§ Confessioni di un economista

Posso ancora avere un sogno




Paul A. Samuelson



Molti economisti - Alfred Marshall, Knut Wicksell, Léon WaIras... - dicono di essere diventati tali per fare del bene al mondo. lo divenni economista quasi per caso e, in primo luogo, perché l'analisi era così interessante e, a dire il vero, al principio, pensavo ci dovesse essere di più di quello di cui io mi rendevo conto: altrimenti, perché i miei compagni di classe più anziani di me avevano così tante difficoltà con l'offerta e la domanda? (Come poteva un aumento nella domanda di lana far diminuire i prezzi della carne di maiale e di quella di vitello?).
Sebbene ogni mio passo come economista sia comandato e condizionato dalla visione analitica positivista del mondo, dalla mia coscienza non è mai assente una preoccupazione per l'etica del risultato. La mia è un'ideologia semplice che guarda con benevolenza i diseredati e aborrisce (ceteris paribus) la diseguaglianza.
Non mi faccio un vanto di questo atteggiamento morale. I miei genitori erano dei liberal (nel senso dato dagli americani al termine, non in quello europeo della "Scuola di Manchester") e io fui condizionato da quella Weltanschauung. E' una fede molto facile da abbracciare. Quando il mio reddito superò quello mediano, non mi attribuii alcuna colpa. E non c'era nemmeno qualcosa che mi spingeva ad alienare tutti i capi di vestiario che avevo in più in favore dei poveri: i miei genitori mi avrebbero creduto uno stupido, e, nel caso in cui mi fossi rigirato nel letto tutta la notte rimpiangendo di non averlo fatto, avrebbero detto che avevo dei problemi psicologici. I liberal si sentono personalmente obbligati nei confronti di una giustizia che chiamano distributiva: ma, più importante degli atti di carità, è il soppesare ogni volta si tratti di cosa pubblica i due aspetti, quello dell'efficienza e quello dell'equità. Come il mio amico e professore dell'Università di Chicago, H. Simons, soleva dire: "Per ogni buona causa vale la pena di sostenere dei costi. Ogni cosa dovrebbe essere spinta oltre il limite dei rendimenti decrescenti (altrimenti, perché desistere dall'andare ancora più oltre?)".
Le persone che non prestano volontariamente il servizio militare possono, con buona logica, votare a favore di una legge sull'arruolamento che implichi, per loro così come per ogni altro individuo, la possibilità di arruolamento. in generale, quando si sono presentati problemi di redistribuzione fiscale, ho sempre votato contro i miei propri interessi economici. Il fatto che io abbia sostenuto l'eliminazione di certe scappatoie fiscali non ha precluso una mia ricerca volta a trarre dei vantaggi da quelle rimaste nel codice tributario. Tuttavia, uno sforzo troppo avido in quella direzione apparirebbe non solo tanto inestetico, ma costituirebbe altresì una fonte di disagio e di senso di colpa.
Senza eccezione alcuna, tutti gli economisti che conosco pensano di essere dei filantropi. Questo include i comunisti fedeli alla linea stalinista e i fanatici del laissez-faire della Scuola di Chicago. Eppure noi tutti sappiamo piuttosto bene cosa aspettarci l'uno dall'altro quando si tratta di giudicare e prescrivere condotte di politica economica. Non c'è unanimità. Se l'economia politica fosse una scienza esatta, allora probabilmente saremmo più concordi sugli eventuali risultati. Viceversa, se l'economia non fosse affatto una scienza, ma solo un agglomerato di giudizi di valore e di pregiudizi, allora l'insistente richiesta di un'opinione agli economisti da parte dei Principe o del Parlamento non avrebbe alcun senso: non si verrebbe a sapere alcunché circa i meriti e i demeriti delle proposte in esame, ma solo una riconferma che l'economista Jones è un liberale dal cuore tenero e l'economista Smith un elitario egoista.
