§ Memorie di un giornalista

Quasi un secolo alle spalle




Gennaro Pistolese



Sul finire dell'ottobre del 1963 il Presidente della Confindustria, Furio Cicogna, e il Segretario generale della stessa, Mario Morelli, mi conferirono l'incarico di "operatore" direttivo ed esecutivo di quello che eufemisticamente venne definito "Noto Programma" della Confindustria. Chi erano quelli che mi proponevano quest'assunzione di responsabilità? In che consisteva questa responsabilità? Perché la scelta era caduta su di me? E perché infine questo mese di ottobre, nella mia vita, ha sempre avuto a che fare con Roma, sempre meta ma anche residenza della mia vita?
Quest'ultimo interrogativo, forse, è quello che più mi appartiene. Perché nella mia esistenza, Roma è sempre stata tutto. Prima ancora che in termini di storia, per il corso della sua tanto mutevole topografia e per l'immutabilità delle sue radici di costume, pur nella doverosa e piena apertura all'incalzare, non di rado però pure immotivato, delle generazioni.
Ma di questa Roma, che per quanti non ci sono stati veramente dentro (ed io meridionale vi sono stato sin dall'età di poco meno che tredicenne) le contiguità minacciano di essere più anagrafiche che non di profondo radicamento, devo dire che il mio inizio di residenza risale all'ottobre del '22, nei giorni della marcia su Roma, da me constatata in una stazione ed in un treno (ne ho parlato, ma lo ripeto: a Foggia, dove la prefettura era stata occupata dalle squadre di Caradonna e la ripresa del viaggio doveva subire la breve sosta che doveva conciliare orari ferroviari e pretese di una "rivoluzione" in corso); quando Roma aveva un numero di abitanti di gran lunga inferiore al milione, quando agli sventramenti urbanistici non si pensava ancora, quando l'architetto Piacentini probabilmente faceva ancora lo studente e non pensava certo al successivo dominante stile littorio, quando però già c'era un sindaco, che pur chiamandosi solo Filippo Cremonesi, per la cittadinanza con tolleranza tradizionale e sarcasticamente denunciata e sofferta, era noto come "Pippo Pappa". Altro che i calzoni alla zuava di Craxi per capire queste cose!
Allora c'erano pure la Bocca della Verità ai piedi del Campidoglio, come c'era il busto di Pasquino a Piazza Navona. Ma di queste forze emblematiche è stata ricca la storia anteriore alla mia generazione, e tenta talvolta di esserlo, ma solo cartaceamente e per sopravvenuto auditel televisivo, per le generazioni successive alla mia.
Il discorso di questa Roma, proprio di questa Roma, è molto lungo: ha spessori e risonanze che ci contrappongono molto di più di quanto avverrebbe in un campo di calcio. Ma lasciamolo lì, senza confronti, e perciò ognuno a ricordare e a difendere una Roma che è solo la propria, con possibili coincidenze con quella degli altri. Ognuno di noi ha la sua madre, per fortuna ripeto ognuno ha la sua, ed è chiamato a servirla come valore che conta, che deve contare per tutti.

La Roma del nostro io
Chiudo così la parentesi su Roma, nella quale ritornavo dopo un anno e mezzo di permanenza a Milano, dove dirigevo il più antico quotidiano economico d'Europa Il Sole, per incarico fiduciario della società editoriale di proprietà della Confindustria: giornale di cui per circa un decennio prima ero stato corrispondente dalla Capitale, ed ero stato nominato direttore il I' maggio del 1962, con una carriera giornalistica che era iniziata nel dicembre del 1930; invece Pietro Ottone (già direttore de Il Corriere della Sera, che forse ad un certo punto ha pensato di poter divenire mostro sacro del giornalismo, che poi ha fatto pure il "garante" (ma non c'è stato sempre il direttore per esserlo rispetto ai lettori?) di me scrisse su di una rivista (era però della "Esso") che il neo direttore era un "funzionario della Confindustria".
