§ Per vincere il deficit

Tagliare la spesa pubblica




Antonio Fazio
Governatore della Banca d'Italia



A partire dagli anni Settanta si è manifestata in tutti i Paesi industriali una tendenza verso l'aumento della spesa pubblica e dei disavanzi pubblici.
In Italia la fase di aumento della spesa e dei disavanzi ha avuto intensità maggiore rispetto agli altri Paesi industriali e si è protratta per un periodo più lungo.
L'espansione della spesa pubblica e dei disavanzi ha indubbiamente consentito di attutire gli effetti prodotti dal rallentamento della crescita economica sul reddito disponibile delle categorie meno protette. L'incalzare degli eventi, la pressione esercitata dalle varie categorie hanno tuttavia attenuato la percezione dei limiti dell'intervento pubblico.
Nella prima metà degli anni Ottanta, nei principali Paesi industriali si è avviata una fase di ripensamento circa le dimensioni e il ruolo del settore pubblico nell'economia. Nella gran parte dei principali Paesi europei tale ripensamento ha condotto all'adozione di politiche di contenimento della spesa, che alla fine degli anni Ottanta hanno portato a un ridimensionamento degli squilibri dei conti pubblici.
Risultati apprezzabili nel ridimensionamento del peso dei disavanzi pubblici in Italia sono stati conseguiti nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Il disavanzo complessivo del settore pubblico è passato dal 13,9 per cento del prodotto interno nel 1985 all'11,0 per cento nel 1992; il saldo primario che nel 1985 era negativo e pari al 5,7 per cento dello stesso aggregato, nel 1992 è divenuto positivo e pari allo 0,4 per cento. Nell'anno 1993 ci sono stati ulteriori miglioramenti.
La riduzione del peso dei disavanzi è stata conseguita soprattutto per effetto dell'innalzamento della pressione fiscale e contributiva; essa ha raggiunto il valore medio esistente negli altri Paesi della Comunità, ma rimane comunque inferiore ai livelli esistenti in Francia e in Germania, Paesi caratterizzati da un'elevata spesa pubblica. Le azioni condotte sulle spese sono valse solamente a contenerne la dinamica.
Nell'attuale fase, per acquisire stabilmente la fiducia degli operatori economici e per beneficiare della ripresa, che si dovrebbe manifestare nel corso dei prossimi due o tre anni, è necessario consolidare i risultati conseguiti e ricercare ulteriori progressi.
L'azione sulla spesa è più efficiente rispetto a quella sulle entrate al fine di ridimensionare i disavanzi; al contrario di quella sulle entrate, essa non produce riflessi negativi sui prezzi. Per contenere la crescita della spesa è necessario procedere a una ferma attuazione dei principi che ispirano la riforma della pubblica amministrazione e degli interventi di settore recentemente definiti dal governo. L'esistenza di ampi margini di inefficienza e di oneri impropri che, a causa della corruzione, gravano sulla spesa pubblica potrà favorire il conseguimento di risparmi consistenti.


Le dimensioni della spesa pubblica dovranno risultare compatibili con livelli della pressione fiscale e contributiva che non frenino l'attitudine a lavorare e a investire. L'azione sulle entrate dovrà quindi concentrarsi sulla riduzione dei margini di evasione e di elusione, tuttora ampi nonostante le misure già adottate, e sul ridimensionamento delle agevolazioni tributarie, non sempre rispondenti a precisi obiettivi di politica economica.

