Nell'antica
Grecia la scelta dei candidati alle cariche pubbliche era fatta con
oculatezza: venivano sottoposti a un severo esame di idoneità
(docimasìa). Peraltro, gli aspiranti non dovevano essere molti,
trattenuti dal timore di non essere all'altezza. Isocrate, esaltando
le caratteristiche della costituzione soloniano-clistenica, notava:
"A tal punto si astenevano dall'aspirare alle cariche pubbliche
che era più difficile a quei tempi trovare coloro i quali volevano
esercitarle, che ora chi le rifiuta".
La politica non era un'occasione per la speculazione privata, ma un
servizio sociale. Appena occupata la carica, i "magistrati"
non cercavano se i predecessori avessero lasciato qualche occasione
di guadagno, ma se avessero trascurato qualche impegno che urgeva portare
a termine. La vita pubblica era un servizio, una "liturgia".
Il valore semantico di sacralità, assunto in seguito dal termine,
ha la giustificazione storica nell'altissima considerazione in cui era
tenuto allora il servizio politico.
Platone, che abitualmente chiama i governanti "guardiani della
legge", li definisce suoi "servitori" nell'opera dedicata
a chiarirne il ruolo, intitolata appunto La legge. Si comportavano onestamente
e la soddisfazione della lode era la più alta ricompensa. Se
avevano amministrato male, senza pretendere perdono, si sottoponevano
a pene gravissime (Aeropagitico). Il sistema di controllo, d'altro canto,
era rigoroso. Allo scadere del mandato, gli amministratori dovevano
presentare entro trenta giorni il rendiconto sul movimento del denaro
ai "logisti". Se tutto risultava regolare, il tribunale rilasciava
quietanza liberatoria. Ma questa non chiudeva la partita, perché
nei tre giorni seguenti era consentito ad ogni cittadino di presentare
un'accusa ai dieci "correttori" (euthynoi); se le accuse risultavano
fondate, il processo era affidato ai giudici popolari, se private, ed
ai tesmoteti, se pubbliche. La legge non solo era severa, ma anche diffidente
nei confronti degli imputati, e preveniva ogni possibile scappatoia
dei soggetti a rendiconto. Proibiva loro di allontanarsi dalla città,
di consacrare agli dei il proprio patrimonio, di fare offerte votive,
di farsi adottare, di disporre con testamento dei propri beni.
Non dovevano essere pochi gli espedienti escogitati per salvare la refurtiva,
ma la legge prendeva in pegno le sostanze degli amministratori soggetti
a rendiconto finché non fossero sottoposti a giudizio e dichiarati
immuni da colpa. Anzi il legislatore, con un eccesso di severità,
imponeva il rendiconto anche a chi non aveva preso né speso nulla
delle finanze dello Stato e si era soltanto occupato di qualche affare
pubblico.
I casi di corruzione attiva e passiva non dovevano essere pochi se la
legge era così specificamente repressiva. La politica è
la più vulnerabile delle attività umane, sempre esposta
ad occasioni di corruzione. Lo aveva capito Socrate, che non si ritenne
capace di praticarla; lo sperimentò Platone, il quale, avendovi
aderito da giovane, sedotto dalla speranza di vedere la città
"condotta da un modo di vivere ingiusto a un sistema giusto",
si ritirò disgustato quando si accorse che i Trenta con il loro
comportamento "facevano apparire oro il governo precedente".
Già Esiodo parlava di magistrati dorofagi (mangiatori di doni)
ed Eschine accenna ad amministratori disposti ad accettare doni. E si
sa che chi accetta un dono perde la libertà; stavamo per dire
l'onestà, con un passaggio forse troppo audace, ma non impossibile.
Il rimedio per chi sbagliava? Saldare il conto con la giustizia. E'
sempre la Grecia ad insegnarcelo, per bocca di Platone: dopo l'essere
giusto, vi è un secondo modo per divenirlo: sottoporsi alla pena
per essere reintegrato nella giustizia. Magari autodenunciandosi, senza
aspettare di essere convocato. L'invito dovrebbe accoglierlo soprattutto
chi ha sbagliato, facendo politica al solo fine di arricchirsi, e dunque
macchiandosi di tradimento sociale.
Eppure, malgrado tutto questo, si rubava. Rubava Pericle: l'inventore
della democrazia ateniese non disdegnava le "bustarelle".
Diceva: più ruote si ungono, più porte si aprono. Demostene
era un cleptocrate al soldo del re di Persia. Licurgo pretendeva tangenti
in cambio di favori politici. Alessandro il Grande, re di Numidia, inondava
di "fondi neri" il Senato romano. E nell'Urbe rubavano Giulio
Cesare e Ottaviano Augusto, Bruto e Pompeo. Ma disonesto era anche un
signore con un nome al di sopra di ogni sospetto: Catone il Censore.
E più di un sussurro maligno riguardò anche il comportamento
dei fratelli Gracchi, i grandi moralizzatori del mondo romano. Contro
Verre si scagliò con una durissima requisitoria Cicerone: il
senatore, rapace e insaziabile, fu accusato nel 70 avanti Cristo di
peculato, di nepotismo e di molestie sessuali. Ghiotti cultori delle
"rnazzette" saranno poi altri personaggi, sparsi in tutto
l'Impero.
D'altra parte, Filippo il Macedone si vantava di poter conquistare qualsiasi
città, in cui fosse riuscito a introdurre un asino carico d'oro.
Giugurta pensava che Roma fosse eternamente pronta a vendersi: bastava
trovare il compratore. La cleptocrazia nell'Urbe era enormemente superiore
a quella attuale. Per le elezioni si spendevano cifre immense. Il voto
di scambio era una notissima norma. E' però un luogo comune che
nel periodo imperiale la corruzione fosse maggiore che in quello repubblicano.
E' vero il contrario. Nel 123 avanti Cristo lo stesso Caio Gracco denunciò
pubblicamente che tutti i senatori per prendere delle decisioni incassavano
bustarelle.
Ma non si trattava solo di corruzione al centro. La periferia non scherzava.
I governatori delle province, infatti, come cleptomani erano in pole
position. Accumulavano debiti maestosi per le campagne elettorali, e
una volta eletti si rifacevano rubando ai cittadini. Bruto, che fu fatto
passare per un eroe e un campione di virtù, prestò denaro
a una città dell'isola di Cipro. Ma al 48 per cento, mentre il
massimo legalmente consentito era il 12 per cento. Per ottenere simili
condizioni di strozzinaggio, si fece fare un'apposita "leggina"
da suo zio, Catone. Poiché i ciprioti non volevano pagare, i
romani cinsero d'assedio quella colpevole cittadina.
C'erano eccezioni. L'imperatore Vespasiano fu immune da vizi pecuniari.
Onesto fino all'inverosimile. Anche Cicerone rappresentò un'eccezione.
Non rubava, ma certamente non era morto di fame. in un anno di governatorato
della Cilicia guadagnò l'equivalente odierno di due miliardi
di lire. Una carica come la sua mediamente fruttava, a chi si sapeva
muovere con abilità e con disinvoltura, anche fino a cento miliardi.
Ma bisogna tener conto di un fatto: Cicerone non era un militare, e
all'epoca le guerre, a dispetto delle vittime che procuravano, spesso
somigliavano a redditizie scampagnate.
Dalla conquista della Gallia, Cesare ricavò un tesoro: circa
duemila miliardi attuali. Almeno un migliaio nè portò
a casa Pompeo dalle sue varie campagne. Un importante cespite di guadagno
era la vendita di prigionieri e di schiavi. Poi, com'è ovvio,
c'erano le tangenti sulle opere pubbliche. Il caso Verre, appunto, fu
clamoroso: per far vincere una gara d'appalto a un suo dipendente, o
socio, o amico, il senatore aveva respinto offerte molto più
a buon mercato, che però non gli consentivano di farci su una
buona cresta.
Le guerre puniche furono un mercato truffaldino e rappresentarono l'inizio
di una lunga epoca di profitti sulle forniture militari. Nel 217 avanti
Cristo una compagnia di pubblicani, cioè di imprenditori, acquistò
una flottiglia di navi scassate e le fece colare a picco, esigendo dallo
Stato il pagamento dell'assicurazione. La truffa venne scoperta, ma
- racconta Tito Livio - il popolo difese i corrotti, nel timore che
si perdessero i posti di lavoro.