Non so se il termine per lui volesse significare "agente", ma comunque è chiaro che io sono stato sin dalla più giovane età giornalista e che della mia collocazione confindustriale non solo mi sono sempre vantato quando ne facevo parte, ma continuo a vantarmi oggi, sempre con riferimento a quella Confindustria, nella quale si confondono anche le mie scelte e radici professionali. Che non ho avuto necessità mai di cambiare, perché di accomodamenti o di aggiustamenti non ho avuto mai bisogno, né tantomeno ho avuto intento di trovarli. E non ne ho merito, perché ho avuto dalla mia parte la nascita in una zona d'Italia, che si chiama Basilicata, con quanto essa significa per chi la conosce, e una composizione originaria e successiva familiare, il cui richiamo per me significa solo privilegio del quale dovrò sempre sdebitarmi.
Queste, purtroppo, come è chiaro, sono solo divagazioni. Forse però possono concorrere a far comprendere perché si accettavano certi incarichi e, non mi lusingo di credere, perché ci venissero offerti.
L'incarico che mi veniva offerto era quello, come prima dicevo, di sovraintendere all'attuazione, nell'ambito della Confindustria, del cosiddetto "Noto Programma". Ma perché si definiva così? Che cosa soprattutto rappresentava?
Si definiva così, perché questa era denominazione interna di un'azione che - negli intendimenti dei suoi promotori industriali - rifletteva un dovere di presenza (per la salvaguardia del contesto in cui è esercitata l'azione imprenditoriale con i conseguenti apporti di sviluppo e reale socialità che ne derivano, e per il contenuto concreto delle conseguenti iniziative che non poteva non tradursi in una promozione sempre più nettamente determinata ed operativa.
La prima caratterizzazione è stata sempre immanente nella cultura imprenditoriale, italiana ed estera. Difatti la stabilità del contesto politico, sotto l'usbergo della libertà e della democrazia, è stata sempre la vocazione dell'impresa.
Tanti anni orsono ebbi a definirla la "filia del carabiniere", ma mi fu facile perché la difesa riguardava solo possibili degenerazioni di un sistema, quello che minacciava o riusciva a mettere in atto le statalizzazioni, quello che sempre proclamava le prevaricazioni del classismo, il cambiamento dell'orbita occidentale e perciò anche europeista in quella della cosiddetta "nuova via" al comunismo, che poi all'atto pratico portava solo a Mosca, e così via. L'imprenditorato italiano ha sempre reagito a queste degenerazioni e sono sicuro che sempre continuerà a farlo, fino a quando queste minacce non scompariranno dal nostro orizzonte. E naturalmente anche da quello dei nostri vicini.

L'identità immutabile degli imprenditori
In tutto questo periodo c'è pure un ventennio di mezzo, prima di riprendere il discorso successivo e pure quello attuale. Ed in questo. ventennio che hanno fatto gli imprenditori?
Si dice che abbiano finanziato la marcia su Roma, ma altri pensando che da questa parte si potesse trovare più o meno facilmente qualcosa hanno optato per la componente dei grossi agrari e forse marginalmente per quella di qualche impresa primaria. D'altra parte non si può dire che siffatto movimento, a parte gli stipendi improbabili per taluni, abbia avuto bisogno di grandi risorse. Le stesse squadre che si muovevano verso Roma avevano più scarpe rotte che non fucili, questi poi che non fossero in gran parte da caccia.
Si è detto che c'è stato qualche cannone, probabilmente asportato da qualche museo o da qualche caserma inconscia della stessa sua denominazione. Ci saranno state anche bombe a mano, ma queste sono state sempre restie a farsi da parte, solo perché erano sporadici esemplari. Le aveva in tasca anche Grandi il 25 luglio di 21 anni dopo, alla seduta del Gran Consiglio.
Lo era stato per Michelino Bicendi, segretario dei Fasci al Congresso di Napoli che diceva che era inutile restarci perché pioveva. Il problema grosso era che pioveva. Lo era per Bottai, che comandava una colonna. Lo era per Igliori, una medaglia d'oro che ne comandava un'altra. Non lo era per i Quadrumviri allocati al Brufani di Perugia, che più che dirigere erano in attesa del via vai con Roma di De Vecchi (per il Quirinale) e di Grandi (per i partiti dai quali si attendeva che si dessero una mossa di transazione). Non lo era per Mussolini che stava a Milano, nel palco di un teatro (con Margherita Sarfatti), intuendo che la sua giornata sarebbe stata solo quella dell'indomani, quando cioè avrebbe dovuto imbracciare un fucile, con le bobine di carta dei giornale disposte a difesa di tipografia e redazione, con bombe a mano però in vista su scrivanie a distanza.