L'economia politica così come la conosciamo sta a metà fra queste due categorie. In ogni data circostanza gli economisti si trovano d'accordo su parecchi punti. Se Milton Friedman e io non ci troviamo d'accordo, riusciamo a identificare in fretta le fonti e il carattere delle nostre divergenze in un modo che i "non addetti ai lavori" non riescono a comprendere. La differenza fra le nostre prescrizioni non costituisce uno stimatore "corretto" dei nostri principi induttivi o deduttivi. Data la mia funzione del benessere sociale (o, adottando la terminologia statistica di Wald, la "funzione di perdita") con cui ordinare in termini di importanza relativa la disoccupazione e la libertà negli affari, io potrei non essere completamente d'accordo con le sue conclusioni ma, ciononostante, potrei condividere la sua diagnosi relativa alle osservazioni empiriche e alle probabilità dei legami. Eppure - tale èl'imperfezione che colpisce gli scienziati - un antropologo le cui cavie fossero proprio noi economisti registrerebbe il fatto, triste, che i nostri sentimenti spesso contaminano le nostre menti e la nostra vista. Un conservatore predirà un elevato pericolo di inflazione partendo dagli stessi dati che inducono i filantropi a preannunciare il pericolo di una recessione imminente.
Un economista che per anni si era unicamente occupato dell'ottimalità nel senso di Pareto mi scrisse, tempo fa, che mi sarei meravigliato nel sapere quanto egli fosse liberale. Riflettendo sui suoi scritti, mi chiedevo come facesse a sapere di avere un cuore; dato che non l'aveva usato da molto tempo. E' una legge naturale: "Usalo, altrimenti lo perdi".
Non sono solo le arterie a indurirsi con l'età. Si dice che gli economisti diventino più conservatori con l'andare del tempo. Dal canto loro, invece, essi negano che questo avvenga. Nel mio caso, non penso che i valori alla base della mia ideologia siano cambiati in modo sistematico da quando avevo venticinque anni. Da un decennio a questa parte, l'economia tradizionale si è spostata leggermente a destra. Ma io non ho avuto la tentazione di seguirla. Ciò che tende a mutare con il passare degli anni e dell'esperienza è il grado di ottimismo su ciò che è fattibile e la propria fiducia nelle sole buone intenzioni. Il fatto che sia più scettico riguardo alla proprietà statale dei mezzi di produzione o all'efficacia della pianificazione non è il riflesso di un congelamento del sentimento di pietà e di benevolenza, quanto una risposta alle crescenti testimonianze offerte dal mondo reale.
Sono consapevole di un preciso momento in cui il mio rispetto per i meccanismi del mercato registrò un enorme balzo in avanti. Questo cambiamento non aveva nulla a che fare con le migliorate prestazioni del sistema di mercato. Tanto meno era collegato alle nuove argomentazioni avanzate da Hayek sulla produzione e sull'utilizzo delle informazioni, o a quelle, antiche, sull'efficienza del mercato e sulle libertà di Adam Smith, Frederic Bastiat o Frank Knight. Il cambiamento del mio punto di vista fu piuttosto causato dalla caccia alle streghe nei confronti di chi era considerato comunista o "di sinistra", avvenuta negli Stati Uniti degli anni Cinquanta.
L'era McCarthy, a mio giudizio, costituì una notevole minaccia da parte del fascismo americano. Conoscevo molte persone che lavoravano nel governo o per l'Università le cui libertà civili e carriere professionali furono messe a repentaglio. Ho avuto modo di osservare da vicino i timori e le incertezze delle autorità universitarie di Harvard e del MIT, e queste ultime erano le istituzioni accademiche americane più coraggiose. Come Wellington disse a proposito di Waterloo, il senatore McCarthy venne discreditato: a paragone, la "lista nera" di Richard Nixon era uno scherzo, e il fatto che il mio nome fosse su questa lista aggiunse poco alle mie evanescenti credenziali come esponente del New Deal. Dall'incidente McCarthy imparai i pericoli di una società con un unico datore di lavoro (in questo caso, lo Stato). Quando si viene ostracizzati dall'occupazione statale c'è qualche via di scampo sul mercato offerta dalle migliaia di anonimi datori di lavoro. Ho saputo di persone che ottennero un impiego nell'industria privata, di solito nelle piccole imprese, perché la tendenza di quelle grandi è quella di procedere a fianco dello Stato. La scoperta di questo fatto si trasformò in un nuovo argomento a favore non tanto del laissez-faire quanto dell'economia mista.