Cleptocrati eccellenti si ebbero anche tra i funzionari delle corti
medioevali. Intanto, restano memorabili alcune requisitorie, come quelle
di Giuseppe Flavio, Appiano, Diodoro. Flavio se la prendeva con i governatori
della Giudea. Però, quando i notabili venivano colti con le mani
nel sacco, le condanne a loro carico si risolvevano spesso nel nulla.
I colpevoli finivano in esili dorati, a godersi il bottino. D'altro
canto, su un tema specifico, quale i finanziamenti illeciti per le elezioni,
le leggi rimasero sempre volutamente ambigue.
Più tardi Sant'Agostino, Wycliffe, Dante, non faranno che redarguire,
indignati, le sanguisughe da sottogoverno. Ai primi dei Cinquecento,
poi, anche gli avidi galoppini e "clientes" di papa Giulio
II troveranno un celebre censore. Michelangelo li ammonisce con queste
parole, in una lettera emersa di recente dagli archivi vaticani: "Non
accettate mance e presenti, neppure se vengono dal cielo. Corrompono
la giustizia".
Firenze, 1527. Finisce sotto accusa nientemeno che Francesco Guicciardini.
Lo storico e statista viene indicato come "rubatore de' denari
pubblici", saccheggiatore delle casse dell'esercito "uomo
che ha esosa la vita privata". Sorse allora l'interrogativo: politica
è uguale a ruberia continua? E in seguito: democrazia è
uguale a cleptocrazia? Il furto fa parte del codice genetico dei regimi
sia oligarchici sia democratici? Non avevano dubbi i teorici delle élites,
fra Otto e Novecento: da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, da Max Weber
a Edward Mayer: tutti i governi rubano, ma quelli parlamentari rubano
di più: "La democrazia", sosteneva Mosca, "moltiplica
la corruzione". Osserva Lucio Colletti: in queste idee c'è
un fondo di verità e di buonsenso. Nei regimi autoritari, la
cerchia dei detentori del potere è ristretta. Le decisioni le
prendono in pochi, e dunque pochi hanno la possibilità di manomettere
le sostanze pubbliche. Nei regimi parlamentari, anche se esistono alcune
forme di controllo, la corruzione tende ad essere democraticamente diffusa.
In fondo, è stata questa la specialità italiana dagli
anni Cinquanta ad oggi. E per questo abbiamo un posto di rilievo negli
annali delle repubbliche più inquinate. Siamo, peraltro, in buona
compagnia. Finora, infatti, gli studiosi se l'erano presa soprattutto
con l'antica Atene, e poi, nell'ordine, con la Seconda e con la Terza
Repubblica francesi. La graduatoria ci vede inclusi. In cima continua
ovviamente ad essere Atene. La madre di tutte le democrazie fu simultaneamente
anche la prima cleptocrazia? L'oratore Lisia, nel IV secolo avanti Cristo,
ammetteva: "Ci sono senza dubbio uomini che spendono soldi per
ricavarne il doppio dalle cariche che occupano". Il suo collega
Iperide rincarava la dose: "Si sa che i politici rubano. Dovrebbero
soltanto non rubare troppo".
Nel 324 avanti Cristo, il tesoriere di Alessandro Magno prese il largo
con la cassa. Arpalo - così si chiamava - chiese asilo ad Atene
e depositò sull'Acropoli il denaro macedone. Quando il forziere
venne aperto, si scoprì che conteneva la metà delle sostanze
iniziali. Con l'altra metà, Arpalo si era comprato i politici
ateniesi.
Anche Demostene ebbe la sua parte: venti talenti. Era una cifra enorme.
Corrispondeva al quadruplo del tributo fiscale di un'intera città
di allora. Si può dire comunque che Demostene rubò per
il partito, o almeno per la ragion di Stato: vale a dire, per finanziare
la guerra alla Macedonia.
E la gente che pensava? I concittadini di Pericle erano convinti che
si dovesse trarre un guadagno dall'attività politica. Pochi avevano
qualcosa da obiettare. Lo scandalo esplodeva piuttosto quando i denari,
raccolti a fine politico, venivano direttamente intascati.
Dall'Acropoli alla Senna. Dall'Atene classica alla Parigi moderna. Che
in Francia repubblica e ruberia siano quasi sinonimi è persino
un luogo comune acclarato molto prima degli ultimi scandali mitterandiani.
Se Maximilien Robespierre si meritò il nomignolo un poco astioso
di Incorruttibile, fu perché questa sua qualità rappresentava
un'eccezione nel mondo della Rivoluzione francese. Il suo grande antagonista,
Georges-Jacques Danton, non riuscì mai a spiegare come avesse
impiegato le risorse finanziarie segrete (i "fondi neri" dell'epoca)
del ministero della Giustizia. Dopo il Consolato, nel 1799, si poté
dire che Napoleone aveva trapiantato nel nuovo sistema le peggiori consuetudini
economicofinanziarie dell'Ancien Régime.
In seguito, quelle tradizioni si dimostrarono quasi inestirpabili. Quello
del principe di Talleyrand fu un caso celebre. Per farsi fissare un'udienza
da lui, ministro degli Esteri, era necessario versargli un compenso.
E nel 1805, dopo la firma della pace di Presburg, Talleyrand, per aver
ridotto di dieci milioni di franchi l'indennità di guerra dovuta
all'Austria, incassò una congrua percentuale sull'ammontare dello
sconto. Quella volta Napoleone gli diede del ladro.
Passiamo un quarto di secolo oltre. Quello di Luigi Filippo, a partire
dal 1830, non si potrebbe semplicisticamente definire un regime autoritario.
A dimostrarne il carattere democratico basta la sua disinvoltura di
cassa. Nel 1832, Prosper Mérimée confidò al suo
collega Stendhal che gli era stata offerta la carica di capo di Gabinetto
di Adolphe Thiers, con diecimila franchi, alloggio, carrozza... Aveva
rifiutato, confessò, perché "disgustato dalla cattiva
nomea di quella bottega".
Lo stesso Luigi Filippo, più noto come Philippe Egalité,
diceva del suo primo ministro: "Il signor Guizot è personalmente
incorruttibile. Ma governa attraverso la corruzione. Mi fa l'effetto
di una donna onesta che amministri un bordello".
Ma il più proverbiale degli affaires si consumò fra il
1877 e il 1899. Mentre in Italia venivano in superficie gli scandali
post-risorgimentali, culminati negli imbrogli della Banca Romana, in
Francia vigeva la cosiddetta "Repubblica opportunista". Un
altro nomignolo della Terza Repubblica fu la "democrazia degli
avvocati". Spesso, i deputati e i giornalisti più influenti
agivano sulla base di bustarelle piovute dall'estero. Alla vigilia della
Grande Guerra, lo zar Nicola Il inondò di mazzette redazioni
e aule parlamentari.
Ne nacquero scandali clamorosi, ma ben pochi processi.
Insomma, dai creatori della democrazia ellenica agli avvocati post-giacobini
dell'Ottocento, fino ai nostri portaborse contemporanei, la tangentocrazia
storica sembra librarsi - per paradosso - in un eterno presente. Non
a caso è stato scritto: i regimi totalitari e assolutistici hanno
conosciuto fasi di corruzione sfrenata. Ma si è nel vero se si
dice che la democrazia rappresentativa ha un rapporto speciale con la
corruzione. Che dipenderà forse molto dai regimi, ma certamente
molto di più dall'educazione culturale e civile degli uomini.
I cleptocrati
Rapinatori
a mano disarmata
L'Italia che emerse
dal Risorgimento fu un fiore di virtù? Proprio per niente,
rispondevano borbonici e papisti, Nel 1872 fu pubblicato, anonimo,
un volume dal titolo emblematico: Storia dei ladri nel Regno d'Italia
da Torino a Roma. Autore fu, forse, un chierico o un vecchio cortigiano
della Santa Sede, che non ne poteva più di vedere gli statisti
cavouriani, da Urbano Rattazzi a Marco Minghetti, che consentivano
furti a piene mani, e tutti furti "politici". Anche perché
il Risorgimento, fin dalle origini, aveva esaltato con somma retorica
il civile impegno delle "mani pulite". Aveva cantato Vittorio
Alfieri: "Rubino i ladri, è il loro dovere. Il mio è
di schernirli, al boia d'impiccarli".