Ma tutta questa storia è più che nota, solo che io da ragazzino l'ho vissuta e la ricordo, perché ha a che fare con motivazioni ideali, ma solo con la mia infanzia. E la fortuna dell'infanzia è soprattutto quella di poter essere curiosa ed osservatrice, virtù che valgono se dopo se ne ha memoria.

Due Palazzi Venezia di fronte
Ma che pensavano e facevano gli industriali allora e durante il ventennio successivo?
Per quello che ne so - ed è importante che quelli della mia generazione ne ricordino qualcosa e soprattutto sinceramente ne riferiscano - le cose stavano così.
Il deus ex machina della Confindustria era Gino Olivetti. Aveva cominciato a muoversi a Torino, immaginando un'industria italiana tutta intera, anche organizzativamente. Forse è stato un ammonitore dello stesso Giovanni Agnelli il fondatore, quello di cui il nipote, Gianni, ha detto che non ha mai indossato la divisa fascista, solo perché indossava quella di senatore. Quale goffa e pelosa insulsaggine. Non ricorda "l'avvocato" che l'orbace c'era per tutti e che su di essa si poteva applicare solo un quadratino con qualche stella indicativa dell'appartenenza appunto al senato? E non ricorda l'avvocato le grandi fotografie della manifestazione al Duce della Fiat, al Lingotto, con tanta significazione e riconoscenze mussoliniane al federale del tempo, Gazzotti, poi mio capo e che mai ho evitato di considerare amico?
E non ricorda e non sa che il capo dei servizi sociali della FIAT era un inconsueto Brambilla - anche allora esisteva questo cognome, ma era reale - che poi accompagnò a Roma come segretario proprio il federale di cui l'avvocato non ha memoria, ma che io posso invece ricordargli?
Durante il ventennio, comunque, la Confindustria ha certamente collaborato, ma ne era intrinsecamente per molti versi distante. Ed a me con la mia età e con i miei trascorsi tocca di dire qualcosa: che, tutto sommato, nonostante che la sede della Confindustria fosse di fronte al famoso Palazzo Venezia, che l'orbace fosse indossata da molti industriali, a cominciare da quelli che, moschetto alla mano, dovettero fare la guardia all'esterno della Mostra del Ventennale dei Fasci al palazzo dell'Esposizione in via Nazionale in Roma (e mi pare che ci fosse anche Alberto Pirelli), gli industriali erano per lo meno tiepidi.
Benni aveva accettato il patto intersindacale di Palazzo Vidoni, ma ne avrebbe certamente fatto a meno. Il nuovo ordinamento sindacale aveva disarticolato le organizzazioni dei lavoratori (per dare un dispiacere anche al suo segretario generale unico, che era il fascista Rossoni, da dislocare, alleggerito, altrove); aveva per le organizzazioni padronali eliminato la funzione di segretario generale (così anche per l'industria, Gino Olivetti era divenuto disponibile per altro incarico, che ebbe e vedremo quale); rendeva subalterni organismi prima prevalenti (fra Comitato Corporativo Centrale e Commissione per l'autarchia, fra Corporazioni moribonde e Comitati risvegliati o da creare, ci si è capito solo molto poco). Una volta uno di questi esponenti - ed era Luigi Fontanelli, e qualcuno lo conosce perché ha avuto a che fare con la fondazione della UIL - mi disse che il tutto nel sistema si poteva chiamare anche granita di caffè con panna, ma sempre per lui era un incitamento verso un tipo di difesa del lavoro nel suo rapporto con il padronato.
Sennonché questo rapporto è sempre stato un enigma. Nel ventennio, stando alla Confindustria, ebbi a dire che il corporativismo in definitiva era la lotta di classe gestita dallo Stato, per conto dei lavoratori, ma un mio amico da me favorito per la sua assunzione ai vertici dell'IRI mi disse che questa lotta di classe era gestita dallo Stato per conto dei datori di lavoro. Quanta confusione, eppure sono passate le carriere, sono trascorsi i decenni, che ci fanno rivivere i discorsi, come se l'esperienza, le esperienze, nel frattempo, non avessero lasciato tracce.
