§ Rivisitando la storia

I cleptocrati




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Manlio Airoldi, Ruggero Franci, Gianna Varasi, Veronica Grazia



Nell'antica Grecia la scelta dei candidati alle cariche pubbliche era fatta con oculatezza: venivano sottoposti a un severo esame di idoneità (docimasìa). Peraltro, gli aspiranti non dovevano essere molti, trattenuti dal timore di non essere all'altezza. Isocrate, esaltando le caratteristiche della costituzione soloniano-clistenica, notava: "A tal punto si astenevano dall'aspirare alle cariche pubbliche che era più difficile a quei tempi trovare coloro i quali volevano esercitarle, che ora chi le rifiuta".
La politica non era un'occasione per la speculazione privata, ma un servizio sociale. Appena occupata la carica, i "magistrati" non cercavano se i predecessori avessero lasciato qualche occasione di guadagno, ma se avessero trascurato qualche impegno che urgeva portare a termine. La vita pubblica era un servizio, una "liturgia". Il valore semantico di sacralità, assunto in seguito dal termine, ha la giustificazione storica nell'altissima considerazione in cui era tenuto allora il servizio politico.
Platone, che abitualmente chiama i governanti "guardiani della legge", li definisce suoi "servitori" nell'opera dedicata a chiarirne il ruolo, intitolata appunto La legge. Si comportavano onestamente e la soddisfazione della lode era la più alta ricompensa. Se avevano amministrato male, senza pretendere perdono, si sottoponevano a pene gravissime (Aeropagitico). Il sistema di controllo, d'altro canto, era rigoroso. Allo scadere del mandato, gli amministratori dovevano presentare entro trenta giorni il rendiconto sul movimento del denaro ai "logisti". Se tutto risultava regolare, il tribunale rilasciava quietanza liberatoria. Ma questa non chiudeva la partita, perché nei tre giorni seguenti era consentito ad ogni cittadino di presentare un'accusa ai dieci "correttori" (euthynoi); se le accuse risultavano fondate, il processo era affidato ai giudici popolari, se private, ed ai tesmoteti, se pubbliche. La legge non solo era severa, ma anche diffidente nei confronti degli imputati, e preveniva ogni possibile scappatoia dei soggetti a rendiconto. Proibiva loro di allontanarsi dalla città, di consacrare agli dei il proprio patrimonio, di fare offerte votive, di farsi adottare, di disporre con testamento dei propri beni.
Non dovevano essere pochi gli espedienti escogitati per salvare la refurtiva, ma la legge prendeva in pegno le sostanze degli amministratori soggetti a rendiconto finché non fossero sottoposti a giudizio e dichiarati immuni da colpa. Anzi il legislatore, con un eccesso di severità, imponeva il rendiconto anche a chi non aveva preso né speso nulla delle finanze dello Stato e si era soltanto occupato di qualche affare pubblico.
I casi di corruzione attiva e passiva non dovevano essere pochi se la legge era così specificamente repressiva. La politica è la più vulnerabile delle attività umane, sempre esposta ad occasioni di corruzione. Lo aveva capito Socrate, che non si ritenne capace di praticarla; lo sperimentò Platone, il quale, avendovi aderito da giovane, sedotto dalla speranza di vedere la città "condotta da un modo di vivere ingiusto a un sistema giusto", si ritirò disgustato quando si accorse che i Trenta con il loro comportamento "facevano apparire oro il governo precedente". Già Esiodo parlava di magistrati dorofagi (mangiatori di doni) ed Eschine accenna ad amministratori disposti ad accettare doni. E si sa che chi accetta un dono perde la libertà; stavamo per dire l'onestà, con un passaggio forse troppo audace, ma non impossibile.
Il rimedio per chi sbagliava? Saldare il conto con la giustizia. E' sempre la Grecia ad insegnarcelo, per bocca di Platone: dopo l'essere giusto, vi è un secondo modo per divenirlo: sottoporsi alla pena per essere reintegrato nella giustizia. Magari autodenunciandosi, senza aspettare di essere convocato. L'invito dovrebbe accoglierlo soprattutto chi ha sbagliato, facendo politica al solo fine di arricchirsi, e dunque macchiandosi di tradimento sociale.
Eppure, malgrado tutto questo, si rubava. Rubava Pericle: l'inventore della democrazia ateniese non disdegnava le "bustarelle". Diceva: più ruote si ungono, più porte si aprono. Demostene era un cleptocrate al soldo del re di Persia. Licurgo pretendeva tangenti in cambio di favori politici. Alessandro il Grande, re di Numidia, inondava di "fondi neri" il Senato romano. E nell'Urbe rubavano Giulio Cesare e Ottaviano Augusto, Bruto e Pompeo. Ma disonesto era anche un signore con un nome al di sopra di ogni sospetto: Catone il Censore. E più di un sussurro maligno riguardò anche il comportamento dei fratelli Gracchi, i grandi moralizzatori del mondo romano. Contro Verre si scagliò con una durissima requisitoria Cicerone: il senatore, rapace e insaziabile, fu accusato nel 70 avanti Cristo di peculato, di nepotismo e di molestie sessuali. Ghiotti cultori delle "rnazzette" saranno poi altri personaggi, sparsi in tutto l'Impero.
D'altra parte, Filippo il Macedone si vantava di poter conquistare qualsiasi città, in cui fosse riuscito a introdurre un asino carico d'oro. Giugurta pensava che Roma fosse eternamente pronta a vendersi: bastava trovare il compratore. La cleptocrazia nell'Urbe era enormemente superiore a quella attuale. Per le elezioni si spendevano cifre immense. Il voto di scambio era una notissima norma. E' però un luogo comune che nel periodo imperiale la corruzione fosse maggiore che in quello repubblicano. E' vero il contrario. Nel 123 avanti Cristo lo stesso Caio Gracco denunciò pubblicamente che tutti i senatori per prendere delle decisioni incassavano bustarelle.
Ma non si trattava solo di corruzione al centro. La periferia non scherzava. I governatori delle province, infatti, come cleptomani erano in pole position. Accumulavano debiti maestosi per le campagne elettorali, e una volta eletti si rifacevano rubando ai cittadini. Bruto, che fu fatto passare per un eroe e un campione di virtù, prestò denaro a una città dell'isola di Cipro. Ma al 48 per cento, mentre il massimo legalmente consentito era il 12 per cento. Per ottenere simili condizioni di strozzinaggio, si fece fare un'apposita "leggina" da suo zio, Catone. Poiché i ciprioti non volevano pagare, i romani cinsero d'assedio quella colpevole cittadina.
C'erano eccezioni. L'imperatore Vespasiano fu immune da vizi pecuniari. Onesto fino all'inverosimile. Anche Cicerone rappresentò un'eccezione. Non rubava, ma certamente non era morto di fame. in un anno di governatorato della Cilicia guadagnò l'equivalente odierno di due miliardi di lire. Una carica come la sua mediamente fruttava, a chi si sapeva muovere con abilità e con disinvoltura, anche fino a cento miliardi. Ma bisogna tener conto di un fatto: Cicerone non era un militare, e all'epoca le guerre, a dispetto delle vittime che procuravano, spesso somigliavano a redditizie scampagnate.
Dalla conquista della Gallia, Cesare ricavò un tesoro: circa duemila miliardi attuali. Almeno un migliaio nè portò a casa Pompeo dalle sue varie campagne. Un importante cespite di guadagno era la vendita di prigionieri e di schiavi. Poi, com'è ovvio, c'erano le tangenti sulle opere pubbliche. Il caso Verre, appunto, fu clamoroso: per far vincere una gara d'appalto a un suo dipendente, o socio, o amico, il senatore aveva respinto offerte molto più a buon mercato, che però non gli consentivano di farci su una buona cresta.
