§ Storie del giornalismo economico

Ma le penne sono ancora pulite




G. P.



Nella tormenta di Tangentopoli, che la magistratura con l'approfondimento delle sue indagini ha articolato in varie branche, si è inserito anche il giornalismo, quello economico in particolare.
Non poteva essere diversamente, perché in ogni strato della società operano gli onesti, ma pure i disonesti. Le localizzazioni che ne derivano prescindono dalle vocazioni e dalle predisposizioni professionali, perché hanno a che fare solo con la militanza o la diserzione rispetto alla propria coscienza.
E così si è parlato ed abbiamo avuto a che fare anche con le "penne pulite". Rispetto ad esse è intervenuta la magistratura, con indicazioni e conclusioni per fortuna notevolmente riduttive del problema. Si sono avute le opportune indicazioni conseguenti ad approfondimenti scrupolosi dei nostri organismi professionali. Ci sono state le rettifiche, così come si sono prontamente manifestati i distinguo: degli estranei e sono tantissimi.
Qualcuno ha detto che i giornalisti possono sbagliare, perché fra l'altro non sono giudici, e questo ruolo non può mai essere il nostro, perché esso è dovere di referenza nell'obiettività.
Al primo posto nella tematica delle "penne pulite", anche perché taluni corruttori poi resipiscenti avevano parlato di fette di salame raccolte da giornalisti economici, si è posto il giornalismo economico. Con la pretesa fra l'altro di taluni accusatori di ritenere possibili i cambiamenti di comportamento di una testata in funzione di pressioni tutt'altro che fondate, ma solo ingenuamente ed inutilmente vaganti. Tuttavia, qualcuno anche di grandi gruppi ha immaginato infantilmente questa possibilità, e poi ha detto che si era trattato solo di un progetto, con tiri miliardo o poco più di mezzo. Un miliardo, dunque, che d'altra parte nella sua incongruità rispetto al fine da raggiungere non è il solo a licenziare come fantasie di bassa lega.
Si può concludere al riguardo che non c'è un giornalista economico disponibile o imputabile più degli altri, anche se il settore economico ha particolare rilevanza, ma c'è solo il giornalista che ha o non ha a che fare con se stesso.
Anch'io comunque ho la mia storia di giornalista economico, e risale al 1930, quale iscritto all'Associazione della Stampa Romana, con un sigillo di 40 anni d'appairtenenza alla stessa rilasciatomi nel 1970, con una medaglia d'oro, dove sono incisi il Colosseo ed una penna, che non ho mai immaginato che non dovesse essere pulita. Ma per me l'aggettivazione economica è stata sempre e solo complementare rispetto al sostantivo.
In conseguenza per noi ovviamente valgono "il fuori i nomi" e la documentata accusa, ma per il resto - la massima parte - valgono la nostra storia, la nostra personale militanza, l'esperienza compiuta, che ci dicono tutto il contrario di quanto taluni denunciano, più o meno vanamente.
Sul giornalismo economico di gran parte di questo secolo, ho la pretesa, non in funzione di ambizioni da tempo tramontate, di poter, dover dire anche la mia. E ciò perché posso chiamare in causa la militanza professionale specifica nel settore di cui prima ho detto; ho assolto grandissima parte dei miei compiti, come giornalista, nell'ambito della Confindustria; ho esperienza, prima come corrispondente da Roma e poi come direttore di una testata, quella del più antico quotidiano economico d'Europa, anche di relative e specifiche funzioni e responsabilità.