Ma questi venti anni hanno pure significato il Patto di Palazzo Vidoni (questa era la sede del partito fascista, con tanto di cappella per i caduti, che molti mai si sono rifiutati di venerare, io tuttavia non ne ho avuto né necessità né occasione, e non ne faccio merito); un Olivetti, da Mussolini definito distrattamente "malinconico signore", perché fra l'altro indossava il tight", che non accettava discussioni alla Corporazione Tessile (di cui era presidente perché esponente dell'Istituto Cotonie e di cui io ero membro) in merito alla composizione dei tessuti, allora solo comodamente ed incompostamente privi di indicazione della percentuale delle loro composizioni, da me invano richiesta -; l'osteggiata proposta da parte degli industriali della costituzione di un ente del latte, che invece era perorata da chi legava alla propria sopravvivenza la creazione di un ente tutto fare e perciò inutile: la camicia nera nascosta dietro un soprabito compiacente, per cercare di evitare almeno la compromissione esteriore di chi, e purtroppo erano più burocrati che imprenditori, riteneva che al momento l'unica difesa praticabile era quella di andare sotto muro.
Ma allora c'erano pure capi del personale confindustriale che preferivano raccontare barzellette antifasciste rispetto all'espletamento immediato di pratiche burocratiche. Qualcuno di essi era napoletano. Così che l'impresa era una cosa, la politica, pure quella delle renitenza, dell'indifferenza, della attesa, era un'altra.
So che proprio in questo palazzo, mentre un suo rappresentante ad alto livello burocratico passeggiava nel corridoio nei mesi tragici dell'occupazione tedesca di Roma, egli stesso mi diceva che nella stanza accanto, da lui accolta, si svolgeva una riunione del Comitato Nazionale di Liberazione con Emilio Lussu, corregionale di chi mi parlava, che stava dicendo la sua.
Molti non sanno che la Confindustria era questa. Non lo sanno forse molti che oggi la rappresentano. Ma io lo so, ed i computers della Confindustria non lo sanno certamente per niente.

Il "Noto Programma"
Ma chi venne, a Milano, ad offrirmi di fare l'operatore del "Noto Programma"? Venne il segretario generale, Mario Morelli, per conto del Presidente Furio Cicogna. Ma cominciamo da quest'ultimo, che poi era il "priore". E spero che a Lui nell'aldilà piaccia questa definizione, perché negli ultimi anni della sua vita, forse per invocata remissione dei suoi peccati che i suoi detrattori dicevano fossero tanti, aveva manifestato una vocazione mistica, che mi era nota perché sapevo che finanziava la Pro Civitate Cristiana di Assisi, perché si scambiavano con Don Rossi i ruoli di maestri e di discepoli, perché aveva dato un altro significato, ultraterreno, alla propria vita.
Fu così Mario Morelli, il segretario generale della Confindustria, che certamente ha sempre avuto una certa fiducia in me, sia pure sempre da parte sua in costante verifica, a domandarmi se ero disponibile per questo "Nuovo programma".
In me non ci fu alcuna esitazione, per due ragioni: la prima perché si trattava di concorrere a creare e stabilizzare quel clima per il quale io lavoravo da decenni e naturalmente con maggiore evidenza e responsabilità quale direttore de Il Sole di Milano, che molti a ragione o a torto ritenevano la punta editoriale più avanzata della Confindustria di quegli anni: Enrico Mattei mi diceva che la cosa più seria dal punto di vista editoriale realizzata appunto dalla Confindustria era costituita da Il Sole di quegli anni e Nino Nutrizio, direttore allora de La Notte, oggi giustamente da taluni ricordato come maestro di giornalismo, che il primo giornale che al mattino leggeva era appunto il mio... Sono passati decenni, e i ricordi vengono inesorabilmente falcidiati. Qualcosa tuttavia resta.
La seconda ragione è il mio ritorno a Roma, nelle ricorrenze prima ricordate.
Su quella che a mio parere dovesse essere l'azione della Confindustria in quella fase con riferimento alla nazionalizzazione dell'energia elettrica, al significato politico che le si attribuiva come intransigente condizionamento dell'intera iniziativa privata quale che fosse stato il campo della sua esplicazione, al precedente sganciamento delle aziende a partecipazione statale dalla Confindustria, alla nascita del centro sinistra con tutti gli inasprimenti e pedaggi ideologici e tattici che gli erano connessi, avevo predisposto un appunto di una certa ampiezza che feci avere in luglio a Morelli. Sennonché intervenne la pausa estiva, che però consentì alla Confindustria di sensibilizzare le Associazioni aderenti, di costituire un apposito comitato centrale, di predisporre una struttura affiancatrice localmente delle Associazioni di categoria. Cicogna intendeva dare una svolta alle tre precedenti fasi di attivazione dell'Organizzazione. C'era stata la fase di Costa dal 146 fino a poco oltre la prima metà degli anni '50, fase che sul piano della ricostruzione rappresentò l'identico percorso per De Gasperi, Einaudi e ripeto Costa, con un non minore protagonismo in parte conflittuale ma anche realistico di Di Vittorio. Le idee valide si confrontavano allora e riuscivano a camminare insieme.