Le guerre puniche furono un mercato truffaldino e rappresentarono l'inizio di una lunga epoca di profitti sulle forniture militari. Nel 217 avanti Cristo una compagnia di pubblicani, cioè di imprenditori, acquistò una flottiglia di navi scassate e le fece colare a picco, esigendo dallo Stato il pagamento dell'assicurazione. La truffa venne scoperta, ma - racconta Tito Livio - il popolo difese i corrotti, nel timore che si perdessero i posti di lavoro.
Cleptocrati eccellenti si ebbero anche tra i funzionari delle corti medioevali. Intanto, restano memorabili alcune requisitorie, come quelle di Giuseppe Flavio, Appiano, Diodoro. Flavio se la prendeva con i governatori della Giudea. Però, quando i notabili venivano colti con le mani nel sacco, le condanne a loro carico si risolvevano spesso nel nulla. I colpevoli finivano in esili dorati, a godersi il bottino. D'altro canto, su un tema specifico, quale i finanziamenti illeciti per le elezioni, le leggi rimasero sempre volutamente ambigue.
Più tardi Sant'Agostino, Wycliffe, Dante, non faranno che redarguire, indignati, le sanguisughe da sottogoverno. Ai primi dei Cinquecento, poi, anche gli avidi galoppini e "clientes" di papa Giulio II troveranno un celebre censore. Michelangelo li ammonisce con queste parole, in una lettera emersa di recente dagli archivi vaticani: "Non accettate mance e presenti, neppure se vengono dal cielo. Corrompono la giustizia".
Firenze, 1527. Finisce sotto accusa nientemeno che Francesco Guicciardini. Lo storico e statista viene indicato come "rubatore de' denari pubblici", saccheggiatore delle casse dell'esercito "uomo che ha esosa la vita privata". Sorse allora l'interrogativo: politica è uguale a ruberia continua? E in seguito: democrazia è uguale a cleptocrazia? Il furto fa parte del codice genetico dei regimi sia oligarchici sia democratici? Non avevano dubbi i teorici delle élites, fra Otto e Novecento: da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, da Max Weber a Edward Mayer: tutti i governi rubano, ma quelli parlamentari rubano di più: "La democrazia", sosteneva Mosca, "moltiplica la corruzione". Osserva Lucio Colletti: in queste idee c'è un fondo di verità e di buonsenso. Nei regimi autoritari, la cerchia dei detentori del potere è ristretta. Le decisioni le prendono in pochi, e dunque pochi hanno la possibilità di manomettere le sostanze pubbliche. Nei regimi parlamentari, anche se esistono alcune forme di controllo, la corruzione tende ad essere democraticamente diffusa.
In fondo, è stata questa la specialità italiana dagli anni Cinquanta ad oggi. E per questo abbiamo un posto di rilievo negli annali delle repubbliche più inquinate. Siamo, peraltro, in buona compagnia. Finora, infatti, gli studiosi se l'erano presa soprattutto con l'antica Atene, e poi, nell'ordine, con la Seconda e con la Terza Repubblica francesi. La graduatoria ci vede inclusi. In cima continua ovviamente ad essere Atene. La madre di tutte le democrazie fu simultaneamente anche la prima cleptocrazia? L'oratore Lisia, nel IV secolo avanti Cristo, ammetteva: "Ci sono senza dubbio uomini che spendono soldi per ricavarne il doppio dalle cariche che occupano". Il suo collega Iperide rincarava la dose: "Si sa che i politici rubano. Dovrebbero soltanto non rubare troppo".
Nel 324 avanti Cristo, il tesoriere di Alessandro Magno prese il largo con la cassa. Arpalo - così si chiamava - chiese asilo ad Atene e depositò sull'Acropoli il denaro macedone. Quando il forziere venne aperto, si scoprì che conteneva la metà delle sostanze iniziali. Con l'altra metà, Arpalo si era comprato i politici ateniesi.
Anche Demostene ebbe la sua parte: venti talenti. Era una cifra enorme. Corrispondeva al quadruplo del tributo fiscale di un'intera città di allora. Si può dire comunque che Demostene rubò per il partito, o almeno per la ragion di Stato: vale a dire, per finanziare la guerra alla Macedonia.
E la gente che pensava? I concittadini di Pericle erano convinti che si dovesse trarre un guadagno dall'attività politica. Pochi avevano qualcosa da obiettare. Lo scandalo esplodeva piuttosto quando i denari, raccolti a fine politico, venivano direttamente intascati.
Dall'Acropoli alla Senna. Dall'Atene classica alla Parigi moderna. Che in Francia repubblica e ruberia siano quasi sinonimi è persino un luogo comune acclarato molto prima degli ultimi scandali mitterandiani. Se Maximilien Robespierre si meritò il nomignolo un poco astioso di Incorruttibile, fu perché questa sua qualità rappresentava un'eccezione nel mondo della Rivoluzione francese. Il suo grande antagonista, Georges-Jacques Danton, non riuscì mai a spiegare come avesse impiegato le risorse finanziarie segrete (i "fondi neri" dell'epoca) del ministero della Giustizia. Dopo il Consolato, nel 1799, si poté dire che Napoleone aveva trapiantato nel nuovo sistema le peggiori consuetudini economicofinanziarie dell'Ancien Régime.
In seguito, quelle tradizioni si dimostrarono quasi inestirpabili. Quello del principe di Talleyrand fu un caso celebre. Per farsi fissare un'udienza da lui, ministro degli Esteri, era necessario versargli un compenso. E nel 1805, dopo la firma della pace di Presburg, Talleyrand, per aver ridotto di dieci milioni di franchi l'indennità di guerra dovuta all'Austria, incassò una congrua percentuale sull'ammontare dello sconto. Quella volta Napoleone gli diede del ladro.
Passiamo un quarto di secolo oltre. Quello di Luigi Filippo, a partire dal 1830, non si potrebbe semplicisticamente definire un regime autoritario. A dimostrarne il carattere democratico basta la sua disinvoltura di cassa. Nel 1832, Prosper Mérimée confidò al suo collega Stendhal che gli era stata offerta la carica di capo di Gabinetto di Adolphe Thiers, con diecimila franchi, alloggio, carrozza... Aveva rifiutato, confessò, perché "disgustato dalla cattiva nomea di quella bottega".
Lo stesso Luigi Filippo, più noto come Philippe Egalité, diceva del suo primo ministro: "Il signor Guizot è personalmente incorruttibile. Ma governa attraverso la corruzione. Mi fa l'effetto di una donna onesta che amministri un bordello".
Ma il più proverbiale degli affaires si consumò fra il 1877 e il 1899. Mentre in Italia venivano in superficie gli scandali post-risorgimentali, culminati negli imbrogli della Banca Romana, in Francia vigeva la cosiddetta "Repubblica opportunista". Un altro nomignolo della Terza Repubblica fu la "democrazia degli avvocati". Spesso, i deputati e i giornalisti più influenti agivano sulla base di bustarelle piovute dall'estero. Alla vigilia della Grande Guerra, lo zar Nicola Il inondò di mazzette redazioni e aule parlamentari.
Ne nacquero scandali clamorosi, ma ben pochi processi.
Insomma, dai creatori della democrazia ellenica agli avvocati post-giacobini dell'Ottocento, fino ai nostri portaborse contemporanei, la tangentocrazia storica sembra librarsi - per paradosso - in un eterno presente. Non a caso è stato scritto: i regimi totalitari e assolutistici hanno conosciuto fasi di corruzione sfrenata. Ma si è nel vero se si dice che la democrazia rappresentativa ha un rapporto speciale con la corruzione. Che dipenderà forse molto dai regimi, ma certamente molto di più dall'educazione culturale e civile degli uomini.