Ma sarebbe stato necessario uno sterminio per ripulire il nuovo mercato
della politica. Secondo l'anonimo autore, infatti, dati statistici
alla mano, il Piemonte aveva il primato assoluto "nella parte
tecnica e pratica dei furti". E aggiungeva: "Si rubava certo
in tutta Italia, in Roma e in Napoli, in Firenze e in Bologna; ma
così liberamente, dottamente, italianissimamente come a' pié
delle Alpi non si rubava in nessuna contrada". Conclusione: "I
ladri, per segnalarsi sotto il Regno d'Italia, trovarono un solo ostacolo:
i ladroni subalpini avevano già tanto rubato". E in questo
mestiere, evidentemente, dovevano essere imbattibili. Al punto che
per il piemontese Giovanni Lanza, presidente del Consiglio ai tempi
di Porta Pia, venne composto uno specifico epitaffio funebre:
"Qui Giovanni Lanza giace / che rubando Roma al Papa /gli altri
ladri lasciò in pace".
Nel 1869 era scoppiato il caso del monopolio tabacchi. Agli imbrogli
connessi con questo appalto pubblico parteciparono parlamentari, finanzieri
e persino qualche ex frate diventato faccendiere. Uno ci rimise le
costole. In un vicolo di Firenze, allora capitale, venne accoltellato
il deputato Cristiano Lobbia, che si batteva per moralizzare la vita
pubblica. Erano gli anni in cui Francesco De Sanctis accusava parecchi
parlamentati che "di fronte alle ruberie guardano con un certo
sorriso caratteristico quelli che ne sono scandalizzati. Come se volessero
dire: 'Poveri di spirito, non conoscono il mondo!'". Alla fine
del secolo venne riesumata per Umberto I la poesia "Il re travicello",
che Giusti aveva scritto anni prima: "Li bada a mangiare e lascia
rubare". Si alludeva, fra l'altro, alle maxitruffe negli appalti
ferroviari, che avevano assunto dimensioni gigantesche sotto il Gabinetto
Crispi.
Gli annali della cleptodemocrazia - prima e durante i dicasteri di
Giovanni Giolitti, definito da Salvemini "ministro della malavita"
- sono fittissimi. 1883: un branco di pescecani si precipita sull'appalto
per costruire il palazzo di giustizia, il celebre e orrendo "Palazzaccio",
a Roma. Fa parte di questo gruppo quel Bernardo Tanlongo che, nel
1892, sarà al centro del famoso e intricato scandalo della
Banca Romana, 1903: l'affare delle navi corazzate. Il ministro della
Marina, Giovanni Bettòlo, viene accusato di loschi traffici
con le acciaierie di Terni per il potenziamento della flotta militare.
L'anno successivo, lo scandalo Nasi. L'ex ministro Nunzio Nasi aveva
distribuito ai suoi elettoti trapanesi un milione e 700 mila lire,
destinate al bilancio della Pubblica Istruzione. Fu condannato, ma
i trapanesi continuarono ad eleggerlo fino al 1928.
Durante il periodo fascista le cose cambiarono poco. Il regime aveva
esordito nel 1923 con lo scandalo dello zucchero e con quello delle
ferrovie siciliane. E' del 1929 il caso di Ernesto Belloni, il podestà
di Milano che aveva praticato sistemi predatori. Ma l'accusatore di
Belloni, Roberto Farinacci, dovette render conto a Benito Mussolini
di molti pettegolezzi. "Duce" gli disse, "è
vero che nel '22 ero un pezzente e ora viaggio in automobile. Ma mi
è stata regalata dai ferrovieri della mia città".
E Mussolini ribatté: "L'apologia del pezzentismo mi è
odiosa quanto l'esibizionismo pescecanesco". Ma il peggio doveva
ancora venire. Culminò nella vicenda dell'oro di Dongo, trafugato
dai partigiani che catturarono Mussolini e finito nelle casse dei
comunisti.
I cleptocrati
Lo scandalo
della Marina
Verso la fine
del 1904, la Camera approvò la legge per un'inchiesta governativa
sulla Marina. In base a questa legge, fu nominata una Commissione,
della quale fecero parte l'onorevole Girolamo Giusso, nella qualità
di Presidente, l'onorevole Leopoldo Franchetti, relatore, il socialista
Quirino Nofri, il magistrato Oronzo Quarta, il generale Baldissera,
ecc. Dopo due anni di lavoro, la Commissione pubblicò la relazione
in cinque volumi. Nell'introduzione si affermava: "La Commissione,
per necessità e per proposito, si è attenuta ai fatti
e non si è occupata di persone".
Pur non essendo stata affrontata l'ardua questione delle responsabilità
individuali, le conclusioni dell'inchiesta furono eccezionalmente
gravi, specie a proposito dei rapporti che corsero tra il ministero
della Marina e la Società Terni. In tutti i contratti stipulati
con questa società per l'acquisto delle corazze, dal 1884 in
poi, lo Stato aveva pagato prezzi eccessivamente alti. "Questa
prodiga generosità -diceva la relazione - è stata così
temeraria, così cieca da trascurare ogni precauzione diretta
a proteggere il denaro pubblico [ ... ]. Per favorire le Terni, l'Amministrazione
della Marina ha ecceduto le spese per corazze, superando sensibilmente
la cifra, di nove milioni". E, quel ch'è peggio, indipendente
dai prezzi abnormi, la qualità delle corazze era molto scadente.
Su per giù, le stesse accuse erano ripetute per i proiettili
della Terni e per i cannoni costruiti dalla Casa Armstrong.
I risultati di questa inchiesta produssero reazioni dolorose in tutto
il Paese. li 28 giugno 1906 iniziò alla Camera il dibattito.
L'opera della Commissione fu accusata di incompetenza e di leggerezza
da alcuni deputati, ma fu strenuamente difesa non solo da Giusso e
Franchetti, bensì anche dai deputati Albasini, Bissolati, Comandini,
Lacava, Prinetti e Nitti. Bissolati mise in rilievo le colpe dello
Stato, che con le sue anticipazioni e i sovrapprezzi aveva creato
e fatto sviluppare la Società Terni: "Qui non siamo davanti
a un caso di protezionismo, perché il protezionismo consiste
nel creare condizioni favorevoli a colui che rischia i propri capitali,
e la Terni rischiava i capitali dello Stato. Qui non siano neppure
in materia di socialismo di Stato, poiché per il socialismo
di Stato i profitti dovrebbero ritornare allo Stato, e qui i profitti
sono andati nelle tasche dei signori azionisti. Qui siamo di fronte
semplicemente a questo fatto, che lo Stato fu puramente e semplicemente
consegnato alla speculazione privata, perché essa ne facesse
bottino".
All'inchiesta sulla Marina seguì quella sull'Esercito. Il 16
marzo 1907 la Camera approvò un disegno di legge per la nomina
di una Commissione incaricata di indagare su tutto ciò che
riguardava l'organizzazione e l'amministrazione dei servizi dipendenti
dal ministero della Guerra. Nello stesso 1907 il Parlamento votò
un'altra importante indagine conoscitiva, sulle condizioni dei contadini
nelle province meridionali e in Sicilia.
Banca Romana
/ 1
La madre di
tutti gli scandali
Nel giugno 1889,
sotto il secondo ministero Crispi, il ministro dell'agricoltura Miceli,
cui allora spettava il compito di vigilanza degli Istituti di emissione,
incaricò il sen. Alvisi e il comm. Monzilli di ispezionare
la Banca Romana. Fu accertato che in questo Istituto esistevano gravi
irregolarità e un "vuoto" di 9 milioni. Il Governatore
della Banca, comm. Tanlongo, interrogato dal ministro, affermò
che il vuoto non esisteva e che egli e i suoi collaboratori avevano
l'abitudine di trattare le cose bancarie "patriarcalmente",
ossia senza le "rigorose cautele" usate in altri istituti.
Gli indagatori, tornati alla Banca poco dopo, con grande sorpresa
constatarono che la cassa era stata integrata. Era accaduto che Tanlongo,
per indurre il ministro a prestar fede alla sua parola, era riuscito
da un giorno all'altro a procurarsi dalla Banca Nazionale la somma
di 10 milioni. Ma da tempo circolavano voci allarmate sulla "grave
situazione" della Banca Romana e di altri istituti di emissione.
Nella seduta del 30 giugno 1891, sotto il primo dicastero Di Rudinì,
l'on. Alvisi dichiarò in Senato di voler rivelare i risultati
dell'ispezione bancaria, da lui eseguita due anni prima. Ma i ministri
del Tesoro, Luzzatti, e dell'agricoltura, Chimirri, glielo impedirono
in nome "del credito pubblico e dei supremi interessi del paese
e della patria".