Giornalismo economico anni Trenta
Così posso dire che il giornalismo, sempre giorno per giorno, l'ha creato solo la realtà: quella immediatamente sotto gli occhi.
Un caro collega mi ha insegnato che il vero giornalismo non potrà fare a meno della prospettiva, ma respira solo con l'attualità, quella di oggi, dovendo assistere agli ultimi atti del tramonto, ma sapendo che l'alba apparterrà ad un altro giorno.
E così per il giornalismo economico il vero dante causa è il mercato, che è l'unico referente del giornalista economico, perché è il grande principe e dittatore, nudo e non, sempre di mezzo.
Agli albori degli anni '30, che io conosco, v'erano da una parte le grandi firme economiche sui grossi giornali, le riviste specializzate ma in gran parte di qualificazione universitaria, e dall'altra qualche agenzia finanziaria - ricordo fra l'altro la Volta -, taluni commentatori ed informatori minori, che solo allora cominciavano a crescere.
V'era poi la stampa di categoria, che si muoveva nell'ambito delle organizzazioni sindacali di datori di lavoro e di lavoratori.
V'era ancora qualche società editoriale che aveva cominciato a sezionare il panorama. E qui per personale conoscenza inserisco due nomi, che non hanno certo mai pensato a tangenti, ma solo alla validità tecnica di quanto offrivano.
E parlo dell'editoriale Domus, e spero che di essa, che sopravvive tanto validamente, ci sia una storia stampata, che rivendichi in nome di Gianni Mazzocchi quanto le spetta.
E parlo ancora dell'Aracne, un'editoriale milanese che, se non erro, pubblicava una decina di mensili specializzati, dal tessile alla chimica, e che aveva come esponente Roberto Tremelloni, mimetizzato durante il regime, ma poi esponente del Comitato Nazionale di Liberazione e più tardi fra i fondatori della socialdemocrazia di Saragat e ministro delle Finanze poi. Durante il Ventennio veniva anche da me, limitandosi a fare il suo mestiere nella stampa economica, almeno in quella che allora era possibile.
A grandi linee, posso dire che durante il Ventennio la stampa economica è stata questa: con quanto faceva e quanto non si riusciva a fare. Ognuno però tendeva a realizzare il meglio di quanto si doveva e si potesse. D'altra parte a questo titolo posso ricordare anche un grande scrittore e ministro delle Finanze durante il Ventennio. Parlo di Alberto de Stefani, Non l'ho mai conosciuto durante quegli anni sapendo solo che io universitario alla Sapienza, in giurisprudenza, l'avevo come vicino, preside però, alla Facoltà di Scienze Politiche. Ma poi ho avuto dimestichezza con lui, come giornalista economico, immodestamente, devo dire di non secondo piano. E di lui ricordo che mi ha parlato dei Gran Consiglio del 25 luglio, di Mussolini non più duce, ma di se stesso come uomo, dei mezzi perseguiti nel pareggio del bilancio dello Stato fino a quando ne è stato ministro delle Finanze, del suo dovere di aver eliminato dalla Gazzetta Ufficiale una parte letterario-romanzata (sic!) pubblicata solo per aiutare letterati che non si sapeva come diversamente retribuire, di essersi sentito felice quando, allontanato dalla direzione del ministero delle Finanze, fermatosi a Piazza Gioacchino Belli in Roma, notando una targa su di una drogheria che recava l'insegna Felice De Stefani, poté andargli incontro per dirgli che erano omonimi, perché felice lo era anche lui.
Oggi invece c'è l'irrigidità sulle poltrone, e proprio quando tutti chiedono il cambiamento.

