§ Quanteitalie

E fu il Sud




A. Provenzano, E Albini, E. Rosati
Coll. R. Alessi, G. Mastria, B. Cardignano



Mentre in Italia i temi della vecchia (e mai superata) "questione meridionale" sembrano rimossi per stanchezza intellettuale, per disimpegno politico, e persino per fastidio e insofferenza verso tutto ciò che sa di irrisolto e di "retro" nella storia nazionale, autori stranieri continuano a condurre indagini nel corpo vivo del nostro Paese, offrendoci nuove interpretazioni e stimolanti ipotesi di lavoro e di ricerca sui filoni apparentemente inariditi del più antico problema della penisola. Così fu per Vera Lutz tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60; così è per Robert D. Putnam, che è uno studioso contemporaneo. La prima ebbe anni di celebrità per gli studi sull'amoral familism che avrebbe condizionato storia, economia e società del Mezzogiorno; il secondo incentra gli studi sulla tradizione civica delle regioni italiane e fa risalire all'età comunale la nascita delle cosiddette "due Italie". L'amoral familism rientra ormai, in buona parte, nella preistoria di ritorno, ossia agli albori del meridionalismo democratico sviluppatosi a partire dagli anni del dopoguerra. Lo scavo nella storia comunale e nelle sue proiezioni sulla "questione", invece, anche se non del tutto nuovo, ha il merito di aver riaperto un discorso che sembrava - ed in effetti era - smarrito tra i livelli non proprio esaltanti del dibattito politico degli anni '90.
Cosa dice in buona sostanza Putnam? Egli fa risalire, non senza alcune ragioni, all'età comunale l'origine dello squilibrio fra Nord e Sud. Sintetizza Rosario Villari: "Grazie alla formazione dei Comuni liberi e autonomi, l'Italia centro-settentrionale divenne, tra il XII e il XIV secolo, l'arca più progredita dell'Europa tardomedioevale. La solidarietà ed il civismo furono gli ingredienti creativi essenziali della civiltà comunale. Nello stesso tempo si formò nel Mezzogiorno uno Stato monarchico, dapprima sotto l'egida dei Normanni e in seguito degli Svevi e dell'Imperatore Federico II. Al contrario di quel che avvenne nel Centro-Nord, il potere sovrano, che si basò essenzialmente sull'alleanza con il baronaggio, schiacciò l'autonomia e la libertà dei Comuni che vi si erano formati. Nel Sud vennero quindi a mancare quei fattori di civismo e solidarietà cittadina che caratterizzarono o anche determinarono lo sviluppo dei Comuni dell'Italia centrale e settentrionale".
Civismo e solidarietà come categorie assolute, dunque, che fecero avanzare il Nord, mentre il Sud, che ne era quasi sprovvisto, non poté che arretrare. Ma fu proprio così? Civismo e solidarietà furono fenomeni esclusivi dell'epoca, come sembra adombrare l'indagine sociologica di Putnam, o non piuttosto due dei fattori del processo storico, quale realmente fu? E la vicenda dei Comuni, con la funzione che svolsero, e il pieno significato che ebbero, può essere avulsa dal quadro complessivo della civiltà italiana ed europea del tempo? E d'altra parte: il "centralismo monarchico" soffocatore di presunte o reali autonomie comunali nelle regioni meridionali può spiegare il mancato sviluppo sociale e dello spirito civico del Sud? Se così fosse come potremmo comprendere, ad esempio, la storia della Francia o della Castiglia, Paesi in cui l'accentramento del potere statale fu "fattore decisivo di consolidamento della solidarietà collettiva e dello spirito di appartenenza alla comunità"?
Il nocciolo del problema è in un equivoco che la storia italiana si trascina da sempre fra le quinte, e che è sostanzialmente questo: i Comuni italiani furono per davvero più che democratici; e tuttavia essi esclusero dai diritti politici non pochi settori della popolazione cittadina. Nei Comuni si manifestò, inoltre, un forte spirito corporativo (e lo aveva già notato Gramsci). In altre parole: civismo e solidarietà si fermavano all'interno della città. Oltre le mura, pagavano dogana, e a carissimo prezzo. Nei confronti della campagna esistevano soltanto, alternativi, o il dominio o la separazione. Chi viveva nei reticoli del contado non aveva diritti di cittadinanza, perché i Comuni dell'Italia centro-settentrionale agirono nei confronti del contado in termini di subalternità e di inferiorità. E anche da qui, sostiene Villari, derivarono conseguenze di lungo periodo.
E la prima conseguenza fu una prospettiva fallimentare per miopia politica. Lo sviluppo economico, sociale e civile dei Comuni del Centro-Nord, infatti, consentì loro di opporsi con successo al tentativo di Federico II, nella prima metà del Duecento, di creare in Italia uno Stato unitario. E protagonisti furono proprio i Comuni della Lombardia e della Toscana, i quali tuttavia non ebbero la forza di svolgere in seguito la parte propositiva, o semplicemente positiva, dell'opera, cioè di sostituirsi alla monarchia meridionale nel progetto e nell'impresa dell'unificazione. L'opposizione contro l'idea unitaria della monarchia meridionale non fu neanche condotta in proprio, perché si corse in aiuto della nobiltà francese che intendeva conquistare il Sud. L'invasione angioina del Regno meridionale, infatti, venne realizzata con l'aiuto dei banchieri fiorentini e delle milizie comunali centro-settentrionali. Il sistema di Comuni e di Signorie che emerse da questa lotta vincente non riuscì a superare gli orizzonti angusti dello Stato cittadino e di conseguenza si precluse la stessa possibilità di garantirsi la continuità dello sviluppo. Tant'è che gli Stati italiani non riuscirono poi ad evitare la catastrofe che ai primi del Cinquecento condusse alla fine della libertà in quasi tutta l'Italia, e soprattutto in quella Lombardia che aveva capeggiato la lotta furibonda contro il progetto imperiale.
Allora, rileva Villari, "chiamare in causa il rapporto tra la città e il suo contado, tra le città ed il rimanente territorio in gran parte dominato dalle signorie feudali, tra il Nord ed il resto dei Paese significa in definitiva porre il problema del rapporto tra la civiltà comunale ed il potenziale sviluppo della nazione italiana; o, se vogliamo, tra la civiltà comunale e lo sviluppo dello Stato moderno. Perché non si realizzò allora in Italia, malgrado tutte le anticipazioni teoriche e pratiche, un sistema assolutistico nazionale? Su questo punto si creò in effetti il divario tra l'Italia e l'Europa moderna; su questo punto si bloccarono le premesse create dalla civiltà comunale".
E il Mezzogiorno? Le basi del suo sviluppo non furono disgregate tanto dalla mancanza di autonomia, quanto dalla debolezza della monarchia. Il baronaggio, arroccato nei suoi privilegi e privo di spirito pubblico, mantenne per secoli posizioni anarchiche e persino semi-illegali. Ma all'origine del male oscuro del Sud non furono i sovrani normanni, e meno che mai Federico II, i quali, se limitarono la libertà dei comuni, comunque tennero sotto controllo i baroni e affermarono l'autorità e l'autorevolezza dello Stato. Una spiegazione che ha avuto un gran peso è quella data da Benedetto Croce, il quale scrisse:
"Il Vespro siciliano, che ingegni poco politici e molto rettorici esaltano ancora come grande avvenimento storico [...] fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza. Non la conquista angioina, ma quella ribellione e distacco della Sicilia infranse l'unità della monarchia normanno-sveva, ne fiaccò le forze, le rapì la sua missione storica ...".
La nemesi storica non lasciò scampo alcuno. Tre secoli e mezzo di dominio straniero e di morte della libertà (e delle libertà) non hanno cancellato le conquiste dell'età comunale e il fascino che esse conferiscono ancora oggi al nostro Paese, ma hanno senza dubbio avuto una profonda influenza negativa sulla società italiana. Fra l'altro, sempre attenendoci all'interpretazione puntuale di Gramsci, hanno ribadito il distacco tra intellettuali e popolo che fu caratteristico dell'umanesimo italiano e che continua a creare non pochi problemi allo sviluppo politico e civile del nostro Paese. Sosteneva Federico Chabod che l'esaltazione del senso civico come fattore di civiltà e di progresso è pienamente giustificata e universalmente valida per il passato e per il presente. Ma la storia italiana è la precisa dimostrazione del fatto che il civismo, elemento fondamentale della civiltà comunale e uno dei più importanti fenomeni originari della storia italiana, non è una garanzia sufficiente se non si accompagna ad un forte e radicato senso della nazione.