Ci furono grandi manovre per evitare lo scandalo. Ma i risultati dell'ispezione
alla Banca Romana costituivano solo in parte un mistero. Il sen. Alvisi,
infatti, prima di morire, aveva consegnato a Leone Wollenborg una
copia della relazione dell'ispezione eseguita. E il prof. Maffeo Pantaleoni,
conosciuto anche lui il contenuto, pregò l'on. Napoleone Colajanni
"di portare la cosa alla tribuna parlamentare".
Immediatamente la stampa italiana ed estera informarono che un deputato
"radicale" avrebbe suscitato alla Camera uno "scandalo".
Il 19 dicembre 1892 l'on. Giolitti, anche per prevenire la proposta
di un'inchiesta parlamentare, presentò un nuovo disegno di
legge che prorogava la facoltà di emettere biglietti di banca
solo fino a tutto il marzo 1893, comunicando nel contempo di aver
stabilito di far eseguire dal sen. Finali un'ispezione amministrativa
in tutti gli istituti di emissione.
All'indomani, Napoleone Colajanni, incoraggiato da Bovio, da Di Rudinì
e da Pantano, fece alla Camera, ov'erano presenti oltre 400 deputati,
il discorso con le celebri rivelazioni: "Il torto principale
della Banca Romana sta nella 'Cassa a mano' a disposizione del cassiere,
mentre la cassa di riserva è a tre chiavi. Orbene, l'ispezione
constatò in libera custodia del cassiere la ingente somma di
49 milioni di lire in numerario e valori diversi, di cui 7 milioni
circa appartenenti alla 'riserva', che non dovevano trovarsi in quella
cassa. E' constatato inoltre che da cinque anni non era stato fatto
il riscontro mensile della cassa,. prescritto dagli statuti. Mancava
inoltre 'un'obbligazione personale di garanzia' che figurava nei conti
ivi depositati per l'ammontare di 4 milioni, appartenente detta obbligazione
al Presidente del consiglio di censura, don Giulio Torlonia. Quel
ch'è grave ancora, nella verifica di cassa, a formare la massa
di 44 milioni, propri della Banca, trovati in cassa, erano concorsi
9 milioni di lire creati indebitamente, ossia in eccedenza della emissione
risultante dai verbali di creazione. Questi biglietti avevano le caratteristiche
della regolare emissione, essendo forniti, come di consueto a stampiglia,
delle firme del cassiere e del censore. Venne constatato che i timbri
per la stampiglia delle firme erano conservati dal governatore in
una cassa speciale, di cui egli solo teneva le chiavi, e che la carta
per i biglietti di scorta e per le future emissioni non era custodita
entro la cassa forte della riserva, di cui deve tenere una terza chiave
il Presidente del consiglio di censura, ma invece in armadi in una
camera custodita dal cassiere".
"Infine, riscontrata anche la cassa per i biglietti esistenti
come scorta in magazzino, vi si trovò una mancanza sul taglio
di L. 50, per l'ammontare di L. 50.000. Nelle situazioni pubblicate
dalla Banca Romana, questa esponeva fra circolazione e cassa cifre
non vere. Risultò dalla verifica che con tal metodo essa, il
30 giugno 1889, mascherava una eccedenza abusiva di 25 milioni di
circolazione cartacea in più di quanto aveva il diritto di
mettere in giro [ ... ]. Il 'portafoglio di piazza', che assorbe i
nove decimi dell'intero, era costituito in massima parte di effetti
di comodo, rinnovati, scadenza per scadenza, quasi integralmente;
ed alcuni di questi effetti accusavano scadenza anche a più
anni. Mancavano le deliberazioni della commissione di sconto, conservandosi
soltanto biglietti volanti, firmati da un sol membro della commissione
e perciò suscettibili di successive modificazioni".
Proseguì il relatore: "E veniamo ora alla clientela della
Banca - non accenno alle persone -. A dimostrare in qual modo sono
distribuiti i denari della Banca nel mondo commerciale basteranno
pochi dati riassuntivi. Cito cifre tonde per rendere meno lunghi questi
accenni. Sopra 1.686 clienti, ai quali furono distribuiti, nell'epoca
alla quale si riferisce l'ispezione, 83 milioni di lire, figurano
179 persone, che ne ebbero 73 milioni, e fra queste soltanto 19 ne
ebbero per 33 milioni e mezzo; agli altri 1.507 clienti - poveri paria
del commercio - vennero offerti i bricioli della mensa, cioè
appena 10 milioni e mezzo [ ... ]. Circa 12 milioni di conti correnti
attivi, prelevati sul fondo depositi fruttiferi, e perciò destinati
ad investimenti brevi, perché soggetti a pronti eventuali rimborsi,
erano aperti invece per la massima parte a lunga scadenza. Mascherando
abilmente la cosa nella situazione contabile. Fra i correntisti debitori,
vi figura lo stesso Governatore della Banca per un milione e 169 mila
lire che riversò in cassa alla vigilia della verifica".
Colajanni concluse il suo discorso proponendo un'inchiesta parlamentare.
Subito dopo, anche il deputato di Destra ori. Gavazzi, al quale era
stato comunicato il contenuto della relazione Alvisi dal prof. Mazzola,
prese parola per dire: "Presso la Banca Romana è imperfetta
la contabilità, è anormale la creazione dei biglietti,
è eccessiva ed in parte simulata la loro circolazione, e confusa
la sistemazione della cassa generale, e mal custodita la massa dei
biglietti spendibili e dei riservati alle innovazioni e di quelli
pronti per ulteriori illegittime e illegali emissioni".
L'on. Gavazzi giunse alla stessa conclusione del precedente oratore:
l'inchiesta parlamentare. L'on. Miceli fece brevemente la storia dell'ispezione
eseguita nella Banca Romana e accennò ai chiarimenti datigli
dal Governatore Tanlongo: "Io, o signori - continuò a
dire l'ex ministro dell'Agricoltura - constatate le irregolarità,
non indugiai a disporre perché si emendassero; ma non mi restò
punto nell'animo il sospetto che fossero accadute cose indegne, cose
che potessero essere ritenute criminose [ ... ]. Concludo dichiarando
che tutte le voci raccolte nelle piazze e nei trivii [ ... ] non hanno
base nella realtà".
L'on. Baccelli deplorò che fosse stato fatto segno a "sospetti
ed insinuazioni ed accuse" il comm. Tanlongo, che era "uomo
operoso, benefico e pieno di onore". L'on. Crispi si oppose all'inchiesta
parlamentare soprattutto per non aggravare all'estero la situazione
del nostro credito. L'on. Giolitti, dopo aver dichiarato "di
non aver neppure letta la relazione Alvisi", e che gli avversari
miravano a "trasportare in Italia la corrente di diffamazione
cominciata altrove" (e alludeva agli scandali in Francia per
il taglio dell'istmo di Panama), invitò la Camera a respingere
l'inchiesta parlamentare.
Promise però che il governo, "nell'interesse della verità
e del credito", avrebbe fatto un'ispezione esatta, completa,
il cui risultato sarebbe stato comunicato poi al Parlamento: "Se
non ci credete capaci di far eseguire un'inchiesta, se non ci credete
tanto onesti da dire la verità, avete il dovere di mandarci
via. Io prego la Camera di risolvere immediatamente questa situazione.
E' una questione di fiducia o di sfiducia. Di qui non si può
uscire. lo dichiaro che non resterò un istante a questo posto,
se la Camera non vota la legge, respingendo qualunque proposta d'inchiesta
parlamentare".
Colajanni chiese nuovamente la parola, soprattutto per dire che c'era
un modo molto semplice per dimostrare ch'egli era un calunniatore:
pubblicare l'inchiesta. Ma la Camera, che nella sua grande maggioranza
aveva già applaudito le dichiarazioni del presidente dei ministri,
approvò con 316 voti contro 27 il disegno di legge per la proroga
di tre mesi della facoltà di emissione dei biglietti di Banca.
E tuttavia nessuno poteva più fermare lo scandalo.