I cleptocrati

Rapinatori a mano disarmata

L'Italia che emerse dal Risorgimento fu un fiore di virtù? Proprio per niente, rispondevano borbonici e papisti, Nel 1872 fu pubblicato, anonimo, un volume dal titolo emblematico: Storia dei ladri nel Regno d'Italia da Torino a Roma. Autore fu, forse, un chierico o un vecchio cortigiano della Santa Sede, che non ne poteva più di vedere gli statisti cavouriani, da Urbano Rattazzi a Marco Minghetti, che consentivano furti a piene mani, e tutti furti "politici". Anche perché il Risorgimento, fin dalle origini, aveva esaltato con somma retorica il civile impegno delle "mani pulite". Aveva cantato Vittorio Alfieri: "Rubino i ladri, è il loro dovere. Il mio è di schernirli, al boia d'impiccarli".
Ma sarebbe stato necessario uno sterminio per ripulire il nuovo mercato della politica. Secondo l'anonimo autore, infatti, dati statistici alla mano, il Piemonte aveva il primato assoluto "nella parte tecnica e pratica dei furti". E aggiungeva: "Si rubava certo in tutta Italia, in Roma e in Napoli, in Firenze e in Bologna; ma così liberamente, dottamente, italianissimamente come a' pié delle Alpi non si rubava in nessuna contrada". Conclusione: "I ladri, per segnalarsi sotto il Regno d'Italia, trovarono un solo ostacolo: i ladroni subalpini avevano già tanto rubato". E in questo mestiere, evidentemente, dovevano essere imbattibili. Al punto che per il piemontese Giovanni Lanza, presidente del Consiglio ai tempi di Porta Pia, venne composto uno specifico epitaffio funebre:
"Qui Giovanni Lanza giace / che rubando Roma al Papa /gli altri ladri lasciò in pace".
Nel 1869 era scoppiato il caso del monopolio tabacchi. Agli imbrogli connessi con questo appalto pubblico parteciparono parlamentari, finanzieri e persino qualche ex frate diventato faccendiere. Uno ci rimise le costole. In un vicolo di Firenze, allora capitale, venne accoltellato il deputato Cristiano Lobbia, che si batteva per moralizzare la vita pubblica. Erano gli anni in cui Francesco De Sanctis accusava parecchi parlamentati che "di fronte alle ruberie guardano con un certo sorriso caratteristico quelli che ne sono scandalizzati. Come se volessero dire: 'Poveri di spirito, non conoscono il mondo!'". Alla fine del secolo venne riesumata per Umberto I la poesia "Il re travicello", che Giusti aveva scritto anni prima: "Li bada a mangiare e lascia rubare". Si alludeva, fra l'altro, alle maxitruffe negli appalti ferroviari, che avevano assunto dimensioni gigantesche sotto il Gabinetto Crispi.
Gli annali della cleptodemocrazia - prima e durante i dicasteri di Giovanni Giolitti, definito da Salvemini "ministro della malavita" - sono fittissimi. 1883: un branco di pescecani si precipita sull'appalto per costruire il palazzo di giustizia, il celebre e orrendo "Palazzaccio", a Roma. Fa parte di questo gruppo quel Bernardo Tanlongo che, nel 1892, sarà al centro del famoso e intricato scandalo della Banca Romana, 1903: l'affare delle navi corazzate. Il ministro della Marina, Giovanni Bettòlo, viene accusato di loschi traffici con le acciaierie di Terni per il potenziamento della flotta militare. L'anno successivo, lo scandalo Nasi. L'ex ministro Nunzio Nasi aveva distribuito ai suoi elettoti trapanesi un milione e 700 mila lire, destinate al bilancio della Pubblica Istruzione. Fu condannato, ma i trapanesi continuarono ad eleggerlo fino al 1928.
Durante il periodo fascista le cose cambiarono poco. Il regime aveva esordito nel 1923 con lo scandalo dello zucchero e con quello delle ferrovie siciliane. E' del 1929 il caso di Ernesto Belloni, il podestà di Milano che aveva praticato sistemi predatori. Ma l'accusatore di Belloni, Roberto Farinacci, dovette render conto a Benito Mussolini di molti pettegolezzi. "Duce" gli disse, "è vero che nel '22 ero un pezzente e ora viaggio in automobile. Ma mi è stata regalata dai ferrovieri della mia città". E Mussolini ribatté: "L'apologia del pezzentismo mi è odiosa quanto l'esibizionismo pescecanesco". Ma il peggio doveva ancora venire. Culminò nella vicenda dell'oro di Dongo, trafugato dai partigiani che catturarono Mussolini e finito nelle casse dei comunisti.

I cleptocrati

Lo scandalo della Marina

Verso la fine del 1904, la Camera approvò la legge per un'inchiesta governativa sulla Marina. In base a questa legge, fu nominata una Commissione, della quale fecero parte l'onorevole Girolamo Giusso, nella qualità di Presidente, l'onorevole Leopoldo Franchetti, relatore, il socialista Quirino Nofri, il magistrato Oronzo Quarta, il generale Baldissera, ecc. Dopo due anni di lavoro, la Commissione pubblicò la relazione in cinque volumi. Nell'introduzione si affermava: "La Commissione, per necessità e per proposito, si è attenuta ai fatti e non si è occupata di persone".
Pur non essendo stata affrontata l'ardua questione delle responsabilità individuali, le conclusioni dell'inchiesta furono eccezionalmente gravi, specie a proposito dei rapporti che corsero tra il ministero della Marina e la Società Terni. In tutti i contratti stipulati con questa società per l'acquisto delle corazze, dal 1884 in poi, lo Stato aveva pagato prezzi eccessivamente alti. "Questa prodiga generosità -diceva la relazione - è stata così temeraria, così cieca da trascurare ogni precauzione diretta a proteggere il denaro pubblico [ ... ]. Per favorire le Terni, l'Amministrazione della Marina ha ecceduto le spese per corazze, superando sensibilmente la cifra, di nove milioni". E, quel ch'è peggio, indipendente dai prezzi abnormi, la qualità delle corazze era molto scadente. Su per giù, le stesse accuse erano ripetute per i proiettili della Terni e per i cannoni costruiti dalla Casa Armstrong.
I risultati di questa inchiesta produssero reazioni dolorose in tutto il Paese. li 28 giugno 1906 iniziò alla Camera il dibattito. L'opera della Commissione fu accusata di incompetenza e di leggerezza da alcuni deputati, ma fu strenuamente difesa non solo da Giusso e Franchetti, bensì anche dai deputati Albasini, Bissolati, Comandini, Lacava, Prinetti e Nitti. Bissolati mise in rilievo le colpe dello Stato, che con le sue anticipazioni e i sovrapprezzi aveva creato e fatto sviluppare la Società Terni: "Qui non siamo davanti a un caso di protezionismo, perché il protezionismo consiste nel creare condizioni favorevoli a colui che rischia i propri capitali, e la Terni rischiava i capitali dello Stato. Qui non siano neppure in materia di socialismo di Stato, poiché per il socialismo di Stato i profitti dovrebbero ritornare allo Stato, e qui i profitti sono andati nelle tasche dei signori azionisti. Qui siamo di fronte semplicemente a questo fatto, che lo Stato fu puramente e semplicemente consegnato alla speculazione privata, perché essa ne facesse bottino".
All'inchiesta sulla Marina seguì quella sull'Esercito. Il 16 marzo 1907 la Camera approvò un disegno di legge per la nomina di una Commissione incaricata di indagare su tutto ciò che riguardava l'organizzazione e l'amministrazione dei servizi dipendenti dal ministero della Guerra. Nello stesso 1907 il Parlamento votò un'altra importante indagine conoscitiva, sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e in Sicilia.

