INTRODUZIONE
Questo triste e proteiforme fenomeno, sorto si può dire con l'uomo,
tenacemente lo ha accompagnato nella sua evoluzione attraverso i secoli
e, come tutti i mali, alla lotta che da lungo tempo si mena contro di
esso, resiste dando ancora oggi segni di vitalità.
Apparsa e considerata dappertutto come un fatto conforme alla stessa
natura umana, la schiavitù ha avuto nel tempo e nei luoghi vicende
varie: è stata favorita o tollerata, giustificata o condannata
e punita, ma sempre presente.
Nel periodo della caccia il guerriero selvaggio non fa schiavo il nemico
vinto, ma lo uccide; tuttavia egli generalmente risparmia le donne delle
tribù soggiogate e ne fa sue compagne o serve. Nel periodo pastorale
si incominciano a catturare gli schiavi per venderli, mantenendo soltanto
quei pochi che occorrono per la custodia delle greggi o per una modesta
coltura agricola.
Mari mano che prevalgono le forme di vita sedentaria e si intensificano
gli sfruttamenti agricoli, sempre più si introduce il lavoro
degli schiavi con larghe differenze nelle loro relazioni, differenze
che dipendono essenzialmente dall'ambiente economico, politico e sociale
in cui l'istituto funziona.
Eppure, nei Paesi nei quali ogni manifestazione della schiavitù
è scomparsa e la libertà individuale è ormai considerata
come condizione fondamentale e necessaria della vita sociale e politica,
si deve ancora ammettere la possibilità di attentati al godimento
di siffatta libertà e ad essi ovviare con sanzioni penali, la
cui gravità è indice della gravità e pericolosità
che si attribuisce, e giustamente, al fenomeno contro il quale sono
dirette, e la cui applicazione perciò si ispira sempre più
al principio della competenza universale.
La schiavitù propriamente detta fu quindi fin dai tempi antichi
la condizione di gran parte del genere umano.
ASPETTO GIURIDICO
DELLA SCHIAVITU'
Una definizione della schiavitù entrata nel nostro patrimonio
giuridico coglie e fissa l'elemento comune, costante e caratteristico
di questo fenomeno, e cioè: "il possesso di un uomo e
l'esercizio da parte di esso, sopra un altro uomo, di tutti o di alcuni
degli attributi della proprietà" (L. 26 aprile 1928, n.
1723).
I romani ammettevano per principio che tutti gli uomini erano originariamente
liberi (Inst., I, tit. II) per legge di natura (jure naturali), contrariamente
ai greci i quali consideravano la schiavitù come derivata dalla
legge di natura e dalle permanenti diversità delle razze umane
(Arist., Polit., I).
Il diritto romano considerava lo schiavo come oggetto di diritto e
lo catalogava tra le cose: res infatti era lo schiavo per i romani.
Ma il fatto che lo schiavo, pur essendo astrattamente classificato
tra le cose, era pur sempre un homo, un essere cioè dotato
di intelligenza e di volontà, ne faceva anche nel campo del
diritto una cosa sui generis, ben distinta dalle cose materiali e
brute.
Dello schiavo, essere umano, non si ha solo riguardo all'operare meccanico,
ma anche ai suoi atti di volontà, che sono produttivi di conseguenze
giuridiche sia di fronte al diritto punitivo dello Stato, avendo i
servi responsabilità penale (Dig., XLVIII, 2, "De accus.
et insr.", 12, 4: omnibus legibus servi rei fiunt, ed anche se
il principio è annunciato nell'età imperiale è
già implicito nelle leggi delle XII Tavole), sia nei rapporti
civili, nel senso che lo schiavo può validamente fare atti
di acquisto del dominio e di diritti reali ed essere istituito erede,
con l'effetto tuttavia che l'acquisto di tali diritti e dell'eredità
va al padrone.
Lo schiavo è poi una cosa che ha la potenziale capacità
di diventare persona, cioè da oggetto a soggetto di diritto,
per cui si possono creare nei suoi riguardi singolarissime situazioni
che giustificano le eccezionali norme con cui venivano regolate.
L'essere schiavo è uno stato che sussiste indipendentemente
dal rapporto di soggezione dello schiavo al suo padrone; quindi uno
schiavo senza padrone non cessa per questo di essere schiavo. Infatti
non mancavano schiavi che erano legati alla terra e seguivano quindi
le sorti di essa.
