§ Il corsivo

Abbasso la tolleranza




Giuseppe Tondi



Da molte parti è stato evidenziato come in questi anni si stia consolidando una nuova ondata di intolleranza. Tale intolleranza non attiene più, come in passato, ai rapporti fra Stato e cittadino, ma a quelli intercorrenti fra Persone, associazioni e gruppi, che operano tutti nell'ambito di uno stesso Stato.
Le minacce alla convivenza dei cittadini vengono dalla presenza di taluni soggetti sociali, che, dopo aver assunto come idea-forza (su cui fondare la propria esistenza e la propria azione) un qualunque principio - politico, morale, religioso o etnico -, vogliono imporlo "costi quel che costi" a tutti gli altri "cives".
Contro tali sopraffazioni ci si appella da più parti alla "tolleranza".
Ma essa rappresenta ancora il rimedio al male (le nuove forme di "intolleranza") che si vuole esorcizzare?
Con tale domanda non intendo assolutamente sminuire il ruolo che la tolleranza ha svolto nel corso degli ultimi cinquecento anni. Anzi, mi piace sottolineare come in virtù di quel principio sia stato possibile operare, in maniera chiara e netta, la distinzione fra ambito civile della convivenza e ambito personale delle convinzioni più intime che ciascun essere umano ha. Essa, inserendosi a pieno titolo fra i principali protagonisti del plurisecolare scontro fra Libertà e Autorità, ha accresciuto la sfera della Libertà ed ha limitato notevolmente l'invadenza dello Stato assoluto (Spinoza per tutti: "Viene considerato oppressivo quel governo che pretende di opprimere gli animi e si ritiene che l'autorità sovrana faccia violenza ai sudditi ed usurpi i propri diritti quando vuol dettare a ciascuno ciò che deve essere abbracciato come vero e respinto come falso").
Oggi, però, lo Stato moderno non pretende più di imporre questo o quel valore. Esso ormai da tempo ha scelto di fondarsi sulla laicità e l'agnosticismo.
Le minacce alla persona umana, ai diritti di cui è portatrice, vengono, invece, dalle tensioni e dai conflitti che, pur potendosi manifestare con varie modalità ed in molteplici forme, hanno una comune origine nell'intolleranza.
Alla base di tutte le vicende in cui uno o più gruppi di persone giungono ad escludere "altro da sé", v'è l'intolleranza. Inebriati dai suoi fumi, alcuni gruppi rigettano la moderna società pluralista, in cui la presenza di molteplici, e talvolta contrapposti, valori, culture, ecc. dovrebbe servire solo per arricchire la gamma delle opzioni messe a disposizione della persona umana e giammai a generare conflitti.
Ora la tolleranza, che pur riuscì a ben limitare l'intolleranza statale, non credo che possa svolgere la stessa funzione nei confronti della nuova ondata di intolleranza, per così dire, "infrastatale".
La stessa tolleranza contiene in sé un frammento di intolleranza, che può essere agevolmente colto sol che si consideri l'azione presupposta dal verbo "tollerare".
Vi sono, infatti, due soggetti: uno che tollera ed uno che subisce passivamente gli effetti di quella azione.
Il tollerante sembra quasi porsi un gradino più in alto rispetto al tollerato e da lì si compiace di "tollerare" chi professa principi differenti dai propri. La preminenza del primo sul secondo impedirà sempre che le relazioni fra questi soggetti possano svolgersi su un piano paritario.
E', altresì, evidente come tale diseguaglianza di "posizioni" non ha impedito al principio di tolleranza di contrastare l'intolleranza statale e di ridurre (ma non eliminare) la "distanza" che separava il cittadino dallo Stato, in quanto il rapporto (di diritto pubblico) Stato/cittadino non si svolge mai su un piano orizzontale, cioè di parità, ma su un asse verticale.
Le relazioni fra individui, gruppi, ecc., invece, devono svolgersi su un piano di perfetta parità. E, pertanto, l'appello alla tolleranza, per scongiurare l'intolleranza che si manifesta in questa categoria di rapporti, mi pare inopportuno.
Si finirebbe, altrimenti, col ritenere lecito - come in effetti lo è per i sistemi basati sulla tolleranza - il caso in cui un gruppo, in nome di un qualunque principio ed in virtù di una data situazione di fatto (perché, se mai, più ricco o numeroso o meglio organizzato), si autoelevi sugli altri e, da quella posizione di preminenza conceda loro l'onore di "essere tollerati".
A nessuno sfugge, inoltre, come quel sistema in cui sia consentito a qualcuno di tollerare qualcun altro finisca con l'assicurare al primo un "più" di protezione rispetto al secondo e tale situazione di disparità non solo va a ledere il principio di eguaglianza, ma finisce col ripercuotersi negativamente anche su quello di libertà.
E' necessario, allora, che si passi da un sistema improntato alla tolleranza ad uno basato sull'eguaglianza.
Il principio di eguaglianza è stato solennemente affermato nelle Costituzioni, ma alle enunciazioni formali molto spesso ha fatto seguito una sua sostanziale disapplicazione.
Esso postula che le relazioni fra i cittadini (e/o fra i gruppi in cui essi agiscono) siano improntate alla reciprocità di diritti, doveri, ecc., per favorire ed attuare quel "vivere con", quel "vivere insieme", che è messo bene in evidenza proprio dal termine "con-vivenza".
Uno sforzo in questa direzione è già presente nella costituzione conciliare "La Chiesa nel mondo contemporaneo". Al cap. II di quel documento si auspica che i membri della società (ed i gruppi in cui essi agiscono) non solo "accettino razionalmente", ma "vivano" fino in fondo l'esperienza del reciproco rispetto, che nasce dall'essere tutti gli uomini eguali fra loro, in quanto, pur differenziandosi per sesso, capacità, istruzione, ecc., son tutti accomunati da una stessa origine e da un identico destino.
Il documento, partendo dall'"irrefrenabile esigenza di dignità", sottolinea come i "singoli debbano considerare il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro se stesso, tenendo conto della sua vita e dei mezzi necessari per viverla degnamente". Ciò presuppone il superamento di ogni etica "puramente individualistica", "affinché tutti i cittadini siano aperti a partecipare alla vita dei vari gruppi, di cui si compone il corpo sociale"... "E ciò non può avvenire se i singoli uomini e loro gruppi non coltivino le virtù morali e sociali, cosicché sorgano uomini veramente nuovi".
Va, dunque, apprezzato lo sforzo dei Padri conciliari, i quali avrebbero potuto indicare altre strade più consone al sistema della "tolleranza" o, addirittura, a quello dell'"intolleranza". Essi, invece, proponendo la linea direttrice cui si è fatto cenno, hanno tratteggiato, già trent'anni fa, il cammino da percorrere per superare l'odioso ed iniquo sistema della tolleranza, in nome di quella comunanza di origine e di fine su cui si fonda l'eguaglianza del genere umano.


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