Quanteitalie

Una e divisibile

Nel 1796 l'Amministrazione generale della Lombardia bandì un concorso che si basava su un quesito insolito: "Quale dei governi liberi conviene alla felicità d'Italia". Al vincitore venivano assegnati duecento zecchini d'oro. Li vinse chi auspicò "una sola repubblica indivisibile".
Ma ci fu chi si schierò per una penisola unita, ma simultaneamente distinta in dieci repubbliche speciali.
Contrapposizione non eccentrica, nella storia italiana: e basti pensare alle tensioni preunitarie, ai contrasti tra Cattaneo e Mazzini, al centralismo burocratico che coinvolse sia la Destra storica sia la Sinistra; e al contributo federalista che diedero i meridionalisti, Salvemini che si batté inutilmente per l'imposizione fiscale decentrata, e Sturzo, e lo stesso Lussu per il quale lo Stato federale non poteva essere "il trionfo di un gruppo di dottrinari o la concessione elargita per conciliazione, ma una conquista consapevole reclamata e difesa dalle varie collettività nazionali". E' un dato di fatto che il disegno di un Paese fondato su autentici poteri locali, chiaramente delineato nell'Ottocento dalle forze democratiche, è stato abbandonato dai socialisti e dai comunisti ed è stato invece ripreso, anche se con contorni profondamente diversi, a volte sconfinanti nel secessionismo e nel razzismo, da una forza conservatrice come la Lega. Con ogni probabilità, deideologizzati dalla crisi dei regime, i partiti hanno perduto la memoria storica. Che cosa sarebbe accaduto se i liberali, invece di fare ostruzionismo contro l'istituto regionale, si fossero schierati con Einaudi, il quale gridava: - Via i prefetti! - ? E se i comunisti, invece di correr dietro al consociativismo, avessero insistito su autentici poteri locali? E se i socialisti e i repubblicani, abbandonate le posizioni di rendita, avessero avuto nostalgia di Cattaneo, di Ferrari e di Pisacane?
La storia è andata in un'altra direzione. E, oltre tutto, la storia non si fa con i "se". "Se Giolitti non si fosse convertito tardi all'idea federale, non sarebbe stato sconfitto subito dopo il primo conflitto mondiale": questo accadde, ma chi può dare un'autentica ragione storica a questa affermazione? E solo perché maturarono tardi la concezione del federalismo tanti protagonisti della storia italiana furono sconfitti sul campo?