Banca Romana / 1

La madre di tutti gli scandali

Nel giugno 1889, sotto il secondo ministero Crispi, il ministro dell'agricoltura Miceli, cui allora spettava il compito di vigilanza degli Istituti di emissione, incaricò il sen. Alvisi e il comm. Monzilli di ispezionare la Banca Romana. Fu accertato che in questo Istituto esistevano gravi irregolarità e un "vuoto" di 9 milioni. Il Governatore della Banca, comm. Tanlongo, interrogato dal ministro, affermò che il vuoto non esisteva e che egli e i suoi collaboratori avevano l'abitudine di trattare le cose bancarie "patriarcalmente", ossia senza le "rigorose cautele" usate in altri istituti. Gli indagatori, tornati alla Banca poco dopo, con grande sorpresa constatarono che la cassa era stata integrata. Era accaduto che Tanlongo, per indurre il ministro a prestar fede alla sua parola, era riuscito da un giorno all'altro a procurarsi dalla Banca Nazionale la somma di 10 milioni. Ma da tempo circolavano voci allarmate sulla "grave situazione" della Banca Romana e di altri istituti di emissione. Nella seduta del 30 giugno 1891, sotto il primo dicastero Di Rudinì, l'on. Alvisi dichiarò in Senato di voler rivelare i risultati dell'ispezione bancaria, da lui eseguita due anni prima. Ma i ministri del Tesoro, Luzzatti, e dell'agricoltura, Chimirri, glielo impedirono in nome "del credito pubblico e dei supremi interessi del paese e della patria".
Ci furono grandi manovre per evitare lo scandalo. Ma i risultati dell'ispezione alla Banca Romana costituivano solo in parte un mistero. Il sen. Alvisi, infatti, prima di morire, aveva consegnato a Leone Wollenborg una copia della relazione dell'ispezione eseguita. E il prof. Maffeo Pantaleoni, conosciuto anche lui il contenuto, pregò l'on. Napoleone Colajanni "di portare la cosa alla tribuna parlamentare".
Immediatamente la stampa italiana ed estera informarono che un deputato "radicale" avrebbe suscitato alla Camera uno "scandalo". Il 19 dicembre 1892 l'on. Giolitti, anche per prevenire la proposta di un'inchiesta parlamentare, presentò un nuovo disegno di legge che prorogava la facoltà di emettere biglietti di banca solo fino a tutto il marzo 1893, comunicando nel contempo di aver stabilito di far eseguire dal sen. Finali un'ispezione amministrativa in tutti gli istituti di emissione.
All'indomani, Napoleone Colajanni, incoraggiato da Bovio, da Di Rudinì e da Pantano, fece alla Camera, ov'erano presenti oltre 400 deputati, il discorso con le celebri rivelazioni: "Il torto principale della Banca Romana sta nella 'Cassa a mano' a disposizione del cassiere, mentre la cassa di riserva è a tre chiavi. Orbene, l'ispezione constatò in libera custodia del cassiere la ingente somma di 49 milioni di lire in numerario e valori diversi, di cui 7 milioni circa appartenenti alla 'riserva', che non dovevano trovarsi in quella cassa. E' constatato inoltre che da cinque anni non era stato fatto il riscontro mensile della cassa,. prescritto dagli statuti. Mancava inoltre 'un'obbligazione personale di garanzia' che figurava nei conti ivi depositati per l'ammontare di 4 milioni, appartenente detta obbligazione al Presidente del consiglio di censura, don Giulio Torlonia. Quel ch'è grave ancora, nella verifica di cassa, a formare la massa di 44 milioni, propri della Banca, trovati in cassa, erano concorsi 9 milioni di lire creati indebitamente, ossia in eccedenza della emissione risultante dai verbali di creazione. Questi biglietti avevano le caratteristiche della regolare emissione, essendo forniti, come di consueto a stampiglia, delle firme del cassiere e del censore. Venne constatato che i timbri per la stampiglia delle firme erano conservati dal governatore in una cassa speciale, di cui egli solo teneva le chiavi, e che la carta per i biglietti di scorta e per le future emissioni non era custodita entro la cassa forte della riserva, di cui deve tenere una terza chiave il Presidente del consiglio di censura, ma invece in armadi in una camera custodita dal cassiere".
"Infine, riscontrata anche la cassa per i biglietti esistenti come scorta in magazzino, vi si trovò una mancanza sul taglio di L. 50, per l'ammontare di L. 50.000. Nelle situazioni pubblicate dalla Banca Romana, questa esponeva fra circolazione e cassa cifre non vere. Risultò dalla verifica che con tal metodo essa, il 30 giugno 1889, mascherava una eccedenza abusiva di 25 milioni di circolazione cartacea in più di quanto aveva il diritto di mettere in giro [ ... ]. Il 'portafoglio di piazza', che assorbe i nove decimi dell'intero, era costituito in massima parte di effetti di comodo, rinnovati, scadenza per scadenza, quasi integralmente; ed alcuni di questi effetti accusavano scadenza anche a più anni. Mancavano le deliberazioni della commissione di sconto, conservandosi soltanto biglietti volanti, firmati da un sol membro della commissione e perciò suscettibili di successive modificazioni".
Proseguì il relatore: "E veniamo ora alla clientela della Banca - non accenno alle persone -. A dimostrare in qual modo sono distribuiti i denari della Banca nel mondo commerciale basteranno pochi dati riassuntivi. Cito cifre tonde per rendere meno lunghi questi accenni. Sopra 1.686 clienti, ai quali furono distribuiti, nell'epoca alla quale si riferisce l'ispezione, 83 milioni di lire, figurano 179 persone, che ne ebbero 73 milioni, e fra queste soltanto 19 ne ebbero per 33 milioni e mezzo; agli altri 1.507 clienti - poveri paria del commercio - vennero offerti i bricioli della mensa, cioè appena 10 milioni e mezzo [ ... ]. Circa 12 milioni di conti correnti attivi, prelevati sul fondo depositi fruttiferi, e perciò destinati ad investimenti brevi, perché soggetti a pronti eventuali rimborsi, erano aperti invece per la massima parte a lunga scadenza. Mascherando abilmente la cosa nella situazione contabile. Fra i correntisti debitori, vi figura lo stesso Governatore della Banca per un milione e 169 mila lire che riversò in cassa alla vigilia della verifica".
Colajanni concluse il suo discorso proponendo un'inchiesta parlamentare. Subito dopo, anche il deputato di Destra ori. Gavazzi, al quale era stato comunicato il contenuto della relazione Alvisi dal prof. Mazzola, prese parola per dire: "Presso la Banca Romana è imperfetta la contabilità, è anormale la creazione dei biglietti, è eccessiva ed in parte simulata la loro circolazione, e confusa la sistemazione della cassa generale, e mal custodita la massa dei biglietti spendibili e dei riservati alle innovazioni e di quelli pronti per ulteriori illegittime e illegali emissioni".
L'on. Gavazzi giunse alla stessa conclusione del precedente oratore: l'inchiesta parlamentare. L'on. Miceli fece brevemente la storia dell'ispezione eseguita nella Banca Romana e accennò ai chiarimenti datigli dal Governatore Tanlongo: "Io, o signori - continuò a dire l'ex ministro dell'Agricoltura - constatate le irregolarità, non indugiai a disporre perché si emendassero; ma non mi restò punto nell'animo il sospetto che fossero accadute cose indegne, cose che potessero essere ritenute criminose [ ... ]. Concludo dichiarando che tutte le voci raccolte nelle piazze e nei trivii [ ... ] non hanno base nella realtà".
L'on. Baccelli deplorò che fosse stato fatto segno a "sospetti ed insinuazioni ed accuse" il comm. Tanlongo, che era "uomo operoso, benefico e pieno di onore". L'on. Crispi si oppose all'inchiesta parlamentare soprattutto per non aggravare all'estero la situazione del nostro credito. L'on. Giolitti, dopo aver dichiarato "di non aver neppure letta la relazione Alvisi", e che gli avversari miravano a "trasportare in Italia la corrente di diffamazione cominciata altrove" (e alludeva agli scandali in Francia per il taglio dell'istmo di Panama), invitò la Camera a respingere l'inchiesta parlamentare.
Promise però che il governo, "nell'interesse della verità e del credito", avrebbe fatto un'ispezione esatta, completa, il cui risultato sarebbe stato comunicato poi al Parlamento: "Se non ci credete capaci di far eseguire un'inchiesta, se non ci credete tanto onesti da dire la verità, avete il dovere di mandarci via. Io prego la Camera di risolvere immediatamente questa situazione. E' una questione di fiducia o di sfiducia. Di qui non si può uscire. lo dichiaro che non resterò un istante a questo posto, se la Camera non vota la legge, respingendo qualunque proposta d'inchiesta parlamentare".
Colajanni chiese nuovamente la parola, soprattutto per dire che c'era un modo molto semplice per dimostrare ch'egli era un calunniatore: pubblicare l'inchiesta. Ma la Camera, che nella sua grande maggioranza aveva già applaudito le dichiarazioni del presidente dei ministri, approvò con 316 voti contro 27 il disegno di legge per la proroga di tre mesi della facoltà di emissione dei biglietti di Banca. E tuttavia nessuno poteva più fermare lo scandalo.