Burotagli

Il declino del travet

Una corsa è in atto in Europa: la diminuzione dei pubblici dipendenti. Vi sono Paesi nei quali i dipendenti della pubblica amministrazione superano il 30 per cento degli occupati: sono gli Stati del "socialismo nordico", Norvegia, Svezia e Danimarca, nei quali la presenza pubblica è dirompente, generando un pesante carico fiscale. L'Italia figurerebbe in media posizione, con il 17,2 per cento del totale degli occupati impiegati presso la pubblica amministrazione.
In realtà, i dipendenti a carico dei contribuenti non sono soltanto ministeriali, ospedalieri, parastatali, militari, ferrovieri, postali, regionali e via dicendo, dai dipendenti di aziende a quelli di enti pubblici di varia natura: dobbiamo tener conto anche delle grandi imprese di Stato (Enel, Eni, Iri, eccetera), finora rette dai contributi di tutti i cittadini. L'Efim è un esempio unico, in Europa, di un gruppo di aziende mantenute dai contribuenti. Il numero dei pubblici dipendenti è all'estero elevato perché comprende anche i part-times, quasi un terzo del totale.
I Paesi Bassi hanno avviato un'operazione che dovrebbe recare, entro quest'anno, a una diminuzione di 9.000 dipendenti l'1,5 per cento del totale), con un risparmio calcolabile sui 550 miliardi di lire.
L'Austria ha un progetto quinquennale, che prevede un calo annuo del 2 per cento dei dipendenti. Il 5 per cento globale dei posti pubblici è il taglio della Finlandia entro il 195; poco di meno (il 4,5 per cento) è la diminuzione entro il '96 dei ministeriali giapponesi. Si noti che il Giappone ha una percentuale ridottissima di pubblici dipendenti: 1,8 per cento del totale degli occupati. Evidentemente nel Sol Levante questo dato sembra elevato.
E l'Italia? I piani dei responsabili della Funzione Pubblica sono noti, com'è apprezzata la loro volontà di stornare sacche di spesa, a partire dalla riduzione delle 3.090 aspettative sindacali retribuite. Tagli di decine di migliaia di posti sono previsti nella scuola, nelle ferrovie e nelle poste. Non si tratta solo di risparmiare: c'è di mezzo anche l'efficienza. E che efficienza ci può mai essere, se il volume dei più recenti quesiti rivolti alla Funzione Pubblica occupa, con le risposte, 1.058 pagine?
Prendiamo, sempre in tema di raffronti europei, gli orari di apertura degli uffici pubblici. L'anagrafe municipale è uno dei servizi più frequentati: se in Italia è di norma aperta la mattina (solo in alcuni comuni anche il pomeriggio), in Portogallo l'orario va dalle 9 alle 19, in Inghilterra dalle 8,30 alle 16,30, in Irlanda dalle 9,30 alle 12,30 e dalle 14,15
alle 16,30, in Francia addirittura dalle 9 alle 18, con apertura il sabato dalle 9 alle 12,30. Il cittadino è così molto più favorito all'estero, dove non è obbligato a perdere una mattinata di lavoro per chiedere, e spesso non ottenere subito, un qualsiasi documento.
Lo stesso succede per le poste. Da noi la maggioranza degli uffici sbarra le porte alle 14. In Belgio e in Danimarca, invece, l'apertura va dalle 9 alle 17; in Grecia gli uffici aprono alle 7,30, tutti quanti, e chiudono alle 14 se sono periferici, addirittura alle 20 se sono centrali. C'era un tempo in cui la distribuzione della corrispondenza avveniva due volte al giorno (tre nei centri maggiori); da un quarto di secolo si è ridotta a una sola. Gli uffici telegrafici e postali sono sempre meno aperti: chi vede il dramma di Rosso di San Secondo, Marionette che passione!, ambientato in un ufficio telegrafico, non può che stupirsi dell'efficienza dei telegrafi italiani, funzionanti nei giorni festivi all'inizio del secolo.
L'Europa ci lascia indietro. Pure gli orari delle imposte, del mai aggiornato catasto, degli uffici amministrativi sanitari sono indice dell'apertura maggiore che si attua all'estero. Là il cittadino è favorito perché il pubblico dipendente lavora di più, lavora meglio ed è meglio compensato.