Quanteitalie

La terra della sera

"Padania ed Etruria sono bei nomi sororali, ma al Sud la Lega, attraverso il suo maleamato progettatore Miglio, nega anche un nome, limitandosi a chiamarlo spregiativamente Sud, un hic sunt leones, quando sarebbe rispettoso e augurale chiamarlo Magna Grecia, saltando così la troppo dolorosa, per loro e per gli altri, convivenza unitaria, voluta dai curiosi padri risorgimentali": parola di Guido Ceronetti. Il quale propone, d'acchito: in questo cambiar tutto di nome, la stessa Italia potrebbe ripigliare quel sublime nome di Esperia (Terra della Sera) che al suo profilo davano gli Elleni sull'altra sponda. Perché? "Se si dovesse fissare l'ora veramente italiana al di là dei fusi, sarebbe quella della compièta, come Dante la canta nell'attacco 'Era già l'ora', ottavo del Purgatorio. L'Italia - nonostante l'esibizione di un'autostrada detta del Sole - resta un'Esperia, luogo di elezione del salire dell'ombra, immagine della 'fatal quiete', un Occidente che arriva a sfiorare il Levante ma non ne è inghiottito". Stupenda immaginazione e poesia di uno spirito solitario. Esperia, egli dice, avrà sempre la sua unità invisibile e segreta; laddove come Italia siamo invece in pericolo secessionista, per mancanza di colla morale, per eccesso di demeriti dello Stato. "Eccoci arrivati, coi gangheri saltati, a discutere di autosquartamento, favorito dai subbugli che si sono scatenati in questa fine del XX secolo, adeguata alle sue infamie, ben preparata dalle sue tenebre sadiche".
Ma allora, che cosa tiene ancora unite Asiago e Otranto, Scilla e Portovenere, Agrigento e Stintino, Assisi e Ferrara e Amalfi e mille altri campanili peninsulari e insulari? L'unità politica italiana non è disfatta, sostiene Ceronetti: ma a tenerla insieme attualmente non sono tanto delle nevrotiche e svuotate istituzioni, o una costituzione con guardiani che ne rilevano caratteristica di "re nudo", quanto le innumerevoli stigmate di bruttezza che hanno fatto sanguinante, iperbolica piaga di tutto. "Di questo brutto, che ha funzione di colla amorale, potrei fornire elenchi piuttosto lunghi; non è tutto evidente, la superficie non ne mostra che una piccola parte. Spesso è tradito dai volti più comuni, abissi del brutto che ha scelto l'opacità. All'interno di questo brutto, che ha la forza di un partito totalitario e l'inconsistenza di un mulinello perpetuo d'irrealtà, si è accesa una lotta, cui mi piacerebbe dare per immagine il Laocoonte della Vaticana. Si sa che i serpenti vinceranno, tuttavia lo sforzo dell'uomo per sottrarsi al loro veleno e alla loro stretta è degno di attenzione".
Nel IV della Politica, Aristotele scrive che l'anima immortale dello Stato è nei suoi tribunali e nelle sue forze armate. L'Italia, a giudicare dagli spettacoli che offre, sembra
avere smarrito quest'anima. Allora a che punto è la notte? Non fatevi sviare dal brutto, avverte Ceronetti: il brutto imporrà solo repubbliche frolle, senza vera legge. Bisogna puntare decisamente su una Presidenza di tipo eltsiniano (che è d'angoscia, ma è la sola possibile). "Se avessi voce in grado di convincere, griderei a chi sia impegnato - come avvertito da un sogno - a lottare con l'anima sbrindellata dello Stato [ ... ]: cercate l'uomo, un uomo mai toccato dal potere, in qualche superstite ruga pensante di queste sporche, ingannate città. Quello è cambiamento vero: allora le tre repubbliche virtualmente fratricide, tendenzialmente suicide potrebbero ancora aspettare. Un Laocoonte uscito vivo dalla lotta mortale (resto scettico, la speranza è delle più esili, altri serpenti arriveranno) dovrebbe affrettarsi a consegnare il mazzo delle chiavi - meno due o tre - all'uomo oggi introvabile perché non cercato, all'illuminato che non si ubriacherà di economia e non si proclamerà ottimista". Alternative? Praticamente, nessuna: "Possiede argomenti monchi, diceva Piovene, chi ha forse un filo di ragione: infatti, non ho di meglio. Né vibro di fiducia".
Questa di oggi è una giungla più comoda, scriveva un uomo di lettere e di legge subito dimenticato, Dante Troisi. E a trarci fuori da questa giungla dovrebbe essere uno sherpa incontaminato: un poeta, un flautista di Hamelin, un Giasone, e meglio ancora un Teseo, che ci riporti alla luce, fuori dal labirinto? Lentamente, rifletteva Sciascia, stiamo arretrando a rimpiangere tutto, o quasi tutto, del passato. Se Repubblica di Magna Grecia dovrà essere, sogniamo Pericle e non il cardinal Ruffo. Noi che siamo andati per il mondo per fame, e dunque lo abbiamo conosciuto a fondo, ricominciamo dalla repubblica di Napoli del '99. E lasciamo a chi conosce quel mondo per business e per paradisi estivi il sogno mostruoso della Vandea.