Le rivelazioni di Colajanni ebbero un'enorme ripercussione in quasi tutta la stampa d'Europa. Quella italiana si divise in due correnti: l'una favorevole alla Banca Romana, l'altra contraria. Quella contraria era rappresentata dal Corriere della Sera, dal Secolo, dal Roma, dal Corriere di Napoli e dal Fanfulla; quella favorevole, invece, dalla Gazzetta Piemontese, dalla Sera di Milano e soprattutto dal Popolo Romano diretto dal potentissimo Costanzo Chauvet, contro il quale Felice Cavallotti scatenò una terribile campagna morale. Alludendo appunto a Chauvet, Cavallotti così si espresse alla Camera, nella seduta del 24 giugno 1893: "Abbiamo bisogno di sapere se vi sia in Roma, nella più lurida delle fucine della stampa sua, qualcheduno che, giocando di audacia, ostenti il diritto di usurpare le più delicate funzioni che spettano agli uomini del Governo e di cui essi soli hanno la responsabilità; il diritto di metter le mani nelle più delicate cose che interessano il credito del paese, perfino nelle faccende elettorali; e se abbia il diritto costui, che versa a piene mani il vituperio sopra i deputati che esercitano qui il loro dovere, di farsi bello, ingiuriandoli, di amicizie di uomini di governo, del rispetto e della stima di tutti i galantuomini a cui si attaccò, come la zacchera di fango può vantarsi della scarpa del galantuomo cui si è posata".
Con decreto reale del 30 dicembre 1892, fu istituita una Commissione di sei membri, con l'incarico di eseguire un'ispezione straordinaria sugli Istituti di Emissione per accertare: la creazione, l'emissione e il ritiro dei biglietti; la quantità dei biglietti in circolazione e di quelli di scorta; la consistenza delle riserve metalliche, lo stato dei portafogli; l'entità e la natura degli impieghi diretti, delle sofferenze, delle immobilizzazioni e di qualunque altra operazione; e tutte le altre circostanze di fatto capaci di stabilire la condizione di ciascun Istituto.
La Commissione fu presieduta dal seri. Gaspare Finali, primo presidente della Corte dei Conti. Questi assegnò a Enrico Martuscelli, segretario generale della stessa Corte, l'ispezione della Banca Romana; a Giacomo Orsini, ragioniere generale dello Stato, quella della Banca Nazionale; a Giacomo Regaldi, direttore Generale del Demanio, quella del Banco di Napoli; a Gioacchino Busca, intendente di finanza a Torino, quella del Banco di Sicilia; a Gaetano Durandi, ispettore generale del ministero del Tesoro, quelle della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito.
Martuscelli portò a termine la sua ispezione con una sollecitudine davvero impressionante. Fin dai primi giorni egli constatò gravissime irregolarità nella Banca Romana. Il 15 gennaio 1893 il presidente del Consiglio, adottando un metodo ben strano, fece comunicare al Governatore della Banca, Tanlongo, e a due alti impiegati, Cesare e Michele Lazzaroni, "di non allontanarsi da Roma, ché altrimenti sarebbero arrestati".
"Dietro un siffatto avviso - notò Colajanni - i sorvegliati ebbero tutto il tempo di fare sparire gli elementi che avevano interesse ad occultare".
Il 18 gennaio, Martuscelli stese il suo rapporto. Ne riproduciamo la conclusione: "Dalla presente ispezione della Banca Romana è risultato dunque: 1) disordine nella gestione della Cassa, congiunto ad un vuoto nei biglietti di scorta, che nei giorni precedenti alla ispezione si è cercato di dissimulare mediante l'apertura di crediti allo scoperto nei conti correnti; 2) eccesso di circolazione, sino a raggiungersi, con la circolazione illegale ed abusiva, quasi il doppio in valore della circolazione alla Banca permessa; 3) tentativo di porre in circolazione serie duplicate di biglietti, fatti fabbricare dal governatore clandestinamente, tentativo per fortunato accidente e, per merito di alcuni impiegati superiori della Banca, non riuscito, e però rimasto senza effetti dannosi per il pubblico; 4) un portafoglio per i quattro quinti immobilizzato, che non potrà non essere di lenta e difficilissima realizzazione e cagionare perdite sensibilissime all'istituto; 5) un cumulo di crediti attivi allo scoperto e nella massima parte non garantiti; onde di assai dubbia riscossione e produttivi di altre notevoli perdite; 6) molte le sofferenze antiche di cambiali non soddisfatte alla scadenza, che si continuano a portare in attivo anche quando dagli atti esecutivi sia risultato disperato il ricupero dei credito della Banca, 7) utili fittizi portati a comodo nel bilancio, a scopo di poter continuare a distribuire dividendi agli azionisti. Tutto ciò rende necessario che cessi un istituto di emissione, che non ha solidità di sorta ed ha così demeritata la pubblica fiducia".
La sera stessa ebbe luogo a Palazzo Braschi una riunione, alla quale parteciparono Giolitti, il ministro di Grazia e Giustizia, Bonacci, i seri. Finali e Bartoli, quest'ultimo Procuratore Generale della Corte d'Appello di Roma.
All'indomani, 19 gennaio, vennero arrestati Fernando Tanlongo e il cassiere Cesare Lazzaroni. Accusa: peculato e falso in atto pubblico.
Di lì a poco fu spiccato mandato di cattura non solo contro il comm. Monzilli, alto funzionario del ministero dell'Agricoltura, perché accusato di avere, mediante compenso, redatto una falsa relazione sull'ispezione fatta nella Banca Romana nel 1889, ma anche contro il comm. Michele Lazzaroni, perché, nella qualità di reggente della Banca, "aveva aperto a se stesso e ad un suo amico un forte conto corrente".
Nelle sedute alla Camera del 26, 27 e 28 gennaio furono svolte parecchie interrogazioni e interpellanze sui fatti bancari. Giovanni Bovio chiese un'inchiesta parlamentare anche per conoscere dove era stato preso "il gran danaro profuso dai prefetti" per escludere dalla Camera uomini che meritavano di rappresentare il paese. Colajanni, a sua volta, dopo aver dichiarato che non si sentiva meno patriota degli altri, aggiunse: "Signori, ricordiamoci bene che se noi non colpiremo oggi corrotti e corruttori, lasceremo intatte le cause che determinano la maggior parte dello sfacelo degli istituti di emissione, con danno immenso, forse in parte irreparabile, del credito nazionale [ ... ]. Interrogate gl'illustri medici, gl'illustri biologi che sono in questa Camera; essi vi diranno che, lasciato in un organismo un solo germe di infezione, questa infezione procede rapida, fatale, lo invade tutto. E ricordatevi che gli organismi inferiori (e sono organismi inferiori, per l'appunto, tutti quelli che si sviluppano dalla putredine) si propagano e si moltiplicano con una vertiginosa rapidità".
Ma neppure questa volta Giolitti volle aderire alla richiesta di un'inchiesta parlamentare: "Non credo opportuna - disse - una inchiesta, perché avrebbe l'aspetto di una diffidenza verso l'autorità giudiziaria, la quale saprà fare, come sempre, il suo dovere [ ... ]. E d'altra parte non posso nascondere che un'inchiesta parlamentare avrebbe tutto il significato di un voto si sfiducia verso il Ministero [ ... ]. I Parlamenti, come i Governi, devono avere a guida dei loro atti unicamente la fredda ragione. Contro un'onda di male voci si è sollevato naturalmente nella Camera un generoso sentimento che spinge i deputati ad accettare l'inchiesta. Ma io credo che sia dovere di ognuno di fare forza anche ai propri sentimenti dinanzi ad una questione che interessa i più alti principii, che interessa il credito del paese".
Fra gli altri, condivisero pienamente le idee del presidente del Consiglio gli onorevoli Fortis, Nasi, Marcora, Ferrari e Paternostro. Ben presto, però, lo scandalo bancario entrò in una fase acuta e, nello stesso tempo, tragica.