Le rivelazioni di Colajanni ebbero un'enorme ripercussione in quasi
tutta la stampa d'Europa. Quella italiana si divise in due correnti:
l'una favorevole alla Banca Romana, l'altra contraria. Quella contraria
era rappresentata dal Corriere della Sera, dal Secolo, dal Roma, dal
Corriere di Napoli e dal Fanfulla; quella favorevole, invece, dalla
Gazzetta Piemontese, dalla Sera di Milano e soprattutto dal Popolo
Romano diretto dal potentissimo Costanzo Chauvet, contro il quale
Felice Cavallotti scatenò una terribile campagna morale. Alludendo
appunto a Chauvet, Cavallotti così si espresse alla Camera,
nella seduta del 24 giugno 1893: "Abbiamo bisogno di sapere se
vi sia in Roma, nella più lurida delle fucine della stampa
sua, qualcheduno che, giocando di audacia, ostenti il diritto di usurpare
le più delicate funzioni che spettano agli uomini del Governo
e di cui essi soli hanno la responsabilità; il diritto di metter
le mani nelle più delicate cose che interessano il credito
del paese, perfino nelle faccende elettorali; e se abbia il diritto
costui, che versa a piene mani il vituperio sopra i deputati che esercitano
qui il loro dovere, di farsi bello, ingiuriandoli, di amicizie di
uomini di governo, del rispetto e della stima di tutti i galantuomini
a cui si attaccò, come la zacchera di fango può vantarsi
della scarpa del galantuomo cui si è posata".
Con decreto reale del 30 dicembre 1892, fu istituita una Commissione
di sei membri, con l'incarico di eseguire un'ispezione straordinaria
sugli Istituti di Emissione per accertare: la creazione, l'emissione
e il ritiro dei biglietti; la quantità dei biglietti in circolazione
e di quelli di scorta; la consistenza delle riserve metalliche, lo
stato dei portafogli; l'entità e la natura degli impieghi diretti,
delle sofferenze, delle immobilizzazioni e di qualunque altra operazione;
e tutte le altre circostanze di fatto capaci di stabilire la condizione
di ciascun Istituto.
La Commissione fu presieduta dal seri. Gaspare Finali, primo presidente
della Corte dei Conti. Questi assegnò a Enrico Martuscelli,
segretario generale della stessa Corte, l'ispezione della Banca Romana;
a Giacomo Orsini, ragioniere generale dello Stato, quella della Banca
Nazionale; a Giacomo Regaldi, direttore Generale del Demanio, quella
del Banco di Napoli; a Gioacchino Busca, intendente di finanza a Torino,
quella del Banco di Sicilia; a Gaetano Durandi, ispettore generale
del ministero del Tesoro, quelle della Banca Nazionale Toscana e della
Banca Toscana di Credito.
Martuscelli portò a termine la sua ispezione con una sollecitudine
davvero impressionante. Fin dai primi giorni egli constatò
gravissime irregolarità nella Banca Romana. Il 15 gennaio 1893
il presidente del Consiglio, adottando un metodo ben strano, fece
comunicare al Governatore della Banca, Tanlongo, e a due alti impiegati,
Cesare e Michele Lazzaroni, "di non allontanarsi da Roma, ché
altrimenti sarebbero arrestati".
"Dietro un siffatto avviso - notò Colajanni - i sorvegliati
ebbero tutto il tempo di fare sparire gli elementi che avevano interesse
ad occultare".
Il 18 gennaio, Martuscelli stese il suo rapporto. Ne riproduciamo
la conclusione: "Dalla presente ispezione della Banca Romana
è risultato dunque: 1) disordine nella gestione della Cassa,
congiunto ad un vuoto nei biglietti di scorta, che nei giorni precedenti
alla ispezione si è cercato di dissimulare mediante l'apertura
di crediti allo scoperto nei conti correnti; 2) eccesso di circolazione,
sino a raggiungersi, con la circolazione illegale ed abusiva, quasi
il doppio in valore della circolazione alla Banca permessa; 3) tentativo
di porre in circolazione serie duplicate di biglietti, fatti fabbricare
dal governatore clandestinamente, tentativo per fortunato accidente
e, per merito di alcuni impiegati superiori della Banca, non riuscito,
e però rimasto senza effetti dannosi per il pubblico; 4) un
portafoglio per i quattro quinti immobilizzato, che non potrà
non essere di lenta e difficilissima realizzazione e cagionare perdite
sensibilissime all'istituto; 5) un cumulo di crediti attivi allo scoperto
e nella massima parte non garantiti; onde di assai dubbia riscossione
e produttivi di altre notevoli perdite; 6) molte le sofferenze antiche
di cambiali non soddisfatte alla scadenza, che si continuano a portare
in attivo anche quando dagli atti esecutivi sia risultato disperato
il ricupero dei credito della Banca, 7) utili fittizi portati a comodo
nel bilancio, a scopo di poter continuare a distribuire dividendi
agli azionisti. Tutto ciò rende necessario che cessi un istituto
di emissione, che non ha solidità di sorta ed ha così
demeritata la pubblica fiducia".
La sera stessa ebbe luogo a Palazzo Braschi una riunione, alla quale
parteciparono Giolitti, il ministro di Grazia e Giustizia, Bonacci,
i seri. Finali e Bartoli, quest'ultimo Procuratore Generale della
Corte d'Appello di Roma.
All'indomani, 19 gennaio, vennero arrestati Fernando Tanlongo e il
cassiere Cesare Lazzaroni. Accusa: peculato e falso in atto pubblico.
Di lì a poco fu spiccato mandato di cattura non solo contro
il comm. Monzilli, alto funzionario del ministero dell'Agricoltura,
perché accusato di avere, mediante compenso, redatto una falsa
relazione sull'ispezione fatta nella Banca Romana nel 1889, ma anche
contro il comm. Michele Lazzaroni, perché, nella qualità
di reggente della Banca, "aveva aperto a se stesso e ad un suo
amico un forte conto corrente".
Nelle sedute alla Camera del 26, 27 e 28 gennaio furono svolte parecchie
interrogazioni e interpellanze sui fatti bancari. Giovanni Bovio chiese
un'inchiesta parlamentare anche per conoscere dove era stato preso
"il gran danaro profuso dai prefetti" per escludere dalla
Camera uomini che meritavano di rappresentare il paese. Colajanni,
a sua volta, dopo aver dichiarato che non si sentiva meno patriota
degli altri, aggiunse: "Signori, ricordiamoci bene che se noi
non colpiremo oggi corrotti e corruttori, lasceremo intatte le cause
che determinano la maggior parte dello sfacelo degli istituti di emissione,
con danno immenso, forse in parte irreparabile, del credito nazionale
[ ... ]. Interrogate gl'illustri medici, gl'illustri biologi che sono
in questa Camera; essi vi diranno che, lasciato in un organismo un
solo germe di infezione, questa infezione procede rapida, fatale,
lo invade tutto. E ricordatevi che gli organismi inferiori (e sono
organismi inferiori, per l'appunto, tutti quelli che si sviluppano
dalla putredine) si propagano e si moltiplicano con una vertiginosa
rapidità".
Ma neppure questa volta Giolitti volle aderire alla richiesta di un'inchiesta
parlamentare: "Non credo opportuna - disse - una inchiesta, perché
avrebbe l'aspetto di una diffidenza verso l'autorità giudiziaria,
la quale saprà fare, come sempre, il suo dovere [ ... ]. E
d'altra parte non posso nascondere che un'inchiesta parlamentare avrebbe
tutto il significato di un voto si sfiducia verso il Ministero [ ...
]. I Parlamenti, come i Governi, devono avere a guida dei loro atti
unicamente la fredda ragione. Contro un'onda di male voci si è
sollevato naturalmente nella Camera un generoso sentimento che spinge
i deputati ad accettare l'inchiesta. Ma io credo che sia dovere di
ognuno di fare forza anche ai propri sentimenti dinanzi ad una questione
che interessa i più alti principii, che interessa il credito
del paese".
Fra gli altri, condivisero pienamente le idee del presidente del Consiglio
gli onorevoli Fortis, Nasi, Marcora, Ferrari e Paternostro. Ben presto,
però, lo scandalo bancario entrò in una fase acuta e,
nello stesso tempo, tragica.