STATO SERVILE
Lo stato servile, sottoponendo lo schiavo all'incontrollato arbitrio
del padrone e rendendolo incapace di diritti soggettivi, porta con
sé queste gravissime conseguenze:
a) Lo schiavo non ha modo di ricorrere a un'autorità superiore,
quando il padrone ne abusi o lo maltratti o eserciti verso di lui
un crudele arbitrio di potere punitivo.
Il diritto infatti sottoponeva lo schiavo all'illimitato arbitrio
del padrone. Il dominus aveva su di lui poteri sovrani: "dominis
in servos vitae necisque potestas "(Gaio, Inst., I, 52). "Quicquid
dominus indebite, iracunde, libens, nolens, sciens, nescius, circa
servum fecerit, iudicium, iustitia lex est" (Petrus Chisologus,
Serm., 141).
Ma se non il diritto positivo, una naturale legge di umanità
segnava al potere dominicale un confine generalmente osservato, che
non era lecito trasgredire senza esporsi alla pubblica riprovazione.
''Cum in servum omnia liceant, est aliquid in hominem licere commune
ius vetet" (Seneca, De elem., 18).
b) Lo schiavo non può costituirsi una famiglia regolare.
In tempi brevi si venne a stabilire qualche mitigazione e si consentì
anche allo schiavo di scegliersi una conserva come compagna e di vivere
con lei in una specie di matrimonio servile chiamato contubernium,
forma che non aveva né essenza né effetti giuridici,
poiché i figli che ne nascevano erano schiavi del pater familias.
Fuori del matrimonio, il figliuolo segue le condizioni della madre
(Inst., I, tit. 3).
Però la tendenza a rispettare le relazioni private sugli schiavi
si fa sempre più grande e, benché per legge l'unione
degli schiavi non può essere che mero contubernium, anche i
giuristi parlano come gli schiavi stessi di maritus, uxor, filius,
parentes, pater, riferendosi proprio a schiavi.
Nella vasta raccolta epigrafica del Dessau (Dessau, Inscriptiones
latinae saelectae, Berolini Weidmann, 1892) contro 4 appellativi di
contubernalis (1611 - 1786 - 1950 - 7400) ne ricorrono cinque di coniux
(1539 - 2906 - 7392 -7402 - 7864), 2 di maritus (1759 - 1510), 2 di
mater (7401 - 7430), 3 di pater (1571 -7430 - 8438), 6 di fìlius
(1515 - 1516 - 1657 - 438 - 7864 - 8082), 1 di soror (7430), 1 di
filia (3507), 1 di frater (1804). L'iscrizione Dessau 8438 ci dà:
"pater carissimus et conservus". E non mancano anche in
letteratura gli stessi termini.
c) Lo schiavo non può essere titolare di diritti patrimoniali.
Lenti e parziali furono gli addolcimenti che il diritto portò
a questa intollerabile situazione. Comunque antica è la tolleranza
con cui, in deroga al principio che ciò che lo schiavo acquista
è del padrone, si lasciava allo schiavo il possesso e la disponibilità
del peculium e con ciò l'eventuale mezzo di riscattarsi.
Questo respiro dava almeno allo schiavo una tenue speranza per poter
riacquistare la libertà e per poter ricompensare le di-ire
fatiche sopportate e i grandi sacrifici compiuti per risparmiare la
poca moneta che gli avrebbe dato l'indipendenza. Virgilio, nella prima
ecloga (Buc., I, 26), allude a questo quando parla del pastore Titiro
che si reca a Roma con un piccolo peculio per recuperare la propria
libertà:
"Et tanta
fuit Romam tibi causa videndi?
Libertas, quae
sera tamen respexit inertem,
Candidior postquarn tondenti barba cadebat;
Respexit tamen, et longo post tempore venit,
Postquam nos Amarillys habet, Galatea reliquit.
Namque, fatebor, enim dum me Galatea tenebat
Nec spes libertatis erat nec cura peculi".
- Melibeo
"E quale motivo avesti così grande per andare fino a Roma?
- Titiro
La libertà, che, tardi, pure alla fine sorrise al neghittoso
ma quando ormai, al raderlo, il pelo cadeva sempre più bianco.
Mi sorrise tuttavia e dopo lungo tempo venne ora che mi sorride Amarillide
e non più Galatea. Infatti confesso il vero, finché
mi tenne avvinto Galatea non ebbi speranza o cura né di libertà
né di peculio".
E in tiri rilievo
della Gallia è forse raffigurato uno schiavo, recante tiri
oggetto non chiaramente distinguibile (forse è un sacco di
denaro), che si presenta davanti ad un personaggio seduto, coi piedi
su di uno sgabello (forse è un pretore) che tende la mano per
ricevere il prezzo dell'affrancamento.