Durante le perquisizioni in casa del cassiere Lazzaroni furono trovati anche degli appunti, da cui risultava che l'on. Rocco De Zerbi dal 1888 al 1891 aveva ottenuto dalla Banca Romana 425 mila lire "come compenso per aver favorito in Parlamento le ragioni e gl'interessi dell'Istituto". Il primo febbraio venne presentata alla camera la richiesta di autorizzazione a procedere contro De Zerbi per peculato, corruzione e millantato credito. Fra i documenti che accompagnavano la richiesta vi era pure quello da cui si desumeva che Tanlongo nel corso del suo interrogatorio aveva dichiarato di aver dato "cospicue somme ai diversi Presidenti del Consiglio per occorrenze straordinarie del Governo", e di essere disposto a provare tale accusa. Francesco Crispi, essendo infermo, diresse una lettera al Presidente della Camera per protestare contro la "gratuita asserzione" del Governatore della Banca Romana. Il marchese De Rudinì, a sua volta, sentì il bisogno, nella seduta del 2 febbraio, di affermare nel modo più esplicito e formale che "mai, né direttamente, né indirettamente, chiese o prese somma alcuna" da Tanlongo. Aggiunse anzi di volere che un'inchiesta parlamentare esaminasse tutta la sua condotta di capo di Governo. Ma Giolitti si oppose a quest'ultima richiesta, dicendo: "Politicamente avversario dell'onorevole Di Rudinì, credo di interpretare il sentimento unanime di tutti quanti sono in quest'Aula nel respingere qualunque dubbio potesse riguardare la sua persona. Ciò detto, io credo che non sia il caso di dare importanza a parole di un imputato, il quale parla nell'interesse della sua difesa".
"La voce uscita dal carcere - rispose Giolitti anche all'on. Odescalchi, che gli aveva chiesto se avesse preso denaro dalla Banca Romana - non merita di esser creduta".
Il 3 febbraio la Camera, in seguito alla relazione dell'on. Gallo, accordò all'unanimità l'autorizzazione a procedere contro l'ori. De Zerbi. Questi, dopo essere stato sottoposto dal giudice istruttore ad uno snervante interrogatorio, morì nel suo villino, in via Castelfidardo, a Roma, il 20 febbraio. E corse voce che si fosse avvelenato, per non vivere la tragedia di vedersi "processato come ladro".
L'Italia, che ammirava nel calabrese De Zerbi l'antico garibaldino, il forte ingegno, il grande giornalista, l'oratore eloquente e il costante oppositore della politica giolittiana, fu profondamente addolorata. Si tenga anche presente che l'opinione pubblica, meno di un mese prima, era stata nuovamente turbata dal feroce assassinio dei senatore Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia. Il processo che ne seguì aveva sollevato gran rumore, soprattutto per le scandalose rivelazioni di natura politica.
Il 20 marzo, Giolitti presentò alla Camera la relazione d'ispezione del seri. Finali e un pacco di elenchi nominativi di cambiali in sofferenza presso gli istituti di emissione. L'esame di questi elenchi doveva, secondo il capo del Governo, essere affidato ad una Commissione di cinque membri. Subito dopo, l'ori. Nicotera, calunniato proprio in quei giorni dal giornale Il Napoli, prese la parola per proporre un'ampia inchiesta, ritenendo che, nell'interesse di tutti, 'Tosse un bene scoprire la verità. E' per l'onore del Governo del nostro Paese che io chiedo si faccia luce piena per smentire le turpi calunnie [ ... ]. Ma che autorità volete che abbia più il Governo, che autorità volete che abbia più il Parlamento, se s'insinua ogni giorno che qua dentro ci sono, non dirò dei ladri, ma degli indelicati"?
E ancora una volta Giolitti si oppose alla proposta, sebbene l'accusa fosse stata declassata da furto in indelicatezza (strano reato, in realtà!), affermando: T' in corso un processo: io spero che questo processo volga speditamente al suo termine, ma siamo sempre nel periodo dell'istruttoria segreta. Ora una inchiesta parlamentare, come viene generalmente intesa, potrebbe entrare nelle indagini che sono attualmente nelle mani dell'autorità giudiziaria, ed allora verrebbe ad intralciare il processo, verrebbe ad impedire che il processo giunga alla sua conclusione".
Ma Bovio, al quale premeva il decoro del Parlamento, disse: "A noi si porge chiaro il dilemma: o prendere un provvedimento serio, o rassegnarci supinamente alla rovina morale nostra. E il provvedimento sarà serio, se alla Commissione sarà dato potere amplissimo, e responsabilità pari al potere suo. L'ufficio suo non può limitarsi al leggere queste cambiali; essa deve andare assai più in là ed investigarne la storia, e vedere in queste cambiali fin dove arrivi la colpa e dove incominci la sventura; dove si è fatto un credito maggiore della facoltà, come testé diceva l'ori. Sonnino, dove c'è la firma vera, dove c'è la firma falsa, dove c'è la cambiale e dove sia stata sottratta, e sia stato fatto un credito che sfugge alla carta ed alla cambiale; dove infine c'è l'avvoltoio che ha sfondato la rete, ed il calandrino che c'è rimasto dentro. Tutto questo deve vedere la Commissione; e non è facoltà del magistrato, è dignità del Corpo legislativo: e se questo non faremo, noi avremo scherzato con l'onore!".
Ma non era più possibile continuare a resistere alla pressione della Camera che, nella sua grande maggioranza, voleva ora l'inchiesta, tanto più che nella relazione del seri. Finali si leggevano anche queste gravi parole: "E talvolta avvenne che il Governo stesso, indotto da ragioni di ordine politico che sfuggono ad ogni esame di questa ispezione, o le sovrastano, autorizzasse impieghi diretti, che, in ogni migliore ipotesi, contrastano ai fini ed alla essenza degli Istituti di emissione".
Il 21 marzo Giolitti si vide costretto a ripiegare, accettando l'ordine del giorno del deputato Guicciardini, col quale si proponeva di nominare una Commissione di sette membri per assodare tutte le responsabilità d'indole politica e morale. Venne però stabilito che i membri della Commissione da nominarsi dal presidente della Camera dovessero astenersi dall'usurpare le funzioni spettanti all'autorità giudiziaria.
Qualche giorno dopo, Zanardelli comunicò alla Camera i nomi del "Comitato dei Sette": Giovanni Bovio, Alessandro Paternostro, Antonio Mordini, Suardi Gianforte, Cesare Fani, Antonio Pellegrini ed Eduardo Sineo. In considerazione dell'età e del suo glorioso passato, venne chiamato ad essere presidente e relatore della Commissione Antonio Mordini. Due i segretari: Paternostro e Fani.
Le prime perquisizioni alla Banca Romana erano state eseguite soltanto dalla Pubblica Sicurezza. Questo fatto e la lentezza con cui si istruiva il processo fecero sorgere nell'opinione pubblica il sospetto che la magistratura, subendo le pressioni governative, mirasse ad insabbiare gran parte della verità. Probabilmente, questo dubbio inquietante dovette contribuire non poco, nella seduta del 19 maggio, a far respingere dai deputati, con 138 voti contro 133, il bilancio del ministero di Grazia e Giustizia.
Era il primo caso, nella storia del Parlamento italiano, di un bilancio non approvato. Dunque, il ministro Bonacci senti il dovere di dimettersi immediatamente. All'indomani, l'intero Gabinetto rassegnò le dimissioni.
Giolitti succedette a se stesso. Tuttavia, gli scandali bancari ebbero gravi ripercussioni sull'economia nazionale e sulla nostra credibilità all'estero. Si tenga presente che le irregolarità riscontrate nelle altre cinque Banche di emissione erano di gran lunga inferiori a quelle della Banca Romana. Nella succursale di Roma dei Banco di Napoli, per esempio, fu scoperto un ammanco di circa 2,5 milioni di lire, per il quale venne poi arrestato il Direttore, Vincenzo Cuciniello, che aveva cercato di fuggire travestito da prete. In generale, si appurò che nel Banco di Napoli non solo non esisteva più capitale, ma c'era un passivo di 20 milioni. Non c'erano "disordini nella circolazione, ma il suo portafoglio era gravato da una mole stupefacente di cambiali di nessun valore. Il metodo che era stato seguito nel Banco di Napoli consisteva nello scontare cambiali firmate da nullatenenti, che poi venivano messe fra le inesigibili".
Giolitti a questo punto dovette porre riparo prontamente ed energicamente. Prima d'ogni altra cosa, "per impedire che il discredito involgesse la carta di tutti gli istituti di emissione", dichiarò che lo Stato garantiva qualsiasi biglietto di Banca. Stabilì inoltre il pagamento dei diritti doganali in orodecretò l'emissione di 30 milioni di biglietti da una lira, per evitare la speculazione sulle cedole, che, dato il cambio del 15 per cento, si mandavano a riscuotere all'estero, impose l'obbligo della presentazione del titolo, col sistema dell'affidavit. Infine, ritenne che fosse giunto il tempo di procedere alla realizzazione del riordinamento degli Istituti di emissione.
Il 22 marzo, il ministro dell'Agricoltura e Industria e Commercio, Lacava, presentò alla Camera un disegno di legge con cui mirava a liquidare la Banca Romana, a fondere la Banca Nazionale e le due Banche toscane in un solo istituto, che avrebbe dovuto assumere il nome di Banca d'Italia, e a conservare in vita il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Si prescriveva, inoltre, un severo controllo da parte dello Stato sull'emissione dei biglietti, e infine si stabiliva la incompatibilità dei deputati e dei senatori per qualsiasi ufficio nei tre Istituti. La proposta, dopo un ampio e spesso duro dibattito, fu approvata il 10 agosto 1893.