Come si comportarono, fra le schiere degli economisti, i sostenitori del libero mercato nelle vesti di difensori delle libertà individuali e civili? Questo per me fu un argomento di grande importanza e per diversi anni tenni un computo silenzioso degli atteggiamenti e dei discorsi privati dei principali libertari americani ed europei, la maggior parte dei quali erano amici intimi. Come un antropologo che indaga, rivolgevo loro delle domande innocenti, il cui scopo era quello di far emergere spontaneamente i loro punti di vista. Se èvolgare tenere un taccuino delle conversazioni private, allora io fui volgare. I risultati mi sorpresero e mi angosciatono. I sostenitori più accaniti del laissez-faire, quello per intenderci postulato da Bastiat e da Spencer, erano insensibili e in generale indifferenti ai diritti e alle libertà personali degli studiosi. Tra i membri della Mont Pelerin Society, si distingueva soltanto il nome di Fritz Machlup, l'unico disposto a pagare di persona per sostenere i valori di John Stuart Mill. Non sto parlando dell'incapacità delle persone ad essere eroi.
C'è poco di eroico nel mio comportamento e ho imparato a non aspettarmi molto dalla natura umana. La mia ricerca mi ha però condotto alla triste scoperta che non esisteva una preoccupazione genuina per i valori umani.
All'Università di Chicago mi fu insegnato che la libertà negli affari e le libertà personali devono essere strettamente collegate e ciò sia come questione di fatto sia come esito di un ragionamento deduttivo. Per molto tempo ho creduto in quello che mi avevano insegnato. Gradualmente dovetti riconoscere che un tale paradigma non andava bene alla realtà. In base a molti dei criteri postulati da Mill, la Scandinavia, con i suoi regolamenti, era più libera dell'America, o almeno altrettanto libera. Quando facevo osservare all'amico conservatore David McCord Wright questi inconvenienti, egli mi avvertiva: "Aspetta e vedrai. I cittadini britannici e svedesi, è vero, non hanno ancora perso le loro libertà. Ma una situazione in cui il mercato subisce delle interferenze e la gente rimane politicamente libera non può durare a lungo". Tutti noi aspettiamo da più di trent'anni, ormai.
Friedrich Hayek scrisse il suo best seller, the Road to Serfdom, alla fine della seconda guerra mondiale, ammonendo che una riforma parziale avrebbe sicuramente condotto alla tirannia. Analisi, su dati "cross-sectional" e su serie storiche, della relazione tra politica ed economia mi suggeriscono delle importanti verità:
1) Le società controllate da un potere socialista raramente sono efficienti e virtualmente non sono mai totalmente democratiche. (C'è dunque un notevole elemento di verità nelle parti non innovative dell'avvertimento di Hayek).
2) Le società che hanno resistito a delle riforme parziali sono state spesso travolte da cambiamenti rivoluzionari. Se la scelta è tra un'economia di libero mercato oppure niente, spesso è la seconda alternativa a prevalere. A dire il vero, dopo la metà del secolo i migliori archetipi di mercati liberi efficienti sono spesso stati forniti da governi fascistoidi o da società apertamente fasciste nelle quali un dittatore o un singolo partito impongono un ordine politico, senza il quale il mercato non potrebbe sopravvivere politicamente. Il Cile con la sua dittatura militare e con i Chicago-boys è solo uno fra i molti casi drammatici. Taiwan, la Corea del Sud e Singapore sono meno drammatici, ma più rappresentativi.
3) Posso però nutrire un sogno. Come Martiri Luther King, sogno un'economia umana che sia allo stesso tempo efficiente e rispettosa delle libertà personali (se non di quelle degli affari). Molte delle decisioni di produzione e di consumo richiedono di affidarsi al meccanismo del mercato. Ma le peggiori diseguaglianze nelle condizioni che ne risultano - anche se le opportunità ex ante sono uguali per tutti - possono essere mitigate da un trasferimento di poteri allo Stato democratico. Una maggiore equità raggiunta tramite la previdenza sociale non impone alcun pedaggio in termini di efficienza? Sì, ci sarà qualche trade-off tra produzione totale ed eguaglianza, tra sicurezza e progresso. A questo compromesso ho dato il nome di "economia con un cuore" e il mio sogno è quello che essa mantenga anche un cervello.
Tutto ciò di cui ho bisogno per lavorare è una matita (adesso una penna a sfera) e un blocchetto di fogli di carta. lo sono stato fortunato nell'avere avuto moltissimi problemi interessanti da risolvere. Molti artisti e scrittori incappano in lunghi periodi di stasi, caratterizzati da una mancanza di idee.