Un sigillo c'era stato con il 1948, ed era stato quello dello sviluppo con la scelta di campo in quello occidentale (più che una diga, quella, come fu definita, un muro di difesa che tanto tempo dopo ha consentito la demolizione di quello di Berlino: e non ci siano dimenticanze oggi al riguardo o alibi di improvvise resurrezioni da parte di chi il muro di Berlino ha voluto o approvato). La seconda fase degli anni 150 dovette confrontarsi e reagire ad intenti politici, convinti o talvolta solo tattici, di indebolire, contestare, troppo condizionare l'impresa privata.
La reazione di questa, dell'industria, dell'agricoltura, del commercio, si manifestò nella creazione della Confintesa, sorta ad iniziativa del nuovo Presidente Alighiero de Micheli, già presidente dell'Assolombarda ed industriale tessile.
Questa Confintesa voleva significare una posizione unitaria dell'imprenditoria nella difesa di valori che non rispondevano a specifiche ideologie, che non pretendevano di costituire lobby (tanto più che in quei tempi questo termine era tutt'altro che presente nel nostro vocabolario operativo), che volevano invece mantenere desti un confronto ed un dialogo.
Ricordiamo ad esempio che quelli erano gli anni in cui l'interlocutore confindustriale era poco ricercato sia a livello di stampa che a quello delle cosiddette pubbliche relazioni. I tanti comuni denominatori che si registrano nella stampa di oggi (un ex direttore di un grande giornale mi ha detto sul finire del '93 che i titoli in gran parte comuni della stampa maggiore, titoli che significano sempre pure commento, sembravano la risultante di comuni telefonate serali) allora non c'erano. Molti colleghi avevano quasi la preoccupazione di dichiarare la loro distanza dall'imprenditoria. Era una sorta di infantile provincialismo, ma abbiamo avuto a che fare anche con questo.
L'azione della Confintesa, nonostante gli intenti ed anche i doveri che per sé e per gli altri richiamava, certamente non ebbe successo. Venne di fatto a decadere. Dette luogo poi alla costituzione di un Centro di Informazioni Sociali (CIS), che si preoccupò di avviare studi e di mantenere contatti, con una vitalità non certo vigorosa, ma (lo dico) con la dignità che gli derivava e dall'origine, cioè dai promotori, e dal fatto per me esteticamente rilevante di avere una sede nella famosa via dei Condotti di quei tempi e con un terrazzo su Piazza di Spagna. E così ritorno a quella Roma di cui prima ho detto, che oggi con il suo sviluppo tentacolare, da metropoli che si improvvisa e così via non avrebbe la rilevanza mondiale e perenne che ha se non avesse la sua anima e la sua identità vera in queste strade e in queste piazze, in questi monumenti. Comunque in questa sede di via Condotti vado anch'io per la realizzazione del Noto Programma.
Che trovo? Anzitutto il Comitato di cui prima ho detto, presieduto da Cicogna, Presidente della Confindustria, composto da De Micheli ex Presidente, da Dubini dell'Assolombarda e della Pirelli, dall'ing. De Biasi dell'Edison, da Radice Fossati, da Borasio dell'Eridania, da Telesio ex direttore de Il Resto del Carlino, da Morelli, e da me divenuto segretario.
In periferia c'erano i delegati circoscrizionali (l'importanza organizzativa delle Circoscrizioni allora condizionata e sottomessa dai partiti, veniva invece percepita dagli industriali anche con la proporzionale: oggi se ne accorgono quanti devono fare i conti con la maggioritaria), ai quali si affiancavano, come segretari, i cosiddetti coadiutori. Mi sembra però che questo termine sia mutuato, non so con quale intuizione, dagli organigrammi religiosi.