Durante le perquisizioni in casa del cassiere Lazzaroni furono trovati
anche degli appunti, da cui risultava che l'on. Rocco De Zerbi dal
1888 al 1891 aveva ottenuto dalla Banca Romana 425 mila lire "come
compenso per aver favorito in Parlamento le ragioni e gl'interessi
dell'Istituto". Il primo febbraio venne presentata alla camera
la richiesta di autorizzazione a procedere contro De Zerbi per peculato,
corruzione e millantato credito. Fra i documenti che accompagnavano
la richiesta vi era pure quello da cui si desumeva che Tanlongo nel
corso del suo interrogatorio aveva dichiarato di aver dato "cospicue
somme ai diversi Presidenti del Consiglio per occorrenze straordinarie
del Governo", e di essere disposto a provare tale accusa. Francesco
Crispi, essendo infermo, diresse una lettera al Presidente della Camera
per protestare contro la "gratuita asserzione" del Governatore
della Banca Romana. Il marchese De Rudinì, a sua volta, sentì
il bisogno, nella seduta del 2 febbraio, di affermare nel modo più
esplicito e formale che "mai, né direttamente, né
indirettamente, chiese o prese somma alcuna" da Tanlongo. Aggiunse
anzi di volere che un'inchiesta parlamentare esaminasse tutta la sua
condotta di capo di Governo. Ma Giolitti si oppose a quest'ultima
richiesta, dicendo: "Politicamente avversario dell'onorevole
Di Rudinì, credo di interpretare il sentimento unanime di tutti
quanti sono in quest'Aula nel respingere qualunque dubbio potesse
riguardare la sua persona. Ciò detto, io credo che non sia
il caso di dare importanza a parole di un imputato, il quale parla
nell'interesse della sua difesa".
"La voce uscita dal carcere - rispose Giolitti anche all'on.
Odescalchi, che gli aveva chiesto se avesse preso denaro dalla Banca
Romana - non merita di esser creduta".
Il 3 febbraio la Camera, in seguito alla relazione dell'on. Gallo,
accordò all'unanimità l'autorizzazione a procedere contro
l'ori. De Zerbi. Questi, dopo essere stato sottoposto dal giudice
istruttore ad uno snervante interrogatorio, morì nel suo villino,
in via Castelfidardo, a Roma, il 20 febbraio. E corse voce che si
fosse avvelenato, per non vivere la tragedia di vedersi "processato
come ladro".
L'Italia, che ammirava nel calabrese De Zerbi l'antico garibaldino,
il forte ingegno, il grande giornalista, l'oratore eloquente e il
costante oppositore della politica giolittiana, fu profondamente addolorata.
Si tenga anche presente che l'opinione pubblica, meno di un mese prima,
era stata nuovamente turbata dal feroce assassinio dei senatore Emanuele
Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia. Il processo che ne seguì
aveva sollevato gran rumore, soprattutto per le scandalose rivelazioni
di natura politica.
Il 20 marzo, Giolitti presentò alla Camera la relazione d'ispezione
del seri. Finali e un pacco di elenchi nominativi di cambiali in sofferenza
presso gli istituti di emissione. L'esame di questi elenchi doveva,
secondo il capo del Governo, essere affidato ad una Commissione di
cinque membri. Subito dopo, l'ori. Nicotera, calunniato proprio in
quei giorni dal giornale Il Napoli, prese la parola per proporre un'ampia
inchiesta, ritenendo che, nell'interesse di tutti, 'Tosse un bene
scoprire la verità. E' per l'onore del Governo del nostro Paese
che io chiedo si faccia luce piena per smentire le turpi calunnie
[ ... ]. Ma che autorità volete che abbia più il Governo,
che autorità volete che abbia più il Parlamento, se
s'insinua ogni giorno che qua dentro ci sono, non dirò dei
ladri, ma degli indelicati"?
E ancora una volta Giolitti si oppose alla proposta, sebbene l'accusa
fosse stata declassata da furto in indelicatezza (strano reato, in
realtà!), affermando: T' in corso un processo: io spero che
questo processo volga speditamente al suo termine, ma siamo sempre
nel periodo dell'istruttoria segreta. Ora una inchiesta parlamentare,
come viene generalmente intesa, potrebbe entrare nelle indagini che
sono attualmente nelle mani dell'autorità giudiziaria, ed allora
verrebbe ad intralciare il processo, verrebbe ad impedire che il processo
giunga alla sua conclusione".
Ma Bovio, al quale premeva il decoro del Parlamento, disse: "A
noi si porge chiaro il dilemma: o prendere un provvedimento serio,
o rassegnarci supinamente alla rovina morale nostra. E il provvedimento
sarà serio, se alla Commissione sarà dato potere amplissimo,
e responsabilità pari al potere suo. L'ufficio suo non può
limitarsi al leggere queste cambiali; essa deve andare assai più
in là ed investigarne la storia, e vedere in queste cambiali
fin dove arrivi la colpa e dove incominci la sventura; dove si è
fatto un credito maggiore della facoltà, come testé
diceva l'ori. Sonnino, dove c'è la firma vera, dove c'è
la firma falsa, dove c'è la cambiale e dove sia stata sottratta,
e sia stato fatto un credito che sfugge alla carta ed alla cambiale;
dove infine c'è l'avvoltoio che ha sfondato la rete, ed il
calandrino che c'è rimasto dentro. Tutto questo deve vedere
la Commissione; e non è facoltà del magistrato, è
dignità del Corpo legislativo: e se questo non faremo, noi
avremo scherzato con l'onore!".
Ma non era più possibile continuare a resistere alla pressione
della Camera che, nella sua grande maggioranza, voleva ora l'inchiesta,
tanto più che nella relazione del seri. Finali si leggevano
anche queste gravi parole: "E talvolta avvenne che il Governo
stesso, indotto da ragioni di ordine politico che sfuggono ad ogni
esame di questa ispezione, o le sovrastano, autorizzasse impieghi
diretti, che, in ogni migliore ipotesi, contrastano ai fini ed alla
essenza degli Istituti di emissione".
Il 21 marzo Giolitti si vide costretto a ripiegare, accettando l'ordine
del giorno del deputato Guicciardini, col quale si proponeva di nominare
una Commissione di sette membri per assodare tutte le responsabilità
d'indole politica e morale. Venne però stabilito che i membri
della Commissione da nominarsi dal presidente della Camera dovessero
astenersi dall'usurpare le funzioni spettanti all'autorità
giudiziaria.
Qualche giorno dopo, Zanardelli comunicò alla Camera i nomi
del "Comitato dei Sette": Giovanni Bovio, Alessandro Paternostro,
Antonio Mordini, Suardi Gianforte, Cesare Fani, Antonio Pellegrini
ed Eduardo Sineo. In considerazione dell'età e del suo glorioso
passato, venne chiamato ad essere presidente e relatore della Commissione
Antonio Mordini. Due i segretari: Paternostro e Fani.
Le prime perquisizioni alla Banca Romana erano state eseguite soltanto
dalla Pubblica Sicurezza. Questo fatto e la lentezza con cui si istruiva
il processo fecero sorgere nell'opinione pubblica il sospetto che
la magistratura, subendo le pressioni governative, mirasse ad insabbiare
gran parte della verità. Probabilmente, questo dubbio inquietante
dovette contribuire non poco, nella seduta del 19 maggio, a far respingere
dai deputati, con 138 voti contro 133, il bilancio del ministero di
Grazia e Giustizia.
Era il primo caso, nella storia del Parlamento italiano, di un bilancio
non approvato. Dunque, il ministro Bonacci senti il dovere di dimettersi
immediatamente. All'indomani, l'intero Gabinetto rassegnò le
dimissioni.
Giolitti succedette a se stesso. Tuttavia, gli scandali bancari ebbero
gravi ripercussioni sull'economia nazionale e sulla nostra credibilità
all'estero. Si tenga presente che le irregolarità riscontrate
nelle altre cinque Banche di emissione erano di gran lunga inferiori
a quelle della Banca Romana. Nella succursale di Roma dei Banco di
Napoli, per esempio, fu scoperto un ammanco di circa 2,5 milioni di
lire, per il quale venne poi arrestato il Direttore, Vincenzo Cuciniello,
che aveva cercato di fuggire travestito da prete. In generale, si
appurò che nel Banco di Napoli non solo non esisteva più
capitale, ma c'era un passivo di 20 milioni. Non c'erano "disordini
nella circolazione, ma il suo portafoglio era gravato da una mole
stupefacente di cambiali di nessun valore. Il metodo che era stato
seguito nel Banco di Napoli consisteva nello scontare cambiali firmate
da nullatenenti, che poi venivano messe fra le inesigibili".
Giolitti a questo punto dovette porre riparo prontamente ed energicamente.
Prima d'ogni altra cosa, "per impedire che il discredito involgesse
la carta di tutti gli istituti di emissione", dichiarò
che lo Stato garantiva qualsiasi biglietto di Banca. Stabilì
inoltre il pagamento dei diritti doganali in orodecretò l'emissione
di 30 milioni di biglietti da una lira, per evitare la speculazione
sulle cedole, che, dato il cambio del 15 per cento, si mandavano a
riscuotere all'estero, impose l'obbligo della presentazione del titolo,
col sistema dell'affidavit. Infine, ritenne che fosse giunto il tempo
di procedere alla realizzazione del riordinamento degli Istituti di
emissione.