Quante italie

Machiavelli fuori tempo massimo

"Per Machiavelli e altri suoi contemporanei il successo o meno delle libere istituzioni dipendeva dal carattere dei cittadini ovvero dalla loro 'virtù civile' ". Così si esprime Putnam. Ma quella formula machiavellica era già allora, all'alba del XVI secolo, inadeguata ad affrontare la crisi che aveva investito l'Italia.
Il Fiorentino esaltava la virtù civile, con un evidente riferimento all'eredità dei Comuni e allo Stato cittadino; e nello stesso tempo collocava al punto più alto dell'esperienza politica dell'Europa contemporanea la Spagna di Ferdinando il Cattolico e la Francia di Luigi XII e di Francesco I. Quanto mai palese la contraddizione: le due monarchie avevano realizzato l'obiettivo dell'unificazione nazionale, della libertà delle loro nazioni e della creazione di Stati moderni in base a principii diversi da quelli che avevano governato l'intera civiltà comunale. Sulla base, in altre parole, di un "patto costituzionale della corona" con la nobiltà feudale e con le altre componenti della società; come è stato osservato giustamente, "sulla base di una combinazione tra assolutismo e feudalesimo, entro la quale, pur nella permanenza di forti tensioni, si consolidò un senso civico che Putnam definirebbe orizzontale e verticale insieme".
Villari ricorda che come Etienne Pasquier si era posto il problema della sua nazione nelle sistematiche Recherches de la France, così lo stesso Machiavelli, alcuni decenni prima di lui, aveva parlato dell'Italia e pensato alla nazione italiana. Ma la sua concezione e quella dell'umanesino civile nel suo complesso, importantissime e anticipatrici sul piano filosofico-politico universale, restavano, sulla questione del civismo e sui problemi connessi, ancorate all'esperienza dello Stato cittadino. A conferma del modo in cui Machiavelli affrontò un problema che egli stesso riteneva con ragione fondamentale per lo sviluppo dello Stato e della società, basti ricordare che "nel suo vagheggiamento di un esercito basato sul popolo e nella sua intensa avversione per i mercenari e per le compagnie di ventura" era fuori tempo. Il ricorso alle truppe assoldate era consueto e dominante. Forza e solidità delle grandi monarchie nazionali, dalla Spagna alla Francia, si basavano proprio sull'impiego in grande stile dei mercenari. E questo non impedì il consolidamento di uno spirito civico nazionale in quegli Stati.