Ma come un Comitato così? C'era fra di essi lo specialista e l'incaricato per l'organizzazione, o per lo studio del comunismo ed aggiungo relativa contraccezione, per lo studio dei rapporti con la Chiesa, per l'utilizzo di mass media, televisione e cinegiornali (esistevano ancora dopo quelli LUCE), per le manifestazioni culturali e così via.
Cicogna aveva molta fiducia in questa "centrale", tant'è che una volta ebbe a dirmi - ed io ne restai. particolarmente sbalordito - che i dieci membri circa del Comitato erano di buon auspicio, perché il massimo dei messianesimi si era iniziato ed aveva avuto il seguito millenario che rivive giorno per giorno nei nostri spiriti con solo 12 Iniziatori.
Quale confusione e soprattutto quali assurdi confronti, con il pronto soccorso del misticismo, con gli ampi margini assicurati all'esistenza, alla redenzione ecc. e per contro con i piedi per terra assicurati a tutto il resto. Ed in questa materia, per fortuna, ognuno fa il proprio pensiero, i propri doveri di comportamento, le proprie affinità e così via. lo naturalmente ho i miei e giorno per giorno mi confronto e sempre - anche illusione e speranza? - mi sono confrontato.
Ma chi dovevano essere - ed io non li avevo scelti - i miei collaboratori? Ho avuto a fianco Federico Orlando, che ha collaborato con me per vari mesi, molti di più di quanti ne ricordassi e lui li ricorda invece. Ed io ne sono contento. Un generale, Manlio Gabrielli, che collaborava con me per la parte organizzativa: era stato Capo della Casa militare del luogotenente del Re in Albania e Addetto militare presso l'Ambasciata italiana in Spagna, durante la guerra civile, da lui definita guerra per la libertà in un suo libro. Di Gabrielli parlano in maniera critica i diari di Ciano. Ma ciò non mi interessa, perché abbiamo lavorato insieme fino a quasi i suoi ultimi giorni.
E poi c'erano gli ex dirigenti burocratici della Confederazione che mi venivano riciclati, perché ritenuti esuberi da non mandare a casa. E così venivano anche da me. Ma era lo staff di segreteria e di uscieri quello che ho sempre rivendicato avesse la massima possibile efficienza, ed io ho la fortuna di averla avuta, vedendola sopravvivere nel reciproco ricordo di chi è stato a mio fianco ed io al loro.
Ricordo che nell'accomiatarmi dalla Confindustria, a mezzo del direttore generale d'allora Paolo Savona, questi mi disse - perché mi conosceva da distante - che "tutti gli avevano parlato bene di me". Ma io gli replicai che certamente lo avevano fatto dattilografe ed uscieri, miei collaboratori.
Forse queste sono le parole di fierezza che accompagnano certi importanti distacchi, nei quali una nota di delusione non manca quasi mai. Ma c'è anche la doverosa rivalutazione di chi tanto ci ha aiutati, ed io questo aiuto l'ho sempre avuto, in misura certo maggiore dal punto di vista umano degli altri che mi sono stati vicino, e che sempre hanno fatto i conti con quanto mi davano e con quanto ricevevano. Ma queste sono le riflessioni di tutti ed io aggiungo le mie.
Ma nel chiudere questa "voce" del mio scritto, voglio ricordare Costa, che mi volle fra i suoi vicini all'atto del suo secondo commiato dalla presidenza della Confindustria (1970, dopo il famoso rapporto Pirelli), Morelli, l'ultimo segretario generale della Confindustria, stesso anno, cui sono stato amichevolmente vicino fino alla vigilia della sua morte: forse l'unico ultimo suo amico assiduo Franco Mattei, nuovo direttore generale fino al '76, che curò personalmente la mia liquidazione contabile con personale diligenza.
Quest'ultimo - come ho già detto - era un assoluto fuori classe, al punto che - e lo ripeto qui - ritenevo di potergli dire senza alcuna intenzione di piaggeria che le sue alte capacità erano addirittura sprecate per la Confindustria. Cose analoghe si scrivono normalmente nei necrologi, ma io le ho sempre scritte parlando degli altri a me stesso e per i loro parenti. E so che queste sono le sole testimonianze che per essi contano.