Banca Romana /2

Ma Giolitti salvò la faccia e la lira

In pieno scandalo, Giolitti si convinse che una politica d'attesa avrebbe significato fare la scelta peggiore. Era necessario che il governo assumesse l'iniziativa, mettendosi risolutamente sulla via della riforma degli Istituti di emissione, affrontando i rischi che il presidente del Consiglio freddamente non poteva non prevedere. Pertanto, il 30 dicembre 1892 incaricò il Presidente della Corte dei Conti, sen. Finali, di compiere un'ispezione su tutte e sei le Banche. Lo scopo era triplice: arginare le richieste dell'opposizione e battere, come di fatto poi avvenne, almeno parzialmente, la proposta di nominare subito la Commissione parlamentare d'inchiesta; acquisire, d'altra parte, una base informativa aggiornata, sulla quale costruire una nuova disciplina legislativa di tutta la materia; dimostrare, con l'evidenza dei fatti, che il governo Giolitti non aveva alcuna responsabilità in ordine al degrado degli Istituti di emissione, imputabile invece all'indecisione, al lassismo, all'ingannevole ottimismo dei precedenti governi e delle maggioranze parlamentari che li avevano sostenuti.
Senza dubbio, la "relazione sulla ispezione straordinaria agli Istituti di emissione", presentata da Finali a Giolitti il 16 marzo 1893, costituisce il documento più importante e più ricco di informazioni per la ricostruzione della situazione tecnica delle Banche di emissione alla vigilia dell'Atto Bancario di quell'anno.
Nel discorso agli elettori di Dronero, pronunciato il 18 ottobre, Giolitti così ricostruiva il delicatissimo momento degli "scandali bancari": "Fin dai primi suoi passi la nuova maggioranza e il Ministero si trovarono di fronte una questione economica e morale di gravità eccezionale. Parlo dei disordini scoperti negli Istituti di emissione e delle loro conseguenze sul credito e sull'economia del Paese. Sorte le prime voci di disordini in un Istituto di emissione, il governo ordinò un'inchiesta amministrativa, la quale fu eseguita con tale prontezza ed energia e con metodi così efficaci che accertò subito gravissimi fatti nella Banca Romana e nel Banco di Napoli, i quali furono immediatamente denunciati all'Autorità giudiziaria. E poiché quei fatti gettavano il discredito sui biglietti di banca, mezzo quasi unico dei nostri scambi, minacciando una grave catastrofe economica, il Ministero assunse la responsabilità di dichiarare garantiti dallo Stato i biglietti a corso legale, dichiarazione che valse a togliere ogni allarme e che fu poi dal Parlamento convalidata".
Contemporaneamente, il presidente del Consiglio sollecitò la ripresa delle trattative per le quattro società per azioni (la Banca Nazionale nel Regno d'Italia, la Banca Romana, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito), esprimendo chiaramente l'avviso che i banchi meridionali (Banco di Napoli e Banco di Sicilia) dovessero restare fuori dal progetto di fusione.
Giolitti, infatti, ben prevedeva le reazioni furibonde che un provvedimento, che segnasse la fine dell'autonomia dei banchi meridionali, avrebbe scatenato fra i deputati del Mezzogiorno. I verbali del Consiglio superiore della Banca Nazionale nel Regno forniscono in tal senso un riscontro puntuale: l'11 giugno 1893 il direttore generale, Grillo, "riferisce che il maggiore interessamento preso dall'opinione pubblica al grave problema bancario e la persuasione ormai fattasi generale che non convenga continuare uno stato provvisorio dannoso al credito ed all'economia del Paese, gli ha permesso di riaprire le trattative per la fusione delle Banche di emissione [ ... ], esprimendo la speranza che esse possano portare ad una soluzione soddisfacente alla quale non mancherà l'appoggio del governo per dichiarazione avutane dal ministro del Tesoro, anche a nome del presidente del Consiglio dei ministri".
Sempre Grillo "informa poi che in questi ultimi tempi venne constatato che la Banca Romana si trova in condizioni disastrose e che il governo associa all'idea della formazione di una sola Banca di emissione per azioni risultante dalla detta fusione quella di addossarle la liquidazione di essa Banca Romana prendendo a suo carico le perdite che ne risulteranno".
Nel verbale del 19 gennaio 1893, la relazione introduttiva del direttore generale fornisce la seguente informazione, in un periodo che viene poi espunto dal verbale su proposta del consigliere Lancia di Brolo: "Non si avrà la Banca unica perché il governo si è pronunciato molto nettamente sul punto della conservazione dei due Banchi meridionali come Istituti di emissione, però nelle condizioni attuali: ma si fa un gran passo verso l'attuazione di questo concetto ch'egli prevede avrà in tempo più o meno remoto il suo compimento perché così vuole l'interesse del Paese".
In effetti, al termine della prima settimana del gennaio 1893, Grillo, nel corso delle trattative per la fusione, si rese conto per certo "non potersi più trattare di fusione, ma di una liquidazione della Banca Romana", per lo stato fallimentare in cui versava l'Istituto a causa dell'esistenza di un ulteriore vuoto di cassa di 9 milioni e 800 mila lire (oltre a quello di 13 milioni già acclarato). Cosicché, mantenendo in quei giorni il Grillo, come egli stesso dichiarò al processo per la Banca Romana in Corte d'Assise, contatti continui con il governo, è verosimile che il presidente del Consiglio ed il ministro del Tesoro appresero da lui la verità sulla situazione della Banca Romana con anticipo rispetto all'inizio dell'ispezione del segretario generale della Corte dei Conti, Martuscelli, che cominciò, appunto, la mattina del 10 gennaio 1893. I gravissimi motivi di preoccupazione per la sua posizione personale (Giolitti aveva proposto in Consiglio dei ministri e poi al re la nomina a senatore di Bernardo Tanlongo, senza che il prefetto di Roma o altra autorità avesse iniziato la pratica e condotto la relativa istruttoria, sicché l'intera responsabilità della nomina era sua) si sommavano nel presidente del Consiglio all'angoscia che il crollo della Banca Romana potesse produrre, per una serie di reazioni a catena, il collasso della lira e dell'economia.
Era necessario, dunque, correre ai ripari, definendo l'ipotesi di riordinamento degli istituti di emissione, e di liquidazione della Banca Romana, assumersi la responsabilità di dichiarare garantiti dallo Stato i biglietti a corso legale, far leva sui tre Istituti pronti alla fusione e sul sostegno del governo in un momento così difficile, venendo loro incontro con concessioni sostanziali, in limiti tuttavia accettabili dal parlamento. Furono predisposte due "convenzioni" che vennero stipulate, la prima tra la Banca Nazionale nel Regno, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito per la fusione, la seconda tra le prime tre e i rappresentanti della Banca Romana per la liquidazione di quest'ultima. La firma fu apposta il 18 gennaio 1893. La nuova Banca d'Italia, da costituire con capitale di 300 milioni di lire, di cui 210 versati, assumeva l'onere della liquidazione della Banca Romana, tenendo un conto, separato, acquisendo le riserve metalliche ed ogni altra attività della banca cessante e sobbarcandosi il carico del suo passivo e quindi anche quello della circolazione illegale, e pagando un rimborso di lire 450 per ogni azione del valore nominale di lire 1.000. In compensazione, il governo avrebbe concesso alla nuova Banca d'Italia il privilegio dell'emissione per venti anni, la riduzione della tassa di circolazione dall'1,44 all'1 per cento e il corso legale dei biglietti per un quinquennio.
Nei mesi successivi alla firma delle convenzioni il governo fu impegnato nella messa a punto della riforma. Autorevoli studiosi, quali Corbino, De Rosa e Vitale, hanno espresso la convinzione che il vero artefice di essa fu personalmente Giolitti. E infatti, l'estrema delicatezza di tutta l'operazione e l'enorme posta in gioco rendevano la presidenza del Consiglio, a Palazzo Braschi, la sede naturale e suprema per i contatti e la preparazione del progetto.
D'altro canto, anche dal punto di vista tecnico, Giolitti possedeva una preparazione di "legista" assai distinta, per essere stato addetto per cinque anni, dal gennaio 1862 al dicembre 1866, al Gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia, che allora era la vera ed unica fucina della legislazione, dalla quale uscirono, in particolare, quei capolavori che furono i Codici del 1865. Inoltre, figuravano nel suo curriculum la reggenza della direzione generale delle Finanze, il periodo quinquennale di servizio quale segretario generale della Corte dei Conti, sino alla nomina a Consigliere di Stato, e il non breve noviziato nella giunta del bilancio della Camera, nonché il periodo in cui aveva ricoperto l'ufficio di ministro del Tesoro. Dunque, senza ombra di dubbio, Giolitti aveva un'eccellente preparazione giuridica ed era in grado di valutare immediatamente la portata e le conseguenze di una proposta di emendamento, di concepire un disegno legislativo e di tradurlo materialmente sul piano normativo.
Fra l'altro, egli si era cimentato più volte nella sua vita di funzionario nel lavoro di drafting, riducendo il numero sovrabbondante di articoli di proposte di legge e nulla togliendo alla volontà del legislatore.
Anche nel caso della legge che istituì la Banca d'Italia l'apporto personale di Giolitti alla fase di progettazione legislativa fu decisivo. Nelle carte dell'Archivio Giolitti sono conservati infatti un appunto sui principiguida della riforma e una stesura del progetto, scritta su carta intestata "Presidenza del Consiglio dei Ministri", di sicuro pugno dello statista piemontese, e molto tormentata da ripensamenti, precisazioni di soluzioni e formule, miglioramenti - documento che dimostra che il presidente del Consiglio s'impegnò in prima persona nella redazione del progetto di legge. E ciò spiega anche l'assoluta padronanza della materia che Giolitti rivelò nel corso del dibattito parlamentare.
D'altra parte, egli era "uomo segreto": impegnato in una vicenda politica gravissima prima per il Paese e poi per sé personalmente, egli non avrebbe mai acconsentito a che i contatti riservati e conclusivi con i rappresentanti dell'alta banca passassero per altri tramiti, senza un suo "filtraggio" iniziale che, a mano a mano, depurasse tutti i potenziali pericoli e rendesse avvertita "la controparte" che il governo parlava "con una sola bocca", quella del presidente del Consiglio. Così parecchie soluzioni e proposte nascevano e morivano, oppure venivano accolte nell'ufficio di Giolitti, nella stanza che si trovava nell'angolo tra la piazzetta Braschi e via di Passione, al piano nobile del palazzo sede della presidenza del Consiglio dei ministri e sede anche del ministero dell'Interno.
Il progetto di legge, che recepì sostanzialmente gli accordi dei 18 gennaio, fu presentato alla Camera il 22 marzo dal ministro d'Agricoltura, Industria e Commercio, Lacava, di concerto col ministro del Tesoro, e ad interim delle Finanze, Grimaldi, col titolo: "Riordinamento degli Istituti di emissione". Dopo l'approvazione della Camera, il disegno di legge ricevette il consenso del senato del Regno l'8 agosto 1893.
Nel discorso di Dronero di due mesi dopo (18 ottobre) Giolitti disse che la discussione del progetto di legge "fu una delle più vivaci e appassionate che il Parlamento ricordi; ma ciò fu un bene, perché crebbe importanza al fatto della definitiva approvazione e diede autorità alla legge stessa, assicurando che largo campo era stato allo svolgersi di tutte le opposte opinioni". Il presidente del Consiglio così enumerava i vantaggi assicurati dalla nuova legge: "La creazione di un potente Istituto nella Banca d'Italia; la liquidazione della Banca Romana; l'assicurata esistenza con una buona amministrazione dei Banchi di Napoli e di Sicilia; l'aumento di capitale della Banca d'Italia di 34 milioni subito, di altri 90 milioni a mano a mano che occorrevano per la liquidazione del passato; l'aumento della riserva metallica; la graduale riduzione di 233 milioni nella circolazione della carta; la determinazione precisa delle operazioni consentite; l'obbligo di liquidare in tempo determinato le operazioni di diversa natura; il ritiro dei biglietti attuali e la loro sostituzione con biglietti da fabbricarsi con il concorso dello Stato; la riduzione di un terzo circa della tassa di circolazione che faciliterà le riduzioni di sconto; la determinazione rigida delle responsabilità degli amministratori; sanzioni severe contro ogni violazione di legge; l'esclusione di qualsiasi ingerenza parlamentare; una vigilanza molto più efficace".