Il 22 marzo, il ministro dell'Agricoltura e Industria e Commercio,
Lacava, presentò alla Camera un disegno di legge con cui mirava
a liquidare la Banca Romana, a fondere la Banca Nazionale e le due
Banche toscane in un solo istituto, che avrebbe dovuto assumere il
nome di Banca d'Italia, e a conservare in vita il Banco di Napoli
e il Banco di Sicilia. Si prescriveva, inoltre, un severo controllo
da parte dello Stato sull'emissione dei biglietti, e infine si stabiliva
la incompatibilità dei deputati e dei senatori per qualsiasi
ufficio nei tre Istituti. La proposta, dopo un ampio e spesso duro
dibattito, fu approvata il 10 agosto 1893.
Banca Romana
/2
Ma Giolitti
salvò la faccia e la lira
In pieno scandalo,
Giolitti si convinse che una politica d'attesa avrebbe significato
fare la scelta peggiore. Era necessario che il governo assumesse l'iniziativa,
mettendosi risolutamente sulla via della riforma degli Istituti di
emissione, affrontando i rischi che il presidente del Consiglio freddamente
non poteva non prevedere. Pertanto, il 30 dicembre 1892 incaricò
il Presidente della Corte dei Conti, sen. Finali, di compiere un'ispezione
su tutte e sei le Banche. Lo scopo era triplice: arginare le richieste
dell'opposizione e battere, come di fatto poi avvenne, almeno parzialmente,
la proposta di nominare subito la Commissione parlamentare d'inchiesta;
acquisire, d'altra parte, una base informativa aggiornata, sulla quale
costruire una nuova disciplina legislativa di tutta la materia; dimostrare,
con l'evidenza dei fatti, che il governo Giolitti non aveva alcuna
responsabilità in ordine al degrado degli Istituti di emissione,
imputabile invece all'indecisione, al lassismo, all'ingannevole ottimismo
dei precedenti governi e delle maggioranze parlamentari che li avevano
sostenuti.
Senza dubbio, la "relazione sulla ispezione straordinaria agli
Istituti di emissione", presentata da Finali a Giolitti il 16
marzo 1893, costituisce il documento più importante e più
ricco di informazioni per la ricostruzione della situazione tecnica
delle Banche di emissione alla vigilia dell'Atto Bancario di quell'anno.
Nel discorso agli elettori di Dronero, pronunciato il 18 ottobre,
Giolitti così ricostruiva il delicatissimo momento degli "scandali
bancari": "Fin dai primi suoi passi la nuova maggioranza
e il Ministero si trovarono di fronte una questione economica e morale
di gravità eccezionale. Parlo dei disordini scoperti negli
Istituti di emissione e delle loro conseguenze sul credito e sull'economia
del Paese. Sorte le prime voci di disordini in un Istituto di emissione,
il governo ordinò un'inchiesta amministrativa, la quale fu
eseguita con tale prontezza ed energia e con metodi così efficaci
che accertò subito gravissimi fatti nella Banca Romana e nel
Banco di Napoli, i quali furono immediatamente denunciati all'Autorità
giudiziaria. E poiché quei fatti gettavano il discredito sui
biglietti di banca, mezzo quasi unico dei nostri scambi, minacciando
una grave catastrofe economica, il Ministero assunse la responsabilità
di dichiarare garantiti dallo Stato i biglietti a corso legale, dichiarazione
che valse a togliere ogni allarme e che fu poi dal Parlamento convalidata".
Contemporaneamente, il presidente del Consiglio sollecitò la
ripresa delle trattative per le quattro società per azioni
(la Banca Nazionale nel Regno d'Italia, la Banca Romana, la Banca
Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito), esprimendo chiaramente
l'avviso che i banchi meridionali (Banco di Napoli e Banco di Sicilia)
dovessero restare fuori dal progetto di fusione.
Giolitti, infatti, ben prevedeva le reazioni furibonde che un provvedimento,
che segnasse la fine dell'autonomia dei banchi meridionali, avrebbe
scatenato fra i deputati del Mezzogiorno. I verbali del Consiglio
superiore della Banca Nazionale nel Regno forniscono in tal senso
un riscontro puntuale: l'11 giugno 1893 il direttore generale, Grillo,
"riferisce che il maggiore interessamento preso dall'opinione
pubblica al grave problema bancario e la persuasione ormai fattasi
generale che non convenga continuare uno stato provvisorio dannoso
al credito ed all'economia del Paese, gli ha permesso di riaprire
le trattative per la fusione delle Banche di emissione [ ... ], esprimendo
la speranza che esse possano portare ad una soluzione soddisfacente
alla quale non mancherà l'appoggio del governo per dichiarazione
avutane dal ministro del Tesoro, anche a nome del presidente del Consiglio
dei ministri".
Sempre Grillo "informa poi che in questi ultimi tempi venne constatato
che la Banca Romana si trova in condizioni disastrose e che il governo
associa all'idea della formazione di una sola Banca di emissione per
azioni risultante dalla detta fusione quella di addossarle la liquidazione
di essa Banca Romana prendendo a suo carico le perdite che ne risulteranno".
Nel verbale del 19 gennaio 1893, la relazione introduttiva del direttore
generale fornisce la seguente informazione, in un periodo che viene
poi espunto dal verbale su proposta del consigliere Lancia di Brolo:
"Non si avrà la Banca unica perché il governo si
è pronunciato molto nettamente sul punto della conservazione
dei due Banchi meridionali come Istituti di emissione, però
nelle condizioni attuali: ma si fa un gran passo verso l'attuazione
di questo concetto ch'egli prevede avrà in tempo più
o meno remoto il suo compimento perché così vuole l'interesse
del Paese".
In effetti, al termine della prima settimana del gennaio 1893, Grillo,
nel corso delle trattative per la fusione, si rese conto per certo
"non potersi più trattare di fusione, ma di una liquidazione
della Banca Romana", per lo stato fallimentare in cui versava
l'Istituto a causa dell'esistenza di un ulteriore vuoto di cassa di
9 milioni e 800 mila lire (oltre a quello di 13 milioni già
acclarato). Cosicché, mantenendo in quei giorni il Grillo,
come egli stesso dichiarò al processo per la Banca Romana in
Corte d'Assise, contatti continui con il governo, è verosimile
che il presidente del Consiglio ed il ministro del Tesoro appresero
da lui la verità sulla situazione della Banca Romana con anticipo
rispetto all'inizio dell'ispezione del segretario generale della Corte
dei Conti, Martuscelli, che cominciò, appunto, la mattina del
10 gennaio 1893. I gravissimi motivi di preoccupazione per la sua
posizione personale (Giolitti aveva proposto in Consiglio dei ministri
e poi al re la nomina a senatore di Bernardo Tanlongo, senza che il
prefetto di Roma o altra autorità avesse iniziato la pratica
e condotto la relativa istruttoria, sicché l'intera responsabilità
della nomina era sua) si sommavano nel presidente del Consiglio all'angoscia
che il crollo della Banca Romana potesse produrre, per una serie di
reazioni a catena, il collasso della lira e dell'economia.
Era necessario, dunque, correre ai ripari, definendo l'ipotesi di
riordinamento degli istituti di emissione, e di liquidazione della
Banca Romana, assumersi la responsabilità di dichiarare garantiti
dallo Stato i biglietti a corso legale, far leva sui tre Istituti
pronti alla fusione e sul sostegno del governo in un momento così
difficile, venendo loro incontro con concessioni sostanziali, in limiti
tuttavia accettabili dal parlamento. Furono predisposte due "convenzioni"
che vennero stipulate, la prima tra la Banca Nazionale nel Regno,
la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito per la fusione,
la seconda tra le prime tre e i rappresentanti della Banca Romana
per la liquidazione di quest'ultima. La firma fu apposta il 18 gennaio
1893. La nuova Banca d'Italia, da costituire con capitale di 300 milioni
di lire, di cui 210 versati, assumeva l'onere della liquidazione della
Banca Romana, tenendo un conto, separato, acquisendo le riserve metalliche
ed ogni altra attività della banca cessante e sobbarcandosi
il carico del suo passivo e quindi anche quello della circolazione
illegale, e pagando un rimborso di lire 450 per ogni azione del valore
nominale di lire 1.000. In compensazione, il governo avrebbe concesso
alla nuova Banca d'Italia il privilegio dell'emissione per venti anni,
la riduzione della tassa di circolazione dall'1,44 all'1 per cento
e il corso legale dei biglietti per un quinquennio.