I conti di ieri
Ma sto parlando di persone con le quali ho avuto a che fare in questa fase della mia attività, e naturalmente non tutte mi sono rimaste impresse. Debbo comunque premettere che per le mie mani non sono mai passati soldi ed io ne ho sempre evitato i maneggi anche per le cifre minime. E ciò caratterialmente per me, con una Confindustria che per conto suo centralizzava l'intera amministrazione, anche nelle spese minute, i cui rendiconti - come ho detto - erano da me voluti estranei. Con una Confindustria che anche per questi affari aveva un vice Segretario Generale, che si chiamava Codina, che - ma l'ho già detto - conosceva solo i soldi propri che poneva in una tasca dei pantaloni sapendo solo che dovevano, come solo stipendio, bastargli, e con un amministratore solo modestamente contabile a lui sottoposto, che si chiamava Forconi. Un cognome già minaccioso per conto proprio.
Ed assiduità ne ho avuto in quei tempi per la messa a punto di iniziative, con Malagodi, Piccoli, Michelini, Valitutti, Lessona, Cantalupo, Ciccardini, Giovannini (ex Ministro) Renato Mieli (padre di Paolo, ex comunista, ma fondatore di un CESES, sponsorizzato da De Biasi della Edison, che sottoponeva ad una revisione teorica e critica il comunismo), Zincone (che redigeva un bollettino di "Cronache Parlamentari" edito nel mio ambito) e tanti altri. E tutto ciò solo nel confronto delle nostre idee, senza soldi in entrata o in uscita, e nella ricerca di possibili comuni tratti di cammino. Ci sono stati? Non ci sono stati? Non lo so. Perché questi tipi di bilancio non si esauriscono mai negli immediati risultati che raggiungono, ma vanno ripresi in mano dopo un certo periodo, dandoti solo allora l'ottica meno distante dal reale.

Qualche parolaccia di 20 anni fa
Comunque, di questo "Noto Programma" del quale fin qui vi ho parlato, non con le carte alla mano che non ho, ma con i ricordi che per me veramente contano perché rivivono e mi parlano più dei cosiddetti documenti (i testimoni servono solo per questo, e non tanto per i registratori, i computers, le fotocopie, ecc. che se esistono sono quasi sempre solo un coro, mai capace di sovrastare la voce), desidero riportare non già quanto hanno scritto i giornali (non ne possiedo un ritaglio), ma quanto èscritto in libro, che non so quanti abbiano, ancora, ma che io ho. E lo cito perché semplicisticamente parla male, e certamente lo fa anche pregiudizialmente. Ma lo fa anche se è oggi certo rientrato nell'anonimato, ma quando scrisse questo libro certamente credeva di non rientrarvi.
Il libro è di Donato Speroni. Il titolo è Il romanzo della Confindustria, dal 1910 al 1975. Reca in copertura le fotografie di Franco Mattei e di Gianni Agnelli (è da notare che il primo si era dimesso da direttore generale della Confindustria perché il secondo non lo aveva avvertito della sopravvenienza di Guido Carli voluto alla presidenza della Confindustria, ed è da aggiungere che Mattei è stato posto alla presidenza della Gemina perché era quello che era). L'editore è Sugar e l'edizione è del settembre 1975.
Speroni, comunque, dieci anni dopo così scrive del Noto Programma.
Dopo aver spiegato le ragioni della nuova attivazione della Confindustria, ed evitiamo di confutarne le affrettate, approssimative motivazioni, lo Speroni, con una sua biografia di sempre prevalente aspirante e non ne conosco il seguito, precisa:
"Nel complesso la Confindustria riuscì a raggranellare tre o quattro miliardi (ma la genericità della cifra - aggiungo io - mi ricorda quella stessa di certe testimonianze nelle indagini di Tangentopoli, quando chi riferisce pur da beneficiario non ricorda se si tratti di tre o quattro o di più di cinque miliardi, però di oggi) che furono poi gettati in iniziative assurde. Tipico esempio di questa politica fu il Centro di iniziativa speciale (CIS) affidato a Gennaro Pistolese che aveva lasciato la direzione de Il Sole dopo la fusione di questo giornale con 24 Ore. Il Cis organizzava inutili dibattiti ad alto livello fra diplomatici, il cui testo era poi diffuso in migliaia di copie fra gli industriali; stampava in 400 mila copie la Gazzetta dei lavoratori, giornale di tono violentemente anticomunista, destinato ai dipendenti delle imprese, arrivò a curare l'affissione di manifesti antisovietici e l'invio di una lettera settimanale ai parroci, sempre in chiave anticomunista a firma Pietro l'Eremita. Il tutto faceva parte di un programma studiato da Cicogna e Morelli e considerato segretissimo a cui si alludeva come N.P. (Noto Programma). Ma era il segreto di Pulcinella: fra i giornalisti della Confindustria se ne parlava correntemente con il nomignolo 'Nota puttana'".