Sul tavolo che separa i due uomini un libro aperto è destinato
probabilmente all'iscrizione dell'atto (comunque l'interpretazione
del rilievo non è sicura) (1). Per tutta l'età repubblicana
né lo schiavo, né i suoi figli ebbero la facoltà
di coprire cariche pubbliche o sacerdotali, né diritto di voto;
non furono ammessi all'esercito, esclusi alcuni casi di pubblico frangente,
come dopo la rotta di Canne, quando lo Stato comprava schiavi e li
mandava nell'esercito. Era vietato l'uso dei cavalli, dei cocchi o
lettighe dentro le mura della città.
E ad Atene, per esempio, dove si dice che gli schiavi godessero di
una certa libertà, era vietata la loro partecipazione ai ginnasi
e le relazioni amorose con giovani libere ed erano esclusi in tutta
la Grecia dall'esercizio delle libere arti, come la pittura e la scultura
(Plin., XXXV, 77).
MANUMISSIO
La servitù era uno stato doloroso, ma non irrimediabile: lo
schiavo poteva recuperare la libertà mediante la manumissio.
La liberazione dalla schiavitù ha origine a sua volta dallo
ius gentium ed è detta "manumissione" in quanto nasce
da una rinuncia del padrone alla potestà che egli ha sullo
schiavo, e il termine che designava la potestas nell'antichissimo
diritto era appunto "manus". Per questa rinuncia non solo
cessa la soggezione dello schiavo al suo padrone, ma, se fatta nelle
forme legittime, egli acquista la piena capacità giuridica,
diventa libero e cittadino romano. Come avveniva che questo atto avesse
conseguenze così esorbitanti e che una facoltà tanto
grave quale è quella di far cittadino romano uno schiavo fosse
concessa ad un privato cittadino è cosa che si intende, data
l'antica costituzione sociale e la natura politica della famiglia
romana. Vi erano diverse forme di manumissio, tra le quali ricordiamo:
1) Manumissio per vindictam: un "assertor in libertatem"
dello schiavo, d'accordo col padrone, contestava a quest'ultimo il
diritto di proprietà davanti al magistrato e, fattoselo assegnare,
gli poneva sulla testa un bastoncino (vindicta) e lo chiamava libero.
In un rilievo di Roma (Villa Altieri) può identificarsi una
scena riferibile alla manumissio per vindictam: uno schiavo col caratteristico
copricapo, inginocchiato per terra, e l'assertor che lo tocca con
una bacchetta e dice: "hunc hominem ex iure Quiritium meum esse
aio secundum suam causam" Alla sinistra è il padrone dello
schiavo che lo prende per mano per farlo girare su se stesso, e dice:
"hunc hominem liberum esse volo".
2) Manumissio censu: il pretore faceva iscrivere lo schiavo nelle
liste dei censori come cittadino romano.
3) Manumissio testamento: affrancazione mediante un atto di ultima
volontà. In quest'ultimo caso, l'affrancato era anche libero
dagli obblighi che legavano il liberto all'antico padrone.
Queste sono le fori-ne civili di manumissio e sono le più solenni
e le più antiche. Il diritto pretorio ne introdusse altre più
semplici (modi praetori); tali forme sono:
4) Manumissio inter amicos: dichiarazione fatta in presenza di amici
di voler liberare lo schiavo.
5) Manumissio per epistulam: lettera con la quale il padrone notificava
allo schiavo la sua intenzione di manometterlo.
6) Manumissio per mensam: invito che il padrone faceva allo schiavo
di adagiarsi al convito, con la manifesta intenzione di manometterlo.
in queste ultime forme di manomissione la tutela pretoria permetteva
agli schiavi di non essere richiamati a servire, ma non li rendeva
capaci, né cancellava pienamente il diritto del padrone su
di essi: per cui, alla morte loro, il patrimonio che avessero acquistato
tornava al padrone.
Inoltre, si considerava libero (secondo un principio della legislazione
giustiniana) il figlio in qualunque momento fosse stata libera la
madre, o in quello della nascita, o in quello della concezione, o
in un momento intermedio tra la concezione e la nascita.