Quanteitalie

I compromessi del nuovo federalismo

Oggi, il fantasma del federalismo è tornato ad aggirarsi per l'Italia. Un fantasma più flessibile e meno saturnino di quanto si possa pensare. E ciò per due ragioni di fondo: perché il federalismo o è fiscale, oppure non è, perché non ci può essere federalismo politico con centralismo fiscale, che spegnerebbe ogni forma di autonomia; e perché le grandi imposte del sistema fiscale italiano sono da un lato (per ora) insostituibili, e dall'altro molto meno flessibili di quel che si crede, essendo imposte strutturalmente nazionali. Pertanto, le forze aperte al federalismo hanno possibilità d'incontro solo ed esclusivamente sul terreno del compromesso. Il federalismo spinto è impossibile. Un certo tipo o grado di federalismo può unire, e non dividere, il Paese e avvicinare politica e gente. Chiariamo perché.
Rispetto al modello di un federalismo fiscale potenziale, il modello italiano di finanza pubblica è esattamente l'opposto: è il contromodello, vale a dire il più verticale e orientale dei modelli possibili. Dice Guido Tremonti: la riforma fiscale del 1971-73 ha azzerato l'autonomia fiscale degli enti locali, trasformandoli in centri di spesa elettorale irresponsabile, trasferendo tutto il potere fiscale allo Stato, e infine spingendo lo Stato - caricato di un onere politico ed economico eccessivo - a fare sempre più massiccio ricorso al debito pubblico.
E' in questi termini che la democrazia è degenerata in cleptocrazia: i corpi politici rappresentativi - i Municipi, le Regioni, il Parlamento - essendo così progressivamente diventati centrali di intermediazione del debito, banche d'affari e di malaffari. Ciò che è soprattutto evidente, in questa realtà devastata, è il legame tra politica e finanza: la politica è degenerata perché la finanza era incontrollata, e viceversa. All'opposto, l'essenza del federalismo sta proprio nella ricerca del legame più stretto ed efficiente possibile tra politica e finanza. Sta nel budget: vale a dire nello strumento politico con cui si definisce chi fa che cosa nel modo migliore possibile. Tanto per fare un esempio basilare: i Comuni fanno i parcheggi, le Regioni o aggregazioni di Regioni fanno la sanità, lo Stato fa la difesa. Non si tratta di un modello sempre e ovunque perfettamente raggiungibile: richiede approssimazioni successive, strumenti diversi, compromessi creativi.
Secondo l'analisi di Tremonti, c'è un primo stadio di autonomia finanziaria possibile. Uno stadio che, del federalismo fiscale, può essere considerato iniziale: il municipalismo fiscale.
Il municipalismo è molto importante in generale. Scriveva il Tocqueville, al principio dell'800, nel suo fondamentale Democrazia in America: "Il comune è la sola associazione che sia così naturale che, ovunque sono riuniti uomini, si forma un Comune ( ... ). Senza istituzioni comunali può darsi bensì un governo, ma non ha ancora lo spirito della libertà". E' poi importantissimo in Italia, vista la nostra storia, e alla luce della nostra geografia economica e politica: l'intero territorio italiano è un'immensa arca metropolitana diffusa.
Dunque, municipalismo o federalismo fiscale di base può voler dire che le opere e i servizi locali si finanziano con tasse locali o con titoli di debito emessi a livello locale, tutto sotto la responsabilità degli amministratori locali liberamente e democraticamente eletti e oggettivamente responsabili. I Comuni non dovrebbero vivere, come finora hanno vissuto, soprattutto di trasferimenti statali, fatti per coprire "a piè di lista" le spese comunali, ma soprattutto di tributi locali, che a loro volta si pagano per finanziare le spese locali (e non quelle nazionali). Ad esempio, le tasse pagate a Lecce finanziano i parcheggi di Lecce, e non quelli di Roma e di Milano. E viceversa. Ciò vuoi dire che non basta più aggiungere alla finanza nazionale una parvenza di finanza locale (del tipo Iciap, Ici, eccetera). Si deve piuttosto smontare un mezzo di finanza nazionale, per ricostruirlo a livello locale.
Immediatamente sopra il municipalismo c'è il secondo stadio: quello del vero federalismo, per il quale sono possibili tutte le combinazioni politiche. Vi si possono delineare le cartografie più varie: Stato federale, Macroregioni, Regioni. Nella pratica, però, l'esercizio è molto più complicato perché -abbiamo detto - il federalismo o è fiscale o non lo è; e perché il fisco attuale è strutturalmente nazionale, e dunque non facilmente convertibile alle esigenze del federalismo più spinto. La gran massa delle imposte moderne è riscossa attraverso meccanismi di sostituzione (le ritenute sui Salari, sugli stipendi, sui depositi bancari, sui dividendi azionari, ecc.), di autoliquidazione (come nel 740 delle persone fisiche o nel 760 delle società), di traslazione (come nell'Iva). E i relativi flussi di gettiti non sono acquisiti dal fisco in funzione del luogo dove la ricchezza viene prodotta o è scambiata, ma in funzione del luogo dove ha la residenza o la sede chi trattiene, paga o trasla le imposte.
Ad esempio, l'Irpef degli operai di Cassino va a Torino; l'imposta sostitutiva riscossa sui depositi fatti presso le agenzie del Monte dei Paschi di Siena, che sono sparse in tutta la penisola, va in ogni caso a Siena. E così via.
Ciò significa: o si cambia radicalmente il sistema fiscale italiano, trasformandolo da sistema personale in sistema reale (in cui conta dove èeffettivamente svolta l'attività economica), cosa attualmente impossibile; oppure si devono fare dei compromessi. In specie, si deve accettare un federalismo fiscale che non si sviluppa linearmente sul piano della riscossione, ma solo residualmente, su quello della ripartizione dei gettiti fiscali. Ogni unità politica di riferimento - Stato, Macroregione, Regione - dovrà rinunciare all'idea di finanziare le proprie spese con proprie imposte; dovrà accontentarsi del riparto convenzionale (basato su parametri statistici) del gettito di imposte che sono nazionali.
Comunque si voglia articolare la nuova geografia politica invocata, dentro questo sistema fiscale non ci potrà mai essere federalismo puro, ma solo una serie di necessari punti d'incontro, o compromessi obiettivi, da graduare in funzione dell'ispirazione ideale propria di ciascuna forza politica: l'una un po' più municipalista, l'altra un po' più federalista; la prima un poco più incline alla logica del "sacrificio" (solidaristico nazionale: entro cui reimpostare in direzione moderna il problema del riequilibrio delle aree territoriali d'Italia), l'altra un poco più incline a quella del "beneficio" (particolaristico locale: entro cui reimpostare la questione del "Sud del Nord", cioè dello squilibrio creatosi tra Italia del Nord-Ovest e Italia del Nord-Est).
In termini concreti: le tavole del federalismo non sono state consegnate sul Monte Sinai. Allora, se proprio federalismo dev'esserci, sul tavolo del municipalismo-federalismo fiscale si può aprire una trattativa e si possono trovare combinazioni e graduazioni politiche finora forse impensabili, ma certamente utili per far tornare alla politica la nostra gente, disgustata dai politici. E dunque utili per la democrazia.