Europa e Welfare State

Solidarietà a caro prezzo

La legge della discordia, in Olanda, si chiama "Wao", ovvero legge sull'inabilità al lavoro. In vigore dal 1967, prevede che chiunque sia costretto ad abbandonare anzitempo il lavoro per cause fisiche o psicologiche ha diritto a un indennizzo pari al 70 per cento dello stipendio fino all'età della pensione.
L'efficientissima macchina statale dei Paesi Bassi aveva stimato, al varo della legge, che i cittadini potenzialmente interessati sarebbero stati non più di 200 mila. In realtà, alla fine del 1993, i beneficiari della "Wao" erano 918 mila: un vero e proprio esercito, se si considera che l'Olanda vanta poco più di 15 milioni di abitanti.
Una consolazione, seppur magra, per l'Italia afflitta dalle tante pensioni d'invalidità civile probabilmente fasulle. Tutto il mondo è paese, par di capire, soprattutto quando all'interesse dei lavoratori s'accompagna il vantaggio per gli imprenditori, forti di un regime di contributi più appetibile rispetto all'indennità di disoccupazione. Ora in Olanda si medita la radicale trasformazione della legge. Una scelta difficilissima. Ma qualcosa si sente di dover fare.
Il caso olandese serve ad introdurci al tema più drammatico per l'Europa occidentale. Riuscirà il continente a difendere lo stato sociale, conquista della seconda metà del secolo e vero fiore all'occhiello dell'Europa rispetto alle altre aree? Ci riuscirà, innanzitutto, se le strutture nazionali, federali o centraliste, dalla Scandinavia a Pantelleria, sapranno trovare i correttivi efficaci di fronte agli abusi dei governati-elettori, oppure gli stimoli sufficienti per i pubblici dipendenti, controllori spesso disattenti o conniventi. Ma il richiamo alla lotta agli sprechi, ormai, non è più sufficiente.
Lo stato sociale è assediato dalle cifre. Il sistema sanitario nazionale si qualifica, un po' dovunque, come una piovra sempre più vorace: in Germania l'incidenza della spesa sul prodotto interno lordo è passata dall'8,4 al 9,1 per cento dall'80 ad oggi; in Francia si è saliti dal 7,5 al 9,1; in Gran Bretagna, nonostante il pugno di ferro di Margaret Thatcher, dal 5,9 al 6,6 per cento. E l'Italia? Per quanto possa sembrare strano in un Paese di autodenigratori, siamo in perfetta media europea, essendo passati dal 6,6 all'8,3 per cento. Ovunque si diffonde la sensazione che il tetto massimo sia vicino, che le grandi comunità nazionali presto non potranno più sopportare l'onere della sanità pubblica. E, come conclude un recente studio della Arthur Andersen dedicato alla sanità in Europa, ormai si diffonde la convinzione che fra breve "alcune prestazioni offerte dallo Stato dovranno essere finanziate direttamente dai cittadini".
Il discorso fatto per la sanità si può ripetere pari pari per gli altri pilastri dello stato sociale: è in crisi drammatica il diritto al pieno impiego e con esso la previdenza e il diritto alla pensione, il diritto all'istruzione viene ridimensionato e comunque reinterpretato un po' in tutta Europa.
Fino all'89 il sistema, pur con mille crepe, sembrava poter sopravvivere. Poi la crisi è diventata inarrestabile. Quali sono le cause? L'invecchiamento della popolazione, prima di tutto, che aumenta la domanda di servizi sanitari e pensionistici pubblici, mentre riduce l'incidenza dei lavoratori che pagano contributi. Non si può dimenticare, poi, che lo stato sociale è frutto di un'epoca coloniale, nella quale all'Europa mancano grandi competitori industriali, salvo gli Stati Uniti e il fresco miracolo nipponico. Trent'anni dopo, l'Europa si scopre all'improvviso vulnerabile contro aree del mondo che vantano un costo del lavoro molto più contenuto. Soprattutto l'Est asiatico, ma anche l'Europa orientale, rientrata all'improvviso in gioco.
L'Europa, inoltre, scopre di aver smarrito quel vantaggio tecnologico, di preparazione della manodopera, di organizzazione sociale che le consentiva di realizzare il plusvalore necessario alle incombenze dello stato sociale. Giappone e Stati Uniti sovrastano l'industria europea in buona parte dei settori ad alta capacità di innovazione. I loro sistemi sociali, inoltre, vantano una flessibilità molto superiore, la ristrutturazione affrontata negli ultimi anni dalle imprese, soprattutto in Usa, è stata spietata.
Sul piano finanziario, poi, l'Europa si trova denudata delle sue armi tradizionali: i deficit crescenti rendono inutilizzabile la leva della spesa pubblica, pena l'esplosione dell'inflazione; né si può agire sul fronte delle tariffe o di altri incentivi, per le stesse ragioni.
In termini estremamente brutali, l'Europa può garantirsi soltanto la solidarietà che i contribuenti sono disposti a pagare. Pagare subito, s'intende, senza trasferire nuovi fardelli sulle spalle delle generazioni venture. Diventa questa la nuova frontiera fra "destra" e "sinistra": tra chi mira a tutelare il welfare con nuovi prelievi e chi mira a preservare i consumi degli abbienti tagliando qua e là le prestazioni pubbliche più onerose.
E' una battaglia infinita, con mille fronti, che ha cominciato a delinearsi già alla fine dell'anno scorso. Dalle tasse scolastiche più elevate (Francia) al taglio dei precari (Italia), alla proposta di ridurre la scuola dell'obbligo di un anno (Germania), alla chiusura degli ospedali (uno su tre in Gran Bretagna), alla drastica compressione dei diritti alla salute degli stranieri (Francia).
Non è solo questione di entità e volumi del carico fiscale, ma anche di modalità di pagamento. Basta con la tassazione diretta, tuonano a destra. No alle evasioni e alla fiscalità-zero sulla finanza, gridano a sinistra. Più flessibilità e garanzie per i cittadini, oppressi da un gravame di imposte che rischia di rendere controproducente lavorare e produrre. Oppure più governo, anche a costo di trasformare l'Europa nella repubblica dei giudici e dei gabellieri.
La partita è appena cominciata ed è facile prevedere che presto diventerà rovente. Anche perché l'Europa dello stato sociale, delle garanzie, è meno vaccinata di altri sistemi rispetto alla crisi della precarietà: chi viene escluso dall'Europa delle garanzie finisce sotto i ponti di Londra o Parigi o Roma. Senza la dignità di Calcutta o quella di San Francisco.


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