LIBERTA' PROVVISORIE
CONCESSE AGLI SCHIAVI
Nella festa dei Saturnali (feste che si celebravano nel mese di dicembre
in onore di Saturno e alle Idi del mese di agosto), gli schiavi godevano
di una certa libertà provvisoria ed erano esenti dal lavoro;
indossavano abiti di cittadini liberi e partecipavano a pranzi con
i padroni. A tale proposito ricordo ciò che è detto
nella Sat. 7 del Lib. II di Orazio a partire dal v. 75, dove appunto,
approfittando dell'impunità concessa agli schiavi, Davo, il
servo d'Orazio, si presenta nello studio del padrone e gli intona
un preambolo stoico sull'instabilità degli uomini, della quale
non va esente nemmeno lui. E in ciò, conclude Davo, tu non
vali niente più del tuo servo:
"Tunc
mihi dominus, rerum imperiis hominumque
tot tantisque minor, quem ter vindicta quaterque
imposita haud unquam misera formidine privet?
Adde super, dictis quod non levius valeat: nam,
sive vicarius est, qui servo paret, uti mos
vester ait, seu conservus, tibi quid sum ego? Nempe
tu mihi qui imperitas, alii servis miser atque
duceris ut nervis alienis mobile lignum.
Quisnam igitur liber? Sapiens sibique imperiosus...".
[Perché
infatti sei schiavo di passioni e quantunque queste passioni ti liberino
toccandoti con la verga e manomettendoti, tuttavia sei sempre sotto
il loro potere, come una marionetta; ed è libero solo il sapiente
che è padrone di se stesso e non riconosce altri padroni all'infuori
di sé].
Lo sfacciato ragionamento
di Davo ci riporta in un certo senso alla dottrina sofistica nella
quale è appunto implicito questo concetto.
I sofisti infatti, e ciò sia detto per inciso, annullano idealmente
la differenza tra liberi e schiavi, affermando che gli schiavi non
sono tali per natura. Ed Euripide ripete la dottrina sofistica sostenendo
che la differenza tra un uomo libero ed uno schiavo sta nel nomos,
non nella fysis, e che la schiavitù è la peggiore delle
condizioni e che è meglio morire che diventare schiavi, pur
ammettendo che lo schiavo può essere onesto e saggio.
Senza dire della concezione stoica e della influenza dello stoicismo
sulla giurisprudenza romana, particolarmente sull'alto valore della
unità della famiglia. Tema conosciutissimo, a pensarla col
Trincheri, e che meriterebbe di essere trattato a parte.
Nelle comunità religiose, quindi, non era infrequente la promiscuità
fra liberi e schiavi, ed anche presso i Greci lo schiavo trovò
protezione al libero arbitrio soltanto in determinati templi e poteva
prendere parte a feste e agli uffici divini; e nelle feste di Dionisio,
ad esempio, erano messi alla pari con i cittadini e godevano di un
certo privilegio. Ciò, s'intende, sempre in senso limitato.
Agli schiavi non erano negati i diritti di sepoltura e si trovano
iscrizioni che attestano che alla memoria degli schiavi venivano eretti
anche monumenti dai loro padroni, monumenti che portavano le lettere
D.M. (Diis Manibus), giacché secondo il principio romano che
la schiavitù non era per natura, ma per effetto di legge (principio
che contrasta con il concetto aristotelico di schiavitù), la
morte veniva considerata come distruggitrice di ogni legale distinzione
tra schiavi e padroni e i Mani di uno schiavo morto potevano essere
oggetto di venerazione anche per un libero. Spesso gli schiavi erano
sepolti nelle tombe domestiche dei loro padroni.
E il Bonfante (Istituzioni di Diritto Romano, La famiglia, V. I, Vallardi,
1925), dopo aver parlato della posizione dello schiavo in casa, del
suo potere di sacrificare a qualche divinità, delle sue feste,
aggiunge: "La partecipazione degli schiavi al culto col diritto
di essere membri di alcune corporazioni religiose - Collegia funeraticia
-, e il ritenersi locus religiosus anche quello in cui sono sepolti
gli schiavi ci fanno pensare che essi godevano di una certa libertà
probabilmente riconosciuta dal mos e dal fas" (2).
NOTE
1) M. Borda, Lares.
2) Bonfante, Ist. Dir. Rom.
BIBLIOGRAFIA
ARANGIO RUIZ Vincenzo, Istituzioni di Diritto Romano, Napoli, Ed.
Eugenio Jovine.
BONFANTE Pietro, Corso di Diritto Romano, Diritto di Famiglia, Roma,
Ed. Sampaolesi.
BORDA Maurizio, Lares - La vita familiare romana nei Documenti Arch.
e Lett., Roma, Società Amici Catacombe, 1947.
TRINCHERI, La personalità degli schiavi in Roma, Archivio Giuridico.