Nei mesi successivi alla firma delle convenzioni il governo fu impegnato
nella messa a punto della riforma. Autorevoli studiosi, quali Corbino,
De Rosa e Vitale, hanno espresso la convinzione che il vero artefice
di essa fu personalmente Giolitti. E infatti, l'estrema delicatezza
di tutta l'operazione e l'enorme posta in gioco rendevano la presidenza
del Consiglio, a Palazzo Braschi, la sede naturale e suprema per i
contatti e la preparazione del progetto.
D'altro canto, anche dal punto di vista tecnico, Giolitti possedeva
una preparazione di "legista" assai distinta, per essere
stato addetto per cinque anni, dal gennaio 1862 al dicembre 1866,
al Gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia, che allora era la
vera ed unica fucina della legislazione, dalla quale uscirono, in
particolare, quei capolavori che furono i Codici del 1865. Inoltre,
figuravano nel suo curriculum la reggenza della direzione generale
delle Finanze, il periodo quinquennale di servizio quale segretario
generale della Corte dei Conti, sino alla nomina a Consigliere di
Stato, e il non breve noviziato nella giunta del bilancio della Camera,
nonché il periodo in cui aveva ricoperto l'ufficio di ministro
del Tesoro. Dunque, senza ombra di dubbio, Giolitti aveva un'eccellente
preparazione giuridica ed era in grado di valutare immediatamente
la portata e le conseguenze di una proposta di emendamento, di concepire
un disegno legislativo e di tradurlo materialmente sul piano normativo.
Fra l'altro, egli si era cimentato più volte nella sua vita
di funzionario nel lavoro di drafting, riducendo il numero sovrabbondante
di articoli di proposte di legge e nulla togliendo alla volontà
del legislatore.
Anche nel caso della legge che istituì la Banca d'Italia l'apporto
personale di Giolitti alla fase di progettazione legislativa fu decisivo.
Nelle carte dell'Archivio Giolitti sono conservati infatti un appunto
sui principiguida della riforma e una stesura del progetto, scritta
su carta intestata "Presidenza del Consiglio dei Ministri",
di sicuro pugno dello statista piemontese, e molto tormentata da ripensamenti,
precisazioni di soluzioni e formule, miglioramenti - documento che
dimostra che il presidente del Consiglio s'impegnò in prima
persona nella redazione del progetto di legge. E ciò spiega
anche l'assoluta padronanza della materia che Giolitti rivelò
nel corso del dibattito parlamentare.
D'altra parte, egli era "uomo segreto": impegnato in una
vicenda politica gravissima prima per il Paese e poi per sé
personalmente, egli non avrebbe mai acconsentito a che i contatti
riservati e conclusivi con i rappresentanti dell'alta banca passassero
per altri tramiti, senza un suo "filtraggio" iniziale che,
a mano a mano, depurasse tutti i potenziali pericoli e rendesse avvertita
"la controparte" che il governo parlava "con una sola
bocca", quella del presidente del Consiglio. Così parecchie
soluzioni e proposte nascevano e morivano, oppure venivano accolte
nell'ufficio di Giolitti, nella stanza che si trovava nell'angolo
tra la piazzetta Braschi e via di Passione, al piano nobile del palazzo
sede della presidenza del Consiglio dei ministri e sede anche del
ministero dell'Interno.
Il progetto di legge, che recepì sostanzialmente gli accordi
dei 18 gennaio, fu presentato alla Camera il 22 marzo dal ministro
d'Agricoltura, Industria e Commercio, Lacava, di concerto col ministro
del Tesoro, e ad interim delle Finanze, Grimaldi, col titolo: "Riordinamento
degli Istituti di emissione". Dopo l'approvazione della Camera,
il disegno di legge ricevette il consenso del senato del Regno l'8
agosto 1893.
Nel discorso di Dronero di due mesi dopo (18 ottobre) Giolitti disse
che la discussione del progetto di legge "fu una delle più
vivaci e appassionate che il Parlamento ricordi; ma ciò fu
un bene, perché crebbe importanza al fatto della definitiva
approvazione e diede autorità alla legge stessa, assicurando
che largo campo era stato allo svolgersi di tutte le opposte opinioni".
Il presidente del Consiglio così enumerava i vantaggi assicurati
dalla nuova legge: "La creazione di un potente Istituto nella
Banca d'Italia; la liquidazione della Banca Romana; l'assicurata esistenza
con una buona amministrazione dei Banchi di Napoli e di Sicilia; l'aumento
di capitale della Banca d'Italia di 34 milioni subito, di altri 90
milioni a mano a mano che occorrevano per la liquidazione del passato;
l'aumento della riserva metallica; la graduale riduzione di 233 milioni
nella circolazione della carta; la determinazione precisa delle operazioni
consentite; l'obbligo di liquidare in tempo determinato le operazioni
di diversa natura; il ritiro dei biglietti attuali e la loro sostituzione
con biglietti da fabbricarsi con il concorso dello Stato; la riduzione
di un terzo circa della tassa di circolazione che faciliterà
le riduzioni di sconto; la determinazione rigida delle responsabilità
degli amministratori; sanzioni severe contro ogni violazione di legge;
l'esclusione di qualsiasi ingerenza parlamentare; una vigilanza molto
più efficace".
Debiti &
usura
I cravattari
L'immagine e quella
di uno che si impicca con una corda (o "cravatta") fatta
di biglietti da centomila. E si dice che, come la prostituzione, quello
dell'usuraio è il mestiere più antico del mondo. Esisteva
nel mondo mediorientale e in quello greco. E i Romani combattevano
l'usura fissando un tasso massimo, oltre il quale i trasgressori pagavano
una multa. Questo criterio venne introdotto nel 357 avanti Cristo
con la legge Duilia Menenia, con effetti disastrosi sulla popolazione.
L'usuraio veniva condannato a pagare, ma si rifaceva subito sui clienti.
Le multe furono così numerose, che con il ricavato il Senato
innalzò alcuni monumenti al Foro Romano, tra cui l'edicola
bronzea della Concordia e le figure di Romolo e Remo allattati dalla
lupa.
Nell'89 avanti Cristo si tentò anche di escludere dal Senato
tutti i membri indebitati per cifre superiori ai duemila denari. Promotore
del provvedimento fu Sempronio Asellione, che per questo venne immediatamente
linciato.
Il problema, dunque, è sempre esistito, ed è soprattutto
di ordine culturale e sociale. La vittima dell'usura, cointeressata
per non perdere quella che ritiene l'ultima spiaggia, raramente svela
gli autori del reato. Così l'usura cresce, e oggi è
terreno propizio per le attività dei clan malavitosi. Allo
stato attuale, infatti, secondo l'Adiconsum, associazione di difesa
dei consumatori, sarebbero quattro milioni le persone che ogni anno,
in mancanza di alternative, finiscono in pugno ai cravattari. Il Censis,
secondo stime recenti, parla di un giro di affari intorno ai 650 miliardi
all'anno, con tassi d'interesse praticati dal 100 al 500 per cento.
Come sconfiggere questo male endemico? In primo luogo, è necessario
stabilire parametri entro i quali si configuri il reato. Il Codice,
che è del 1930, ha le sue colpe. L'articolo 644 prevede l'usura,
ma il delitto si consuma soltanto se si riesce a dimostrare che l'usuraio
ha approfittato dello "stato di necessità" della
vittima: circostanza pressoché indimostrabile in sede processuale.
Anche la pena èinadeguata: da 200 mila a quattro milioni di
lire.
In secondo luogo, occorrerebbe definire per legge quello che è
un tasso d'interesse massimo. Lo ha fatto la Svizzera, fissando il
toprate al 17 per cento; lo hanno fatto anche la Francia, il Belgio
e la Germania; e prima ancora lo avevano fatto i Romani, che con la
Legge di Licinio Sesto (376-367 avanti Cristo) avevano bloccato quel
tasso al 12 per cento.
Spesso, nell'attività dei cravattari, si configura anche il
reato di riciclaggio, collegato a capitali provenienti da estorsioni
e da traffici illeciti. Il paesaggio, allora, è una palude
melmosa e in buona parte inesplorata, vasta, letale. Con isole di
sabbie mobili che ogni anno ingoiano migliaia dì vittime, costrette
a cedere i propri esercizi commerciali o industriali ai vampiri che
manovrano il volano dello strozzinaggio a livelli ormai insopportabili
per una società civile avanzata, come dice di essere la nostra.
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