Fortunatamente, questo non è mai stato il mio caso. Forse ho abbastanza autocritica da giudicare quali siano i problemi di minor importanza. In ogni caso, il mio punto di vista non è mai stato quello alla Carlyle di Schumpeter, e cioè che solo le grandi idee contano e che solo alcuni uomini sono importanti nella storia e nel progresso della scienza. Ho sempre creduto che, per prima cosa, si debba affrontare il problema più importante che è rimasto insoluto e che è a portata di mano; poi se ne affronta un altro. Se questo portasse a uno stato di rendimenti decrescenti in assenza di nuove drammatiche sfide e innovazioni teoriche, così sia.
"Su che cosa stai lavorando adesso?". Questa è una domanda che mi son sentito fare per tutta la vita: non ho mai saputo cosa rispondere. Ho sempre molte cose per le mani; e c'è sempre una buona scorta di domande sotto il livello della mia attenzione esplicita. Alcune di queste riposano in quel limbo per due decenni. Non c'è alcuna fretta: si conserveranno. Una mattina (o durante la notte, mentre sogno) la ruota sempre mutevole della fortuna farà saltar fuori il loro numero.
I poeti raccontano che spesso i loro versi sgorgano dal proprio intimo; essi non fanno altro che scrivere ciò che la loro musa detta loro. Tutto ciò sembra piuttosto pretenzioso, e tuttavia c'è qualcosa di vero in questa affermazione. In gioventù ero solito esplorare un dato argomento: scrivevo le equazioni e i sillogismi che ne trattavano i diversi aspetti; alla fine, delineavo l'intero lavoro. Solo allora si poteva passare alla prima stesura. Forse quello che sto descrivendo è il modo ottimale di scrivere un saggio.
Sempre più dopo i trentacinque anni mi sono allontanato da questa procedura di lavoro. Spesso ho lasciato che l'articolo si scrivesse da sé. Un problema è stato posto. Si inizia col risolverlo, scrivendo quali saranno i passi che porteranno alla soluzione. Un passo, naturalmente, conduce a un altro. Alla fine, ciò che poteva esser risolto è stato già risolto. L'articolo è finito. Ciò che è stato finito non è qualcosa che era stato previsto e che aspettava solo di essere trascritto. Tutto questo mi ricorda un motto di Franklin Roosevelt: "Come faccio a sapere cosa dico se prima non sento me stesso dirlo?".
Questo vuol dire che alcuni articoli potrebbero venire scritti in metà giornata. Certamente la prima bozza non necessariamente sarà quella finale. Possono seguire molte ore dedicate alla revisione, all'aggiunta di particolari, a cancellature, alla rielaborazione e, infine, alla correzione. Forse sarebbe meglio far seguire alla prima stesura una nuova. Ma questa non è mia abitudine, dal momento che c'è un trade-off tra la perfezione e il tempo dedicato a nuovi argomenti di studio. Questo vuol dire che sono prigioniero delle prime stesure e che la perdita di un manoscritto, per me, è fonte di un grande sconforto: il mio intelletto si ribella quando deve ricostruire un argomento perso, ed è probabile che l'impazienza mi costringa a riassumere qualche questione importante, che invece meriterebbe una più estesa trattazione.
Gli studiosi prolifici sono come obbligati a scrivere. Per me un giorno passato in riunione è un giorno perso. Dopo aver digiunato, si ha fame. Dopo un po' di tempo in cui non si è fatta ricerca, al proprio interno c'è come un fluido che vuole liberarsi. Ero solito pensare che l'intelletto inconscio, deliziosamente descritto da Henry Poincaré come quell'entità che lavora sui rompicapo specifici del matematico, accumuli delle scoperte sui problemi particolari che i doveri giornalieri di routine impediscono di affrontare. Ma sono giunto alla conclusione che ciò non fosse del tutto corretto, perché qualunque nuovo argomento può catturare l'attenzione entusiastica dopo un periodo di stasi. Un giorno, nel New England, all'aeroporto mi fu detto che a Washington stava nevicando. Un mio amico, che mi senti chiedere "Si può andare a New York?", mi domandò: "Sei obbligato ad andare da qualche parte, oggi?". Questo è esattamente quanto accade con l'impulso creativo: non deve essere necessariamente indirizzato alla teoria del capitale che ha di recente catturato l'attenzione dello studioso; vuole solo darsi da fare per qualcosa di creativo, e i suoi moto i sembrano essere messi a punto per essere efficienti in qualsiasi direzione si voglia andare.


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