conoscere dopo 34 anni le Puesei
ai letterati napoletani" (p. 280). A inediti e ad attribuzioni
non s'accenna nemmeno. Dunque, l'assegnazione al D'Amelio di questi
due sonetti è solo frutto di un'impressione di gusto da parte
dell'Imbriani, anche se non sarebbero certamente indegni di tale paternità.
In realtà, scava e scava, non c'è pietruzza sulla quale
possa, sia pure in pericoloso equilibrio, poggiare ipotesi siffatta.
Dire che tuttavia non la si potrebbe escludere, è lavorare
sulle ragnatele e arrampicarsi sugli specchi. Perdita di tempo. La
verità è che i due sonetti appartengono ad ignoto autore,
anche se meriterebbe davvero di essere conosciuto, per averne scritto,
presumibilmente, anche degli altri. E donna Teresa, quella "dorma
Teresa mia" più o meno "malennata", chi sarà
stata mai? Dove sono ora le sue ossa e quel suo splendido corpo -
e lasciamo da parte la sua fascinosa arte, il suo pericoloso, ma certo
interessante mestiere di donna di teatro -, che spinse un facoltoso
leccese a proporle un baratto di prostituzione? Il già ricordato
Bernardini, nell'opera sopra citata, non si perita di indurre il nome
di "donna Teresa Battaglia", un'artista che poi fu madre
di Don Cesare Balsamo, genialissimo compositore leccese di musica,
morto qualche anno fa" (pp. 23-24; siamo nel 1909). Ma sulla
base di che? Non lo sappiamo; ed egli precisa, stranamente:
"Qualcuno mi assicura che
". Ahimè, troppo
poco! Piccolo mondo scomparso del tutto, fantasmi riaffioranti quasi
dall'aldilà.
Viene in mente, sia pure per un caso di proporzioni così ridotte,
il fatidico "Muor Giove, e l'inno del poeta resta"; con
l'aggravante che questa volta è morto non soltanto Giove, sibbene
anche il poeta.
Ma l'inno rimane lì, indisturbato: quei due sonetti scritti
in strettissimo vernacolo così schietto e limpido, e ancor
oggi vivi e freschi a distanza di due secoli di sepoltura e d'oblio
pressoché totale. Vivi per quella loro esattezza geometrica;
per quelle corrispondenze contrappuntistiche innervate di ironia grassottella
e di popolaresco sarcasmo, per quel rincorrersi delle parole-rima
in divertente giuoco fonetico fra quartine e terzine; per quell'andamento
metrico agile e irrefrenabile nel suo tipico passo di balletto, per
il lessico energico e vitale in un linguaggio, in cui l'allusività
diventa condizione determinante di esistenza, e le metafore scherzose,
quasi concrescendo su se stesse, si susseguono e si rincorrono in
un continuo gioco d'ambiguità: lo "sgabello" troppo
alto, il vino "moscatello", il prezzo da "schioppettata",
la preferenza per il vino "spuntatello" rispetto a quello
che dà "della boccata", il "magazzino"
già larghetto, la cantina addirittura "sfondata",
i pregi di "rnarìtuma", e via dicendo fino alla esplosiva
popolaresca volgarità della conclusione ("e scaffate de
retu la pandera!"). Un episodio banale si tramuta, in sostanza,
in un niente affatto banale episodio poetico.
E intanto, sullo sfondo fioriscono i fuochi pirotecnici per la venuta
del re, le sale s'illuminano di belle donne intorno alle grazie della
regina, riecheggiano i suoni della festa. Sempre che l'episodio si
sia verificato tra l'aprile e il maggio del 1797, nei giorni della
visita di Ferdinando I e della regina Carofina a Lecce. Ma neanche
questo, pur se molto probabile, è assolutamente sicuro. E proprio
me ne dispiace.
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