Quanteitalie

Ad est di Roma ad ovest di Milano

C'era una volta il Nord. C'era una volta anche il Sud. Poi il primo fece dietrofront, dicendo di volersene andare con l'Europa; e il secondo rimase disancorato e rischiò di andare alla deriva maghrebina. Infine, una parte del Sud, da brutto anatroccolo che era, diventò cigno; e una parte del Nord si lacerò la livrea e perdette, se non il titolo nobiliare, almeno il potentato. Fuor di metafora: l'antico "triangolo industriale" (Torino, Milano, Genova) è "il vecchio che resiste"; il Triveneto, l'Emilia, le Marche sono "il nuovo che avanza"; l'Abruzzo, il Molise, la Puglia, la Basilicata saranno "la terza via italiana al capitalismo".
Proclama Giuseppe De Rita: "Le novità salienti che abbiamo di fronte sono essenzialmente due: un primato crescente della parte orientale del Paese; e la tendenza a lavorare in extracorporeità". E poiché De Rita non è Amleto, chiarisce e precisa: "Parliamo tanto del Nord-Est. Noi siamo sempre andati a cercare un centro: Roma era il centro della programmazione, Milano era il centro dell'economia. E invece l'Italia economica - o almeno una parte di essa - stava sprigionando una specie di forza centrifuga: invece di rapportarsi con questi centri, intesseva una serie di relazioni estremamente proficue con le realtà che si trovavano ai propri confini. In questo modo la piccola imprenditorialità si è saputa cercare dei referenti esteri, mettendosi al riparo da molti contraccolpi che l'economia italiana stava subendo all'interno. Chi ha saputo far questo? Essenzialmente il Triveneto, l'Emilia, l'arca Marche-Abruzzo, la Puglia e ora anche l'arca lucana. Altre realtà della piccola imprenditorialità, per esempio la Toscana, invece non hanno saputo approfittare dello stesso fenomeno. Per il Nord-Est si è aperto, grazie all'elemento innescante che è stata la svalutazione, un duplice mercato: da una parte quello austriaco e tedesco, dall'altra quello dei Paesi del Centro e dell'Est europeo. Abruzzo e Puglia si stanno sempre più aprendo verso l'Albania e il Sud-Est europeo e, dall'altra parte, verso il Maghreb. La Basilicata ha il discorso Fiat e gli indotti connessi".
Questa grande vitalità espressa dall'Est della penisola ha scombussolato prima di tutto i cosiddetti "equilibri economici interni". Il centro, sicuramente, non è più Roma, ma non è neppure Milano, che al massimo può ambire ad un ruolo di mediazione tra i due blocchi che si vanno configurando a Nord (Est e Ovest). Perché esistono ormai due Nord, nei quali l'elemento discriminante è il tessuto di relazioni che ciascuna arca economica ha con i Paesi confinanti. Vien da pensare a una frase di Heidegger: "L'identità non è nel soggetto, ma nella relazione". L'Italia di oggi riesce a vincere solo se dà spazio a coloro che vanno in relazione.
Ma che cos'è l'extracorporeità deritiana? L'Italia ricca, quella che ora sta bene, tende a vivere con una sorta di circolazione extracorporea, appunto: fuori di sé. Per buona parte delle aziende che tengono, il sistema finanziario è tutto esterno, non si appoggia sull'Italia. Possono essere San Marino o il Lussemburgo o Dublino, ma è così. Il fatto è che queste aziende non vendono più soltanto il prodotto, ma anche tutta una rete di servizi alle imprese, che vanno dalla logistica all'assistenza tecnica e alla distribuzione, e quindi hanno bisogno di avere anche presìdi all'estero. E per giunta si va a lavorare nella terra del nemico, della concorrenza: nel Centro-Est europeo, in Corea, a Singapore, nel Marocco, in Albania, e via di seguito. Ebbene: i dati Istat confermano che le nostre esportazioni sono in crescita, e questo è i-in fatto che giova all'intera economia italiana. E' vero che una parte dell'occupazione viene data all'estero, dove peraltro il costo del lavoro è estremamente basso; ma si tenga presente che nessun imprenditore può trascurare i Paesi sviluppati, perché il grande consumo è lì, e non fa bene alla salute di nessuno far scadere questa realtà.
E per l'Italia del Nord-Ovest e del Centro? Dice De Rita: se analizziamo la tradizione capitalistica di queste due Italie (quella orientale e quella occidentale), notiamo che nell'arca del Triveneto e dell'Emilia la piccola impresa si è innestata su un terreno di solidarismo di matrice, rispettivamente, cattolica e socialista; nell'altra Italia, invece, siamo di fronte a un capitalismo tradizionale, duro, selettivo, competitivo. Ciò vuol dire, in concreto, che laddove esiste solo la grande industria, con una sua organizzazione del lavoro complessa, con personale numerosissimo, una quantità di quadri intermedi e dirigenti, lì nel momento in cui l'economia va male, per sopravvivere, per reggere nel mercato, ènecessario fare tagli, con tutta una pesante ricaduta sul piano sociale e dell'occupazione. La grande industria è in crisi perché non esistono più consumi di serie, ma consumi di nicchia. Non più un unico prodotto che si deve piazzare a tutti, ma una gran quantità di cose diverse, prodotte da soggetti diversi, per rispondere ad esigenze diverse. Per i grandi consumi di massa (automobili o elettrodomestici) forse ancora il consumo di serie può reggere, soprattutto se viene personalizzato, mirato a specifici bisogni; ma tutto il resto - dal viaggio all'oggetto di artigianato - è consumo di nicchia che, in quanto tale, procede da un'imprenditoria mirata e spesso piccola. Si deve anche dire che molte grandi industrie stanno riducendo in qualche misura il proprio "nocciolo duro" di produzione e preferiscono delegare molto fuori, a tutto quel sistema di relazioni di cui si è detto. Ma il processo è senza dubbio lungo, e per il Nord-Ovest non sarà senza traumi.
Per il Sud, invece, da quando è finito l'intervento straordinario, le cose sembrano andar meglio. Non c'è stato un crollo sanguinoso dell'economia; c'è stata una sorta di sano realismo che ha dato uno scossone, sprigionando energie insospettabili. E poi, esiste una giovane imprenditoria di grande qualità, con buone idee e molta voglia di fare. Il Sud, dice De Rita, è pur sempre parte di un mercato di consumatori forti, che nessuno ha interesse a far languire. Se solo il Mediterraneo cessasse di essere un muro e cominciasse ad essere un ponte...