Stampa economica e contesto produttivo
Ed eccomi all'esperienza della Confindustria. Vi sono stato dal 1938 fino al 1977, appunto come giornalista economico.
Ma per sapere dall'esterno di questo mio periodo da una parte ho a che fare con qualche libro che mi chiama in causa, con e senza mia soddisfazione (il che non conta), ma con contrastante valutazione della realtà (e questa invece conta): pensate che un libro che mi riguarda, ed è stampato dall'editoriale Sellerio, che rispetto, ha il titolo La trasparenza difficile, ed è dovuto ad un docente universitario defunto che prima della verità penso abbia ossequiato le proprie pregiudiziali ideologiche e si tratta di un volume il cui titolo poi deve aver lasciato per lo meno perplesso il suo promotore, nostro collega, che proprio personalmente ha trovato difficile questa trasparenza.
E d'altra parte ho anche a che fare con un computer della Confindustria, che sa di me con 40 anni di appartenenza alla Confindustria solo perché nel 1946 sono stato direttore de La Gazzetta per i lavoratori, da Angelo Costa voluta proprio per avviare un dialogo con i lavoratori, che con i periodici mai c'è stato.
In particolare, durante il Ventennio mi è occorsa la possibilità di oppormi ad un istituto fascista, quello coloniale, approfittando delle ombre denunciate nel suo bilancio da Mussolini, insieme a Vittorio Gorresio e ricevendone diffide e deplorazioni, di protestare in una Corporazione contro Alessandro Pavolini ed altri gerarchi per le loro pretese egemoniche e sopraffattrici, ecc.
Ma poi la Confindustria del post liberazione. Sette lustri mi appartengono. Chi era allora da quella parte l'aveva fatto per un prius che gli apparteneva, non già per contropartite. Ricordo tuttavia il caso di un giornalista comunista o paracomunista (lavorava per un quotidiano fiorentino), poi divenuto finanziere, che mi chiese cosa potessi fare per aprirgli la strada dalla mia parte. lo non lo feci, qualche altro sì. Si trattava di un giornalista economico, ma forse lui stesso non era al corrente di questa peculiarità di autonomia e di indipendenza.

Vite intere divise insieme
In questa fase mi è occorso di essere direttore del quotidiano Il Sole con l'intento di realizzare quanto per esso avevo immaginato, nella ricostruzione, e solo sapendo se insoddisfatto avrei potuto contare sulla liquidazione da dimissionario.
Ugo Manunta, allora conduttore delle nostre negoziazioni contrattuali e depositario della nostra condizione sindacale degli anni '60, mi rassicurò al riguardo. In quei tempi, non più alla direzione de Il Corriere della Sera, c'era anche Piero Ottone, che nel commentare la mia nomina a direttore de Il Sole (perché però ne scriveva sulla rivista della "Esso"?) diceva di me giornalista, con una anzianità professionale maggiore certo della sua, che ero solo un funzionario della Confindustria.
Ed in quegli anni il mio cognome si incrociava con quello di Enzo Biagi. Egli non è stato giornalista economico. Ma è stato certamente, se male non ricordo, anche consulente della Montecatini e come tale venne ad ascoltare melanconico come sempre, ma come sempre volutamente e distrattamente curioso, una mia esposizione quale direttore de Il Sole al Circolo della Stampa di Milano.
Il giornalismo, economico o no, era questo. Con tutti gli altri giornalisti avevamo di mezzo gli editori, dai quali però sapevamo mantenerci distanti, se lo volevamo. Ricordo il mio consigliere delegato che si meravigliava con gli altri, ma non con me, del fatto che se avesse voluto parlare con me avrebbe dovuto farsi annunciare ai miei uscieri.
C'erano allora gli editori che la pensavano diversamente, ma ognuno dall'altra parte sapeva cosa doveva fare.
C'erano e ci sono i nostri colleghi giornalisti. Sono stati e sono la maggiore forza di ogni direttore, ma ognuno di noi ha sempre saputo, anche intuito', quali e quanti avessero scelto di salire sul nostro autobus. Mi è occorso di avvedermi sempre degli uni e degli altri, ma alla fine di ogni percorso ho avuto la fortuna di constatare che eravamo più numerosi di quanti eravamo partiti.
E poi, fra i giornalisti economici, pongo anche i nostri tipografi. Hanno letto, corretto i nostri articoli, ci hanno criticati ed anche talvolta incoraggiati. Ma senza di essi il nostro giornalismo economico, aquila o anatra zoppa, non sarebbe esistito.
Siamo dunque tanti. Speriamo anzi di essere di più. Ma io, anzianissimo, mi auguro che il mio volto sia il più vicino possibile al loro. Appunto di giornalisti economici, a poco più di un quinquennio distanti dal Duemila.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000