Debiti & usura

I cravattari

L'immagine e quella di uno che si impicca con una corda (o "cravatta") fatta di biglietti da centomila. E si dice che, come la prostituzione, quello dell'usuraio è il mestiere più antico del mondo. Esisteva nel mondo mediorientale e in quello greco. E i Romani combattevano l'usura fissando un tasso massimo, oltre il quale i trasgressori pagavano una multa. Questo criterio venne introdotto nel 357 avanti Cristo con la legge Duilia Menenia, con effetti disastrosi sulla popolazione. L'usuraio veniva condannato a pagare, ma si rifaceva subito sui clienti. Le multe furono così numerose, che con il ricavato il Senato innalzò alcuni monumenti al Foro Romano, tra cui l'edicola bronzea della Concordia e le figure di Romolo e Remo allattati dalla lupa.
Nell'89 avanti Cristo si tentò anche di escludere dal Senato tutti i membri indebitati per cifre superiori ai duemila denari. Promotore del provvedimento fu Sempronio Asellione, che per questo venne immediatamente linciato.
Il problema, dunque, è sempre esistito, ed è soprattutto di ordine culturale e sociale. La vittima dell'usura, cointeressata per non perdere quella che ritiene l'ultima spiaggia, raramente svela gli autori del reato. Così l'usura cresce, e oggi è terreno propizio per le attività dei clan malavitosi. Allo stato attuale, infatti, secondo l'Adiconsum, associazione di difesa dei consumatori, sarebbero quattro milioni le persone che ogni anno, in mancanza di alternative, finiscono in pugno ai cravattari. Il Censis, secondo stime recenti, parla di un giro di affari intorno ai 650 miliardi all'anno, con tassi d'interesse praticati dal 100 al 500 per cento.
Come sconfiggere questo male endemico? In primo luogo, è necessario stabilire parametri entro i quali si configuri il reato. Il Codice, che è del 1930, ha le sue colpe. L'articolo 644 prevede l'usura, ma il delitto si consuma soltanto se si riesce a dimostrare che l'usuraio ha approfittato dello "stato di necessità" della vittima: circostanza pressoché indimostrabile in sede processuale. Anche la pena èinadeguata: da 200 mila a quattro milioni di lire.
In secondo luogo, occorrerebbe definire per legge quello che è un tasso d'interesse massimo. Lo ha fatto la Svizzera, fissando il toprate al 17 per cento; lo hanno fatto anche la Francia, il Belgio e la Germania; e prima ancora lo avevano fatto i Romani, che con la Legge di Licinio Sesto (376-367 avanti Cristo) avevano bloccato quel tasso al 12 per cento.
Spesso, nell'attività dei cravattari, si configura anche il reato di riciclaggio, collegato a capitali provenienti da estorsioni e da traffici illeciti. Il paesaggio, allora, è una palude melmosa e in buona parte inesplorata, vasta, letale. Con isole di sabbie mobili che ogni anno ingoiano migliaia dì vittime, costrette a cedere i propri esercizi commerciali o industriali ai vampiri che manovrano il volano dello strozzinaggio a livelli ormai insopportabili per una società civile avanzata, come dice di essere la nostra.


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