Quanteitalie

Capitani di sventura

Quando, nel gennaio 1988, Raul Gardini varò la prima ristrutturazione del gruppo Ferruzzi-Montedison, il Financial Times osservò che il totale disprezzo verso la Borsa, gli azionisti di minoranza e il mercato finanziario connaturati all'operazione rivelavano il volto duro del capitalismo italiano. Un volto certamente arretrato, con caratteristiche di rapina, che il suicidio di Gardini ha reso anche tragico. Manipolazione dei bilanci, occultamento di perdite ingenti, speculazioni colossali, saccheggio delle risorse finanziarie della società all'insaputa e contro gli interessi dei soci, degli azionisti, del mercato: Marco Borsa e Luca De Biase (autori del libro Capitani di sventura sul capitalismo italiano degli Anni Ottanta) sottolineano che la storia della gestione Gardini-Ferruzzi si può riassumere drammaticamente in due prezzi di Borsa: dalle 4.000 lire del titolo all'epoca del grande boom alle 400 dei giorni della tragedia. Una catastrofe. Che tuttavia non era stata generata soltanto dall'insipienza, dall'irresponsabilità e dall'arroganza.
Scrivono i due autori: il Contadino, come veniva chiamato Gardini, in realtà ha rappresentato in forme esasperate e virulente il capitalismo privato italiano nella sua componente feudale-familiare. Soltanto in Italia un gruppo molto ristretto di famiglie controlla metà della Borsa, quasi tutti i principali quotidiani italiani, una molteplicità di aziende e di interessi da conglomerata priva di identità e di strategia; ma vivendo in simbiosi con il potere politico e bancario. E proprio per questo, è quando il potere politico viene travolto dagli scandali che si aprono crepe sempre più larghe ai vertici delle grandi imprese italiane fino al tragico gesto di Gardini che respinge con un colpo di pistola l'inevitabile resa dei conti con la famiglia, i banchieri, l'establishment e l'opinione pubblica.
"Gardini non era solo quando un passo dopo l'altro dava la scalata al potere, al denaro, alla notorietà. Aveva attorno a sé la complicità e l'incoraggiamento dell'establishment politico-finanziario, l'appoggio dei giornali, delle banche, l'acquiescenza dei manager del suo gruppo [ ... ] dotati di esperienza e capacità messe al servizio del sistema, e persino dei manager dei gruppi concorrenti [ ... ]. Nei 31 mila miliardi di debiti del gruppo Ferfin-Montedison non c'è solo la storia della guerra chimica o dei fallimento di una famiglia troppo ambiziosa, ci sono anche gli errori, le debolezze e l'eccesso di potere che caratterizzano quella parte del capitalismo privato italiano che non ha mai scordato la regola di privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite. Un potere che oggi riceve un colpo durissimo, paragonabile al discredito che si è riversato sui politici a causa delle tangenti. Ma che potrebbe tentare di sopravvivere rinviando la resa dei conti e riversando su tutti noi il costo delle sue malefatte con il coinvolgimento delle banche nelle crisi imprenditoriali". Così, Borsa e De Luca.
Un discorso che riassume un po' tutta la storia del capitalismo italiano, che è come dire del capitalismo del Nord, protetto dallo Stato (con le dogane, con le commesse, persino con le guerre), con costi sopportati da una parte cospicua del Paese. Dal Grande Contado, appunto. Spinto a diventare, in nome della modernità, un Grande Mercato di Consumo. Assistito, ovviamente. Per garantire i benefici di ritorno agli Staticittà delle grandi famiglie del Nord.