Debbo premettere che il mio costume mi ha sempre condotto ad evitare siffatto tipo di presunte testimonianze. Tutto niente affatto documentate. Falsamente costruite per scelte ed addirittura aggettivazioni pregiudiziali. Nel caso specifico dovute ad un autore che nella scheda biografica introduttiva del volume si qualifica come già responsabile del servizio studi dell'ufficio relazioni pubbliche e poi amministratore delegato di una società editoriale del gruppo Edison. Questi richiami sono evidentemente molto approssimativi e non certo tali da fornire elementi per identificare la natura dell'ufficio e della società.
Comunque, quale possa essere una delle sedi di origine e di lavoro dell'autore, sta di fatto che egli avrebbe potuto e dovuto sempre documentarsi su quanto scrive ed invece per quanto riguarda le precedenti frasi sopra trascritte non lo ha fatto.
Non lo ha fatto:
- per l'approssimazione della cifra, che era in grado di accertare, solo se lo avesse valuto, come gli era possibile nelle sue qualificazioni prima richiamate.
- per avermi chiamato in causa, senza avermi mai interpellato - come è in uso fra i giornalisti non improvvisati, anche se si presumono di assalto - per chiedermi quei ragguagli che io, come del resto i giornalisti della Confindustria, di cui nel passato sono stato parte non secondaria, sono usi fare. Da questi giornalisti egli ha "appreso" la qualifica di "nota puttana", ma io posso dirgli il nome di chi da solitario, forse deluso, toscanamente l'aveva inventato.
- per la pretesa assunzione del CIS da parte mia non già nel 1963, come avvenuta ma dopo che io avevo lasciato la direzione de Il Sole, fatto invece verificatosi nel novembre 1965. Sta di fatto che avevo mantenuto a richiesta della Confindustria contemporaneamente due incarichi. E l'autore del libro comodamente non ne sa nulla, anzi afferma il contrario.
- per la pretesa assunzione e gestione della "Gazzetta dei lavoratori" da parte del CIS, quando invece il settimanale si chiamava Gazzetta per i Lavoratori e la differenza di mimetizzazione, che non c'è stata mai, è nel preteso "dei". Ma di più il giornale è stato voluto da Costa nel 1946, da me è stato diretto da allora fino al 1953 e poi passato di direzione, perché assumevo altri incarichi proprio in quell'anno. Non mi dà disturbo la frase violentemente anticomunista, in quanto essa si può riferire solo al periodo delle elezioni del 1948 ed a ciò che quelle elezioni per fortuna rappresentavano ed hanno rappresentato nei risultati.
- per la lettera ai parroci, la cui idea nacque dalle intuizioni di un laico, e parlo di Mario Missiroli. Ma non è necessario aggiungere nulla a quello che è un compito critico, di chiarificazione, di valori e di idee, che ognuno in tutte le direzioni è chiamato a svolgere.
Per essere il NP arrivato a curare l'affissione di manifesti antisovietici. Ma un giornalista serio scrive mai genericamente di queste cose perché le trova, se ci sono state, rilevanti?
- per gli inutili dibattiti ad alto livello fra diplomatici, ecc. Sic!
Ma di quest'ultimo tema scriverò nella prossima annotazione conclusiva della mia attività confindustriale.

Vocazione allo scrupolo
Sono questi altrettanti ma ovvi spunti di polemica, di più puntuale messa a punto dei fatti, di doverosa documentazione di partenza, che per ognuno di noi giornalisti è scrupolo quotidiano.
Mi lusingo di pensare che la mia vicenda professionale e umana, abbia sempre ricercato e praticato questa ispirazione e vocazione. Che poi cerchiamo di rintracciare come nostra costante, nei nostri ricordi. lo ho cercato di raccontarveli per quanto mi riguarda, aggiungendo che solo così l'esistenza stessa per noi e possibilmente per gli altri ha significato qualcosa.
Con un secolo in gran parte alle spalle, ed un tempo innanzi solo per singoli giorni, uno per uno; ma alla non lontana vigilia del Duemila.


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