Il futuro ?

Nel Seicento

Sulle macerie di quello vecchio si sta formando un mondo nuovo, confuso e tumultuoso, per molti versi anche un "mundus furiosus", come quello vissuto nell'Europa del 1600: in altre parole, molti sono gli indizi che fanno presagire il nostro imminente ingresso in un "mondo barocco". Per cominciare, al '600 si allude in un recente documento dei vescovi italiani: i cittadini come Renzo e Lucia, i politici come don Rodrigo, i religiosi che dovrebbero essere come fra' Cristoforo. La storia consente soltanto suggestioni e analogie, ma sopra il microcosmo italiano, e sopra le allusioni, tre punti essenziali si possono comunque fermare.
Primo: come il '600 fu il secolo delle scoperte e del Nuovo mondo, così quella in cui viviamo è l'età dell'integrazione del mondo. Le vecchie "commodities" - le spezie - sono diverse da quelle nuove -ad esempio, diverse dai prodotti giapponesi - ma solo nella forma fisica, non nella cascata dei fenomeni economici e politici che sono capaci di produrre. Per contro, al posto dei manipoli di "conquistadores", masse di disperati di colore, evocate dal colonialismo, cercano e seguono i filoni della ricchezza con un percorso a rovescio: scala e stili sono diversi, ma il prodotto non cambia.
Secondo: come il 1600 fu la cerniera tra la fine del Medioevo e il principio dell'età dei Lumi, così l'età in cui viviamo fa - con accelerazione crescente - da cerniera tra due mondi. il mondo che ci lasciamo alle spalle è stato radicalmente influenzato da due dominanti: il romanticismo, l'idealismo. A parte che nei cupi, isolati, bagliori balcanici, la fine del romanticismo è evidente in società come quella in cui si vive, appiattite in un consumismo che unifica tanto le élites opulente quanto le torme di poveri in jeans che si aggirano per il mondo. La stessa causa ha progressivamente ridotto la forza, un tempo egemone, dell'idealismo: l'idea che le idee (di alcuni) non dovessero derivare dal mondo, ma potessero servire per cambiare il mondo. L'idealismo finisce con il comunismo, e non è un giro di parole, proprio a causa del consumismo.
Terzo: come il '600 fu il secolo di passaggio dal mondo feudale a quello degli Stati moderni, così noi vediamo che la posizione feudale è occupata dagli ormai vecchi Stati nazionali che insistono sulla nuova realtà con le loro sempre più costose manomorte burocratiche. Un tempo bastava agli Stati controllare il territorio per controllare la ricchezza, che sul territorio si "baricentrava" naturalmente, e dunque per esercitare il loro monopolio politico: battere moneta, fare giustizia, riscuotere tasse. Ora non èpiù così: la catena politica fondamentale, la catena Stato-territorio-ricchezza, si èspezzata. Non basta più agli Stati controllare il territorio per controllare la ricchezza che passa sopra il territorio per masse e velocità crescenti. Mentre una nuova "lex mercatoria" aggrega i grandi interessi economici sopra gli Stati nazionali, mentre la "lex fisci" - il battere moneta, il riscuotere le tasse nazionali - subisce una progressiva erosione (la moneta è ormai sovranazionale, per ora è il dollaro, e la ricchezza finanziaria sfugge al monopolio fiscale dei singoli Stati, potendo scegliere come e dove pagare le tasse), la sovranità nazionale resta ormai limitata alla "lex pauperorum", con forza calante, perché le solidarietà socialdemocratiche di massa presuppongono Stati economicamente forti. Mentre la "destra", come l'egoismo, si trova bene dovunque e si muove con intelligenza, da ultimo chiedendo il passaggio dallo "jus soli" allo "jus sanguinis", la "sinistra" resta inerte o si limita a formulare condanne, nell'illusione - ancora idealistica - che basti proclamare i fini senza predisporre i mezzi. In realtà, non si può più ragionare in termini di geometria piana, l'orizzonte non può più restare agrario - nel senso latino di "ager" - per formarsi e fermarsi sui confini limitati del territorio nazionale. In specie, la "sinistra" o è internazionale o non è, e in questa dimensione deve -tanto per cominciare - proporre doveri per popoli che finora hanno avuto soprattutto diritti, per volgerli verso popoli che finora hanno avuto solo doveri senza diritti. Si diceva, ancora in latino, ancora nella lingua del barocco: "Primum vivere, deinde philosophare". Sia qui consentito un suggerimento eversivo: quello di filosofare, per sopravvivere.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000